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mercoledì 30 giugno 2010

Vita di Gesù Cristo di Ricciotti Giuseppe

Vita di Gesù Cristo di Ricciotti Giuseppe

La verità dietro il Codice da Vinci

La verità dietro il Codice da Vinci
Carl Olson analizza il bestseller, oggetto di polemica e di confusione
  
EUGENE, giovedì 18 marzo 2004 (ZENIT.org).- “Il Codice Da Vinci”, di Dan Brown, è un romanzo, ma molti lettori credono di potervi trovare delle “verità”.

Anche molti cristiani ne sono attratti. Molti credono che si tratti di un libro innocuo capace magari di arricchire la loro fede. È per questo che Carl Olson ha deciso di scrivere un libro insieme a Sandra Miesel dal titolo “The Da Vinci Hoax” (ed. Ignatius), che uscirà questa estate.

Olson, editore della rivista “Envoy”, ha illustrato a ZENIT il suo libro, nel quale egli svolge un’analisi e una critica dei numerosi errori contenuti nel “Codice Da Vinci”, e valuta il significato del successo del romanzo, in relazione al panorama culturale e religioso dell’America.

Perché ha sentito il dovere di decifrare il “Codice Da Vinci”?

Olson: Lo scorso agosto, un amico che aveva letto il “Codice Da Vinci” ricevuto in regalo, mi pregò di leggerlo a mia volta, sostenendo che fosse pieno di errori e che avesse una forte inclinazione avversa alla Chiesa cattolica.

Egli riteneva dovessi conoscere quel romanzo, visto il lavoro che svolgo nel campo dell’apologetica, poichè esso stava riscuotendo un grande successo sia da parte della critica che da parte del pubblico; le vendite hanno raggiunto la cifra di 6 milioni di copie.

Quando feci caso ai dati sulle vendite e alle recensioni giornalistiche mi resi conto che aveva ragione. Il romanzo stava – e ancora sta – generando grande polemica e confusione. Seppure si tratti di un romanzo, esso viene considerato da molti come storicamente attendibile, un ritratto del primo Cristianesimo e della Chiesa cattolica. Così, mi decisi di comprarne una copia, presi una penna rossa e mi misi a lavoro.

In quello stesso periodo, la storica medievalista e giornalista Sandra Miesel mi mandò una copia della sua eccellente rassegna sul “Codice Da Vinci” pubblicata sulla Rivista “Crisis”.

Anche io iniziai a ricevere e-mail dai lettori di “Envoy” relativamente al romanzo: mi domandavano se valesse la pena leggerlo, come potessero darvi risposta, e se esso fosse attendibile.

Così, chiesi a Sandra se volesse collaborare con me nella stesura di alcuni articoli online e di un libro che è poi diventato "The Da Vinci Hoax."

L’obiettivo era duplice: mostrare e criticare i numerosi errori contenuti nel “Codice Da Vinci”, e presentare la verità sui primi tempi della Chiesa, sul Cattolicesimo, sulla storia medievale e su una serie di altri argomenti. Il libro compie anche un’analisi del significato del successo del romanzo, in relazione al panorama culturale e religioso.


Quali sono i principali problemi teologici con il “Codice Da Vinci”?

Olson: Il romanzo si fonda su una serie di credenze esoteriche, neo-gnostiche e femministe che si pongono in diretta opposizione al Cristianesimo. Il romanzo sostiene ad esempio che Gesù e Maria Maddalena fossero sposati; e questa è solo la punta dell’iceberg.

Tra le righe emergono sistemi di credenze che considerano il Cristianesimo come menzognero, violento e sanguinario, la Chiesa cattolica come un’istituzione sinistra e misogina, e la verità in definitiva come la creazione e il prodotto di ciascuna persona.

Dan Brown, l’autore del romanzo ha ammesso in alcune interviste che gran parte delle idee del “Codice Da Vinci” non derivano originariamente da lui. Il bagaglio intellettuale, ideologico e spirituale del “Codice Da Vinci” risalirebbe in realtà a molti decenni, se non secoli, addietro.

Il romanzo non è affatto così innovativo come molti lettori ritengono. Come dimostrato dai nostri articoli e dal nostro libro, Brown ha tratto gran parte delle sue idee da una manciata libri pubblicati recentemente e che hanno una grande diffusione, pieni di teorie cospirative, di strambe raffigurazioni della teologia cattolica e spesso di bizzarre e infondate asserzioni su eventi e personaggi storici.

In definitiva, ciò che Brown ha ottenuto è la creazione di un mito popolare che distilla e presenta determinate credenze in una forma non impegnativa, ma dilettevole e attraente.

Questo mito opera su più di un livello, essendo il libro allo stesso tempo un giallo, un romanzo, un thriller, una teoria cospirativa e un manifesto spirituale, tutto in uno.

Il primo elemento di attrazione è costituito dalla promessa di una sorta di gnosi – o conoscenza segreta – su una serie di argomenti e dall’insinuazione dell’idea che l’individualismo soggettivo e non la religione tradizionale sia portatore delle vere risposte alle grandi domande della vita.

La triste ironia è che alcuni cattolici ritengono il romanzo un bellissimo lavoro di letteratura capace in qualche modo di aiutare ad esplorare e a meglio comprendere la propria fede. Ma il romanzo si basa sull’asserzione che Gesù sia meramente umano, che il Cristianesimo sia una spregevole ipocrisia e che ogni affermazione di verità religiosa oggettiva sia da evitare.


Il romanzo apre con una pagina intitolata “Fatto”, in cui si legge: “Ogni descrizione di opera d’arte, architettura, di documenti, e rituali segreti di questo romanzo è esatta”. Lei ha trovato molte cose in questo libro che di esatto hanno ben poco. Quali sono le fondamenta di questi errori? Quali i loro pericoli?

Olson: L’accoglienza diffusa di gran parte delle asserzioni di Bronwn è alquanto sorprendente, specialmente se molte di queste non passano neanche il cosiddetto "desk encyclopedia test” (ovvero neanche sbirciando in una qualsiasi enciclopedia, ndr).

Ad esempio, il romanzo afferma che l’opera di Leonardo da Vinci “La Vergine delle rocce”, che sta al Louvre, sia una tela alta cinque piedi (1 metro e mezzo circa, ndr) , mentre da un rapido controllo su Internet o su un’enciclopedia dimostra che in realtà è alta 6 piedi e mezzo (poco più di 2 metri,ndr).

Normalmente questo tipo di dettaglio verrebbe attribuito ad una licenza artistica. Ma l'insistenza di Brown sulla precisione delle sue descrizioni relative alle opere d'arte - e nel ricordare che la moglie è una storica d'arte - indica che egli non è attento nella trattazione della verità.

Questo diventa ancor più grave quando sostiene che prima del Concilio di Nicea nessuno credeva nella natura divina di Gesù, che la Chiesa cattolica aveva messo 5 milioni di donne al rogo nel Medio Evo e che tutte le maggiori credenze del Cristianesimo sono state prese dalle religioni pagane.

Questo tipo di asserzioni appaiono originare da una sincera avversione alla Chiesa cattolica - il libro non menziona mai il Protestantesimo o l'Ortodossia orientale - e dal desiderio di contestare la pacifica comprensione relativa a determinati fatti, persone e tradizioni.

Il pericolo sta nel fatto che molti lettori sembrano prendere le affermazioni del romanzo come fatti attendibili, credendo di aver trovato il tallone d'Achille della Chiesa.

La situazione diventa ancora più difficile quanto queste persone si rifiutano di prendere in considerazione confutazioni o risposte al "Codice Da Vinci". Ancora una volta appare più forte l'attrattiva di una presunta verità segreta: una volta che qualcuno afferma di conoscerla, non si pensa alla necessità di considerare argomentazioni o fatti ad essa contrari.


Perché ritiene che molte persone, tra cui anche molti cristiani, siano attratti da questo libro?

Olson: Il libro mette insieme elementi certamente attraenti nel contesto di una cultura postmoderna: un atteggiamento relativistico verso la religione, affermazioni fondate su teorie cospirative, un femminismo radicale, un’avversione per l’autorità religiosa e il principio che la realtà sia malleabile e suscettibile di essere personalizzata, per così dire, a piacimento.

Esso si basa inoltre su una formula standard usata per i romanzi, e nonostante si dilunghi su strani rituali sessuali e sul tema dell’androginia, il centro del romanzo è comunque la classica storia d’amore.

Un altro fattore è che i dialoghi del romanzo sono molto simili ai copioni televisivi: conversazioni concise, scarsa elaborazione dei personaggi e del contesto.

Per contro, vi è un’eccessiva enfasi sulle emozioni dei personaggi. Di conseguenza, mentre il libro contiene affermazioni che possono apparire curiose ai lettori, esso si presenta al contempo alquanto piacevole.


Nonostante il “Codice Da Vinci” sia chiaramente un romanzo, esso ha indotto molte persone comuni e del mondo dell’informazione a mettere in dubbio la autenticità del Vangelo e di alcuni insegnamenti della Chiesa. La società contemporanea sta perdendo la capacità di distinguere tra cultura pop e realtà?

Olson: Tristemente, per alcune persone la cultura pop è la realtà; o comunque è l’unico mezzo per interagire e far fronte alla realtà.

Non è che la cultura pop sia di per sé malvagia o che non abbia nulla di buono da offrire. Ma essa generalmente si adopera per dare alla gente ciò che essa vuole sentire, a prescindere dalla verità.

Essa inoltre semplifica e sensazionalizza argomenti che sono complessi e richiedono uno studio attento. E dato che molta della cultura pop è una cultura giovanile, del rock’n’roll, essa porta con sé il senso di sfida all’autorità e alle idee accettate, spesso senza motivo salvo quello del brivido della contestazione.

Occorre notare tuttavia che molte delle idee cardine del “Codice Da Vinci” sono emerse inizialmente in un ambito di istruzione superiore, comprese le contestazioni al contenuto e alla datazione dei Vangeli, nonché all’insegnamento della Chiesa su una serie di argomenti.

Ciò vale anche per i messaggi di femminismo radicale contenuti nel romanzo. Essi sono stati in auge per decenni nell’ambito universitario, ma il libro li ha posti in modo romanzato, tali da poter essere assorbiti da milioni di persone e non solo da qualche centinaio.


Come possono la Chiesa e i suoi appartenenti fugare i miti contenuti nel “Codice Da Vinci”?

Olson: Deve essere ben chiaro che romanzi come il “Codice Da Vinci” non sono “solo un romanzo”. Essi sono uno strumento per veicolare determinate idee e credenze a folti gruppi di persone, spesso composti di individui che non vagliano fino in fondo ciò che stanno leggendo.

La mia preoccupazione non è tanto quella di dire alle persone di non leggere il romanzo, quanto quella di incoraggiarle ad analizzarlo e a valutarlo attentamente in ciò che dice, prendendo in considerazione il perchè è stato scritto.

Gli errori e le idee false contenute nel romanzo richiedono di essere valutate puntualmente, ed il nostro libro lo fa in modo dettagliato. Se una sua confutazione è di valore inestimabile, una solida catechesi è altrettanto importante.

Non è necessaria una laurea specialistica o decenni di studio per riconoscere i problemi relativi ai fatti e alla logica che attraversano il “Codice Da Vinci”. Una buona catechesi è già sufficiente per vaccinare i cattolici dall’errore e fornirli delle conoscenze relative alla dottrina, agli usi e alla storia della Chiesa.

Quando morì Gesù?

Quando morì Gesù?
Per i sinottici Gesù morì il 15 di Nisan che coincideva con la Pasqua ebraica,
per Giovanni invece la morte di Gesù avvenne il 14.
 Perchè questa apparente contraddizione?
Lo spiega Giuseppe Ricciotti nel suo testo 'Vita di Gesù Cristo'
La questione cronologica
§ 536. Quanto al giorno della settimana non sorge alcun dubbio, perché tanto i Sinottici quanto Giovanni mettono l'ultima cena al giovedì e la morte al venerdì seguente. La divergenza sta nella collocazione di questi due giorni nel mese Nisan, perché dai Sinottici risulterebbe che il giovedì dell'ultima ce­na era il 14 Nisan e perciò il venerdì della morte era il 15, mentre da Giovanni risulterebbe che il giovedì era il 13 Nisan e il venerdì il 14. I Sinottici infatti mettono l'ultima cena nel giorno quando immolavano la Pasqua (Marco, 14, 12; cfr. Luca, 22, 7), ossia in cui si faceva l'immolazione dell'agnello pasquale che era prescritta per il pomeriggio del 14 Nisan (§74) perciò l'ultima cena sarebbe stata la cena dell'agnello pasquale celebrata da Gesù al giorno prescritto; essendo poi egli morto il giorno seguente, questo giorno sarebbe stato il 15 Nisan in cui cadeva la Pasqua ebraica. Giovanni invece narra che Gesù morì nella parasceve della Pasqua ( Giov., 19, 14), ossia nel giorno precedente alla Pasqua e prima che in quei giorno i Giu­dei avessero celebrato il rito dell'agnello e mangiato la Pasqua: essi infatti non entrarono nel pretorio (di Pilato) per non contaminarsi ma per mangiare la Pasqua (Giov., 18, 28), riuscendo in quello stes­so giorno a far condannare Gesù e ad ucciderlo; in tal caso Gesù morì il 14 Nisan, e l'ultima cena da lui celebrata la sera precedente non era legalmente la cena dell'agnello pasquale. La seguente tabella mostrerà il consenso e il dissenso fra i Sinottici e Giovanni in questo punto.
 
Mese Nisan Sinottici Giovanni
giorno 13   giovedì: ultima cena
giorno 14 giovedì: ultima cena venerdì: morte di Gesù
giorno 15 venerdì: morte di Gesù  
 
§ 537. Senonché i Sinottici stessi, con talune loro fuggevoli allusioni, inducono a fare ulteriori ed importanti considerazioni. Stando alla loro cronologia, Gesù fu arrestato nella notte fra il 14 e il 15 Nisan, e le varie peripezie del suo processo terminate con la condanna e l'esecuzione di questa cominciarono già alle prime ore del 15 Nisan per prolungarsi fino al pomeriggio di quel giorno. Ora, tutto ciò s'imbatté in una difficoltà gravissima ed evidentissima, cioè nel carattere supremamente festivo che aveva quella notte e quel giorno: in quella notte si mangiava l'agnello pasquale col solenne cerimoniale già visto (§ 75) e da turbe innumerevoli affluite a Ge­rusalemme da ogni paese; e in quel giorno poi, che era la Pasqua (15 Nisan), era rigorosamente prescritta l'astensione da ogni lavoro (Esodo, 12, 16; Levitico, 23, 7), e valevano per esso le norme del ri­poso del sabbato anche se in realtà quel giorno non fosse un sabba­to. E’ pertanto storicamente inconcepibile che gli avversari di Gesù, per quanto colmi di odio contro di lui, trascurassero la cena pasquale di quella notte e violassero il riposo festivo di quel giorno per com­piere tutto ciò che era necessario al processo, alla condanna e alla sua esecuzione. E infatti la sconfinata meticolosità che vedemmo più vol­te applicata al riposo sabbatico non avrebbe permesso varie azioni che troviamo compiute in queste poche ore: ad esempio che coloro i quali in quella notte arrestarono Gesù trasportassero armi ed altri oggetti (Matteo, 26, 47), e che accendessero il fuoco proprio in casa del sommo sacerdote (Luca, 22, 55); ovvero che durante quel santis­simo giorno di Pasqua vi fosse un uomo come Simone il Cireneo che veniva dal campo, dove era stato certamente a lavorare (Marco, 15, 21); oppure che si comprasse una sindone, come fece Giuseppe di Arimatea (Marco, 15, 46); o anche che si preparassero aromi ed unguenti, come fecero le pie donne (Luca, 23, 56).
 
Tutte queste azio­ni erano altrettante violazioni del riposo festivo; se perciò si consi­derano sommate tutte insieme, portano alla conclusione che quella notte non era sacra e quel giorno non era santissimo né di riposo per molti Giudei se non per tutti - e quindi che costoro non avevano mangiato l'agnello pasquale la sera del giovedì come Gesù, né cele­bravano la Pasqua il venerdì. Questa conclusione è tanto più impor­tante, in quanto estratta da informazioni offerte dai soli Sinottici. Si aggiunga a conferma un'altra osservazione. Gesù muore nel pomeriggio del venerdì, che secondo i Sinottici sembra essere il giorno di Pasqua (15 Nisan). Appena egli è morto, Giuseppe di Arimatea si affretta a seppellirlo in quello stesso pomeriggio, perché col tramon­to sarebbe cominciato il riposo del successivo sabbato (Marco, 15, 42 segg); così pure dal canto loro le pie donne prepararono in quel pomeriggio gli aromi e gli unguenti per la venerata salma, ma giun­ta la sera passarono inoperose il sabbato conforme il comandamento (Luca, 23, 56). Tutto ciò sarebbe regolarissimo riferendosi al ripo­so del vero sabbato settimanale: ma se in quel venerdì ormai tra­montato, in cui era morto Gesù, era anche caduta la Pasqua, que­sta solennità portava con sé egualmente il riposo festivo; e allora come mai e perché mai affrettarsi tanto nel pomeriggio di quel venerdì, se già in esso vigeva un riposo anche più solenne in virtù del­la solennità pasquale? Quindi anche da questo lato, ed egualmente per notizie offerte dai Sinottici, ritornerebbe la conclusione che pu­re Giuseppe di Arimatea e le pie donne non celebravano la Pasqua in quel venerdì, il quale perciò non era per essi il 15 Nisan. In realtà la divergenza fra i Sinottici e Giovanni, stando ai sempli­ci dati ricavati da essi, è inconciliabile; se si seguono i Sinottici Ge­sù sembra morto il 15 Nisan, se si segue Giovanni è morto il 14 Nisan.
§ 538. I tentativi per comporre la divergenza sono stati molti, seb­bene parecchi di essi non avessero neppure l'ombra di fondamento storico. In tale condizione si ritrova, ad esempio, l'ipotesi secondo cui in quell'anno i Giudei avrebbero ritardato di un giorno la Pa­squa trasportandola al 16 Nisan, per aver agio di processare ed uc­cidere Gesù, mossi unicamente dall'odio contro di lui, mentre Gesù avrebbe mangiato l'agnello pasquale al tempo prescritto; questa ipo­tesi, proposta già in antico da Eusebio di Cesarea e recentemente da alcuni moderni, ha il torto di essere antistorica in quanto dimentica il tenacissimo attaccamento che gli avversari di Gesù avevano alle loro tradizioni, e che non avrebbe ce­duto il passo neppure al loro odio contro Gesù e ciò, senza rile­vare l'assurdità che siffatto spostamento della Pasqua in odio a Gesù sarebbe stato decretato in poche ore, imposto a folle enormi che non conoscevano neppure di nome Gesù, e perfino a persone a lui bene­vole quali Giuseppe di Arimatea e le pie donne. Altra soluzione che non risolve nulla è quella secondo cui Giovanni, allorché dice che i Giudei non entrarono nel pretorio per non conta­minarsi ma per mangiare la Pasqua, alluderebbe alla consumazione delle altre offerte del ciclo pasquale, ma non a quella dell'agnello che i Giudei avrebbero già mangiato nella stessa sera che Gesù. Senonché, anche astraendo dal fatto che rimarrebbe egualmente la difficoltà del riposo violato, questa soluzione è dimostrata falsa dal­l'uso rabbinico dell'espressione mangiare la Pasqua, la quale si rife­risce costantemente all'agnello pasquale. Fra quegli studiosi moderni che vogliono trovare nel IV vangelo tutte narrazioni allegoriche ha incontrato molta fortuna la soluzione che ritiene come storica soltanto la cronologia dei Sinottici e considera invece la cronologia del IV vangelo come risultato di una accomo­dazione dogmatico-allegorica; Gesù sarebbe morto in realtà il 15 Ni­san, giorno della Pasqua ebraica, giorno dell'immolazione dell'agnel­lo pasquale, soltanto per significare che egli è il simbelico agnello pa­squale del Nuovo Testamento che ha definitivamente sostituito l'an­tica vittima della Pasqua ebraica, conforme al principio dogmatico di S. Paolo: (Quale) nostra Pasqua fu immolato Cristo (I Cor., 5, 7). Senonché, chi non si lasci abbagliare dalle apparenze, questa solu­zione apparirà non meno antistorica di altre. Essa infatti passa sopra, con fallace indifferenza, agli importantissimi accenni che già rilevam­mo dagli stessi Sinottici, i quali su questo argomento sono considerati storici dagli stessi seguaci di tale soluzione. Se Gesù morì il 15 Ni­san e se quel giorno era Pasqua, perché mai molti Giudei non os­servavano in quel giorno il riposo festivo come incidentalmente ma sicuramente abbiamo appreso dai Sinottici? Sarebbero forse allegorici in altra maniera anche i Sinottici? O non piuttosto la presunta cronologia allegorica del IV vangelo è storica non meno di quella dei Sinottici? Quanto all'unica ragione positiva addotta, cioè la coinci­denza della immolazione dell'agnello pasquale con la morte di Gesù, è ragione più speciosa che soda; anzi, esaminata più da vicino, sem­brerebbe piuttosto una difficoltà in contrario che una ragione in fa­vore. Se Gesù è morto secondo i Sinottici il 15 Nisan ed ha cele­brato la cena pasquale la sera del 14, Giovanni aveva ogni motivo allegorico per conservare questa cronologia e non già per mutarla; in­fatti, secondo essa, Gesù avrebbe istituito l'Eucaristia proprio men­tre i Giudei celebravano la cena pasquale, ed è appunto l'Eucaristia il rito unico e perenne che nella Chiesa cristiana ha sostituito i vari riti sacrificali del giudaismo; perciò Giovanni, che giustamente è ri­conosciuto anche dagli avversari come l'evangelista del Cristo “pane di vita” (§ 373, nota), poteva attenersi tranquillamente alla cronologia dei Sinottici ritrovandovi pienamente appagata la sua inclinazione dogmatico-allegorica. E invece, secondo il suo solito, Giovanni ha ritoccato in parte quella cronologia, mettendo in miglior luce quanto era stato accennato vagamente dai Sinottici stessi. In tal ca­so non parlerebbe in lui il testimonio oculare e prediletto, piuttosto che il presunto allegorizzante?
§ 539. In questa vecchia e intricata questione i recenti e proficui studi degli antichi documenti rabbinici hanno aperto una nuova via, che è forse la buona. Già avemmo occasione di rilevare quanto fos­sero empirici ed incerti i mezzi con cui ai tempi di Gesù si fissava il calendario giudaico, e come questo calendario fosse di una elastici­tà appena concepibile per noi moderni (§ 180); ebbene, appunto da questa elasticità potrebbe dipendere la divergenza fra i Sinottici e Giovanni, consistendo essa nel collocare il venerdì della morte di Gesù o al 14 o al 15 Nisan. Se quel venerdì fu insieme il 14 e il 15 Nisan - ossia se alcuni Giudei lo computavano come il 14 e altri come il 15 - sarebbe conciliata la divergenza, perché i Sinottici si rife­rirebbero ai Giudei che consideravano quel venerdì come 15 Nisan, mentre Giovanni si riferirebbe agli altri che lo consideravano come il 14 Nisan. Troviamo infatti che, ai tempi di Gesù, si agitava una seria controversia fra Sadducei e Farisei a proposito della data della Pentecoste, e per conseguenza anche della Pasqua essendo le due feste ricollegate fra loro. I partigiani della famiglia di Boeto (§ 33), influentissima nel ceto sacerdotale e sadduceo, sostenevano che la Pentecoste doveva celebrarsi sempre di domenica; ma poiché i 50 giorni d'interstizio fra la Pasqua e la Pentecoste (§ 76) si cominciavano a contare da quel giorno dell'ottava Pasquale nel quale si offriva nel Tempio il primo manipolo di spighe, perciò essi sostenevano che l'offerta del ma­nipolo doveva farsi sempre nella domenica di detta ottava. I Farisei al contrario sostenevano che la Pentecoste poteva celebrarsi in qualunque giorno settimanale; quindi l'offerta del manipolo doveva farsi sempre al giorno immediatamente successivo alla Pasqua, cioè al 16 Nisan, qualunque giorno settimanale esso fosse. Stante questa divergenza i Boetani e in genere i Sadducei usavano spostare il calendario, specialmente nei casi in cui la Pasqua (15 Nisan) fosse caduta di venerdì ovvero di domenica. Nel caso di Pa­squa al venerdì, essi posticipavano il calendario d'un giorno e face­vano cadere in quel venerdì l'immolazione dell'agnello e la cena pasquale (14 Nisan), nel sabbato la Pasqua (15 Nisan), e nella dome­nica l'offerta del manipolo (16 Nisan). Nel caso di Pasqua alla do­menica anticipavano d'un giorno e facevano cadere in quella dome­nica l'offerta del manipolo (16 Nisan), nel precedente sabbato la Pasqua (15 Nisan), e nel precedente venerdì l'immolazione dell'agnello (14 Nisan). Questo spostamento di calendario si otteneva facil­mente, anche mediante piccoli sotterfugi, approfittando dell'empiri­smo con cui si regolava la fissazione del calendario e di cui già trat­tammo (§ 180). A questa accomodazione dei Sadducei non acconsentivano però i Fa­risei; i quali, non preoccupandosi del giorno settimanale in cui ca­deva la Pentecoste, celebravano il rito dell'agnello, quello della Pa­squa e quello del manipolo, nei giorni in cui effettivamente cade­vano. Si produceva quindi una scissione fra coloro che celebravano questi riti. La gran massa del popolo, dominata dai Farisei, li seguiva an­che nella fissazione cronologica di questi riti. AI contrario le classi aristocratiche, più legate al ceto sacerdotale, seguivano la fissazione dei Boetani e dei Sadducei. Ogni gruppo seguiva la propria crono­logia, non curandosi del gruppo opposto; tuttavia non dovevano mancare molti individui i quali o per ragioni di comodità seguivano la cronologia del gruppo non loro, ovvero non appartenendo a rigo­re a nessun gruppo sceglievano fra le due alternative quella che me­glio piaceva.
§ 540. Ora, applicando questi dati al caso di Gesù, si trova una corrispondenza sorprendente. L'anno in cui Gesù mori, la Pasqua cade­va regolarmente al venerdì. Perciò i Sadducei, conforme alla loro norma, posticiparono il calendario d'un giorno per ottenere che l'of­ferta del manipolo cadesse alla domenica. I Farisei invece si attenne­ro al calendario regolare, respingendo la posticipazione dei Sadducei e celebrando l'offerta del manipolo al sabbato. Il popolo si divise fra le due correnti. La seguente tabella mostrerà nelle prime due colonne la differenza di datazione della festività pasquale tra i Sadducei e i Farisei, nelle ultime due colonne le rispettive posizioni degli evangelisti (cfr. ta­bella al § 536):
Mese di Nisan Giorno settimanale Sinottici Giovanni
Sadducei Farisei      
12 13  Mercoledì    
13 14 cena dell'agnello Giovedì 14 Nisan: ultima cena di Gesù 13 Nisan: ultima cena di Gesù
14 cena dell'agnello 15 Pasqua Venerdì 15 Nisan (Pasqua) : Morte di Gesù 14 Nisan: cena dell'agnello dei "Giudei"  Morte di Gesù
15 Pasqua 16 offerta del manipolo Sabbato   15 Nisan Pasqua dei Giudei
16 offerta del manipolo   Domenica    
         
         
Si noti come Giovanni concordi col calendario mensile dei Sadducei, e invece i Sinottici concordino con quello dei Farisei. Infatti l'ultima cena di Gesù fu certamente la cena legale dell'agnello, e fu tenuta aI giovedi nello stesso tempo che la tenevano i Farisei e in maggioran­za quei del popolo; i quali consideravano quel giorno come il 14 Nisan, e il seguente venerdì come il 15 ossia la Pasqua. Ma la pre­ponderanza del Sinedrio, che condannò Gesù, era composta di Sad­ducei (§ 58); i quali perciò consideravano quel giovedì come il 13 Nisan, e di conseguenza ritardavano la cena dell'agnello al venerdì seguente e la Pasqua al sabbato seguente. Così si comprende anche perché nel venerdì della morte di Gesù non osservassero il riposo fe­stivo, sebbene quel giorno cadesse la Pasqua; era Pasqua per i Fa­risei, ma non per molti altri che per una ragione o l'altra seguivano il calendario dei Sadducei. In conclusione, i Sinottici si riferiscono al calendario mensile seguito da Gesù in accordo con i Farisei, pur accennando chiaramente al disaccordo di altri; Giovanni invece si ri­ferisce al calendario seguito dai sinedristi Sadducei; condannatori uffi­ciali di Gesù, pur supponendo già noto che il calendario seguito da Gesù era differente. ~ assolutamente sicura questa spiegazione della vecchia questione? No, giacché rimangono ancora taluni punti oscuri, che qui sarebbe eccessivo elencare. Tuttavia a noi sembra la più fondata storicamen­te, soprattutto perché tiene conto della elasticità del calendario con­temporaneo; la quale elasticità è una realtà storica di primaria im­portanza perché essa, come entra per qualche parte nelle famose controversie sorte nel cristianesimo primitivo a proposito della cele­brazione della Pasqua cristiana, così ancora oggi spiega le divergen­ze cronologiche che si riscontrano a proposito di costumanze islamiche fra Arabi, anche di regioni confinanti, formandosi il loro calendario sull'osservazione diretta della luna.

A proposito del Vangelo di Giuda

Il 7 aprile è stato presentato a Washington con grande apparato pubblicitario il manoscritto (= ms) copto di cui si parlava non senza polemiche da qualche tempo. I visitatori del National Geographic Museum hanno potuto vedere sette pagine del codice. Le polemiche riguardavano le peripezie attraverso le quali il ms è uscito dall’Egitto passando per diverse contrattazioni fino ad approdare in Svizzera e l’interpretazione del manoscritto stesso. Stando alle informazioni fin qui fornite si tratta di un codice di 66 pagine contenente: Prima Apocalisse di Giacomo; Lettera di Pietro a Filippo; frammento di testo chiamato provvisoriamente Libro di Allogenes, eresiarca del terzo sec. d. C.; Vangelo di Giuda.

Per ragioni facilmente intuibili attenzione e curiosità mediatiche sono puntate su quet’ultimo testo apocrifo, di cui il ms costituisce la prima copia conosciuta in assoluto.
La polemica è tra lo studioso americano dei manoscritti di Nag Hammadi James M. Robinson e il gruppo che ha curato la pubblicazione del ms in due libri: Lost Gospel Revealed: The Quest for the Gospel of Judas (Vangelo perduto ritrovato: la ricerca del Vangelo di Giuda) e The Gospel of Judas (Il Vangelo di Giuda) .
Non disponendo ancora dei due libri e non conoscendo personalmente il testo del ms, da quanto è stato comunicato il testo contiene il libro apocrifo intitolato Vangelo di Giuda. L’esistenza di detto Vangelo apocrifo è nota. Per citare un solo esempio si veda la scheda di Mario Erbetta in Gli apocrifi del Nuovo Testastamento. Vangeli I/1, Marietti, Torino 1975, p. 291 o di altri autori in raccolghe analoghe di libri apocrifi.

Ireneo di Lione, che è il primo a parlarne, riferisce che alcuni gnostici, oltre ad alcuni scritti di loro invenzione, possedevano anche un Vangelo di Giuda, il traditore (Euaggelion Iouda, Iudae evangelium; Adv. haer. I 31, 1). Le notizie di Ireneo si ritrovano in Epifanio di Salamina (Pan. XXXVIII 1, 5) e Teodoreto di Ciro (Haeret. fab. compendium I 15; PG 83, 368B).

Questi gnostici appartenevano alla setta chiamata “Cainiti” ed erano affini agli “gnostici” propriamente detti di Epifanio, nicolaiti, ofiti, sethiani e carpocraziani.
Circa il contenuto del cosiddetto Vangelo di Giuda finora gli studiosi cercavano di dedurlo, con molte riserve, dai lineamenti generali dalla dottrina dei “Cainiti”. Si riteneva possibile che esso contenesse un racconto della passione di Gesù, dove il tradimento di Giuda era descritto (e giustificato) come un mezzo per procurare la salvezza universale. In questo modo Giuda avrebbe impedito che la verità fosse rovinata (da Gesù Cristo) o che il disegno delle cattive potenze (gli arconti) andasse in porto. Gli arconti volevano impedire la crocifissione, per evitare che in questo modo gli uomini, sottratti allo loro potenza, raggiungessero la salvezza. Epifanio (Pan. XXXVIII 3, 3-5) e lo Pseudo-Tertulliano (Adv. omn. haer. 2) accennano a due gruppi di “Cainiti”, concordi nell’onorare Giuda ma divisi nella valutazione del significato della persona di Gesù, da alcuni svalutata.

Anche sulla dottrina del Vangelo di Giuda gli studiosi fin qui hanno avanzato solo qualche supposizione. È confermata l’opinione degli studiosi che l’apocrifo si presentava quale dottrina “segreta” esposta da Giuda come insegnamento ricevuto per rivelazione e gnosi superiore e perfetta. Doveva avere un carattere licenzioso sul piano morale e fortemente contrario alla Legge (se giungeva a giustificare il tradimento di Giuda e il fratricidio di Caino). La data di composizione dell’apocrifo, data la notizia di Ireneo, deve precedere il 180. Gli specialisti pensano al 150. Quanto al ms che ora viene fatto conoscere, si dice che può risalire al terzo o quarto secolo e si tratterebbe di testo tradotto dal greco.

Non si vede come essa la pubblicazione di questo testo possa “riaprire il dibattito e le ricerche sul cristianesimo delle origini”. Semmai potrà contribuire a far conoscere qualche dettaglio sullo sviluppo di gruppi gnostici. Se, come è stato detto, nel ms si leggono espressioni quali: “Allontanati dagli altri e ti dirò i misteri del regno… tu supererai gli altri, perché sacrificherai la parte umana di me”, viene da esclamare: più gnostico di così! È noto infatti che un pilastro della gnosi era proprio il disprezzo della materia e la segretezza della dottrina ne costituiva un secondo.

Gli editori del ms parlano di “nuova luce” sulla figura di Giuda. Se ci si riferisce al fatto che Giuda venga scagionato dalla responsabilità del tradimento, non si tratta di cosa nuova. Certamente la figura di Giuda e il suo il ruolo nella morte di Gesù costituivano un problema anche per la comunità apostolica. Nel Vangelo secondo Giovanni Gesù prega: “Quand’ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi. Nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si compisse la Scrittura” (Gv 17,12). Questo però non implica nessuna connotazione di fatalismo o predestinazionismo.
Giuda si è consegnato al maligno liberamente rimanendo responsabile del suo terribile atto di tradimento del Maestro, anche se la Chiesa non si è mai pronuciata sulla sua sorte finale. Riguardo alla morte di Gesù il Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda la “complessità storica del processo di Gesù espressa nei racconti evangelici” e aggiunge che “quale possa essere il peccato personale dei protagonisti del processo (Giuda, il Sinedrio, Pilato), Dio solo [lo] conosce” (n. 597). Quanto poi alla dottrina apostolica della morte redentrice di Cristo nel disegno divino di salvezza precisa: “La morte violenta di Gesù non è stata frutto del caso in un concorso sfavorevole di circostanze. essa appartiene al mistero del disegno di Dio, come spiega san Pietro agli Ebrei di Gerusalemme fin dal suo primo discorso di Pentecoste: «Egli fu consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio» (At 2,23). Questo linguaggio biblico non significa che quelli che hanno «consegnato» Gesù (At 3,13) siano stati esecutori passivi di un vicenda scritta in precedenza da Dio” (CCC n. 599).

Lo stesso vale per “qualche eventuale riflesso sulla dottrina”, sui quali gli editori finora non hanno detto nulla di preciso, stando ai dispacci di agenzie di stampa. Se il ms risale ai “Cainiti”, è possibile che il testo contenga qualche informazione sul rito sessuale praticato dalla setta per raggiungere la gnosi perfetta. La formula che accompagnava tale rito è riportata da Ireneo il quale riferisce che questi eretici ritenevano che “in ciascuno dei peccati o delle turpi azioni è presente un angelo e mentre le compie osa attribuire a lui le azioni audaci e impure e ciò che è in quell’azione lo esprimono con il nome dell’angelo dicendo: «O angelo, io abuso dell’opera tua; o Potenza, io compio la tua operazione!» E la scienza perfetta consiste apppunto nell’intraprendere senza timore azioni tali, che non è lecito neanche nominare” (Adv haer. I, 31, 2).

Giovanni Claudio Bottini

Links correlati: National Geographic
 
 


La verità sul “Vangelo di Giuda”
tratto da  Zenit.org
Intervista a padre Thomas Williams, docente di Teologia Morale
La National Geographic Society ha annunciato di voler pubblicare [...] una traduzione in italiano di un antico testo identificato come il “Vangelo di Giuda”.

Il manoscritto di 31 pagine in lingua copta, esposto per la prima volta a Ginevra nel 1983, sarebbe stato tradotto solo ora.

ZENIT ha chiesto al sacerdote legionario Thomas D. Williams, Decano della Facoltà di Teologia dell’Università Regina Apostolorum di Roma, di commentare l’importanza di questa scoperta.

Cosa è il “Vangelo di Giuda”?

Padre Williams: Il manoscritto, che deve essere ancora autenticato, probabilmente risale al IV o V secolo, ed è una copia di un documento più antico, composto nell’ambito della setta gnostica dei cainiti [nome che deriva da Caino].

Il documento descrive Giuda Iscariota sotto una luce positiva, narrando come egli avesse obbedito ad un comando divino di consegnare Gesù alle autorità, per la salvezza del mondo.

Potrebbe ben essere una copia del “Vangelo di Giuda” a cui si riferisce Sant’Ireneo di Lione nel suo lavoro “Contro le Eresie”, scritto verso il 180 d.C.

Qualora questo documento si rivelasse autentico, quali questioni porrebbe rispetto alla tradizionale fede cristiana? Sarà in grado di “scuotere il Cristianesimo nelle sue fondamenta” come ipotizzato da alcuni commenti di stampa?

Padre Williams: Sicuramente no. I vangeli gnostici, di cui ne esistono diverse versioni oltre a questa, non sono documenti cristiani in sé, poiché hanno origine da una setta sincretista che incorporava elementi tratti da diverse religioni tra cui anche il Cristianesimo.

La comunità cristiana ha rifiutato questi documenti sin dal primo momento in cui sono apparsi, per via della loro incompatibilità con la fede cristiana.

Il “Vangelo di Giuda” rientrerebbe tra questi documenti, pur mantenendo un grande valore storico, per il contributo che sarà in grado di dare alla nostra conoscenza del movimento gnostico. Ma esso non pone in alcun modo in questione il Cristianesimo.

È vero che la Chiesa ha tentato di nascondere questo testo e altri testi apocrifi?

Padre Williams: Questi sono miti fatti circolare da Dan Brown e altri teorici della cospirazione.

Basta andare in qualsiasi libreria cattolica per trovare una copia dei vangeli gnostici. I cristiani possono non ritenerne vero il contenuto, ma non vi è alcun tentativo di nasconderli.

Ma un antico documento di questo tipo non può porsi in concorrenza rispetto alle fonti cristiane tradizionali come i quattro Vangeli canonici?

Padre Williams: Non dimentichiamo che lo gnosticismo è nato nella metà del secondo secolo e che il “Vangelo di Giuda”, se autentico, probabilmente risale alla seconda metà di quel secolo.

Per dare una prospettiva storica alla questione, sarebbe come se lei o io scrivessimo oggi un testo sulla Guerra civile americana, che poi venisse successivamente utilizzato come fonte storiografica primaria. Il testo non può essere stato scritto da testimoni oculari, come invece è avvenuto per almeno due dei Vangeli canonici.

Per quale motivo gli esponenti del movimento gnostico sarebbero stati interessati alla figura di Giuda?

Padre Williams: Una delle maggiori differenze tra il credo gnostico e quello cristiano riguarda l’origine del male nell’universo.

I cristiani credono in un Dio buono che ha creato un mondo buono, e che, a causa del cattivo uso del libero arbitrio, il peccato e la corruzione siano entrati nel mondo, portando con sé disordine e sofferenza.

Gli gnostici invece accusano Dio per il male presente nel mondo e imputano a lui la responsabilità di aver creato il mondo in questa forma disordinata e imperfetta. Di conseguenza rivalutano figure dell’Antico Testamento come Caino che ha ucciso il fratello Abele, e Esau, il fratello più grande di Giacobbe, che ha venduto la sua primogenitura per un piatto di lenticchie.

Giuda rientra perfettamente nei canoni gnostici perché mostra un Dio che vuole introdurre il male nel mondo.

Ma il tradimento di Giuda non era una parte necessaria del piano di Dio, come questo testo lascia ad intendere?

Padre Williams: Dio, essendo onnisciente, sa benissimo quali scelte noi faremo ed è in grado di intrecciare anche le nostre decisioni sbagliate nel suo piano provvidenziale per il mondo.

Nel suo ultimo libro, il Papa Giovanni Paolo II eloquentemente riflette su come Dio continui a far emergere il bene persino nell’ambito del peggior male di cui l’uomo possa essere capace.

Questo non significa, tuttavia, che Dio voglia farci del male, o che egli abbia voluto che Giuda tradisse Gesù. Se non fosse stato Giuda sarebbe stato qualcun altro. Le autorità avevano già deciso di mettere Gesù a morte ed era solo questione di tempo.

Qual è la posizione della Chiesa su Giuda? È possibile “riabilitarlo”?

Padre Williams: La Chiesa cattolica ha la facoltà, attraverso un procedimento di canonizzazione, di dichiarare la santità di talune persone. Ma non ha un analogo procedimento per dichiarare che altre persone siano state condannate.

Storicamente, molti hanno ritenuto che Giuda si trovi probabilmente nell’inferno, sulla base della grave accusa formulata da Gesù: “Sarebbe meglio per quell'uomo se non fosse mai nato” (Mt 26, 24). Ma persino queste parole non offrono una prova definitiva sul suo destino.

Nel suo libro del 1994, “Varcare la soglia della speranza”, il Papa Giovanni Paolo II ha scritto che questa dichiarazione di Gesù “non può essere intesa con sicurezza nel senso dell’eterna dannazione”.

Ma se c’è qualcuno che si merita l’inferno non è proprio Giuda?

Padre Williams: Certamente molte persone si meritano l’inferno, ma non dobbiamo mai dimenticare che la misericordia di Dio è infinitamente più grande della nostra malvagità.

Pietro e Giuda, ad esempio, hanno commesso azioni colpevoli molto simili: Pietro ha rinnegato Gesù tre volte e Giuda lo ha tradito. Eppure ora Pietro viene venerato come santo e Giuda semplicemente come il traditore.

La principale differenza tra i due non è la natura o la gravità del loro peccato, ma la loro disponibilità ad accettare il perdono di Dio. Pietro ha pianto per i suoi peccati, è tornato da Gesù ed è stato perdonato. Il Vangelo racconta invece che Giuda si è impiccato preso dalla disperazione.

Perché il “Vangelo di Giuda” sta suscitando tanto interesse?

Padre Williams: Simili teorie relative a Giuda non sono certamente una novità.

Basti pensare al musical del 1973 “Jesus Christ Superstar”, in cui Giuda canta dicendo di non aver pensato affatto al compenso e di non essere arrivato a quel punto per sua spontanea volontà, o al romanzo di Taylor Caldwell, del 1977, “Io, Giuda”.

L’enorme successo del “Codice da Vinci” ha sicuramente risollevato il polverone ed ha fornito l’incentivo economico per riproporre teorie di questo tipo.

Michael Baigent, autore del libro “Holy Blood, Holy Grail”, ha di recente pubblicato un libro dal titolo “The Jesus Papers” (I testi su Gesù) che ricicla la vecchia storia che Gesù sia sopravvissuto alla crocifissione.

E un recente studio “scientifico”, riguardo al racconto evangelico di Gesù che cammina sulle acque, afferma che le condizioni meteorologiche avrebbero potuto essere tali per cui Gesù abbia in realtà camminato sul ghiaccio.

In definitiva, per coloro che rifiutano a priori la possibilità dell’esistenza dei miracoli, qualsiasi teoria, per quanto stravagante, è in grado di sconfessare le convinzioni cristiane.

domenica 27 giugno 2010

Schema dell'inferno dantesco!

http://www.classicitaliani.it/index043.htm

Gabriele Zanella La peste del 1348 Italia, Francia e Germania: una storiografia a confronto

sommario
1. Premessa 1.1. Boccaccio 2. Il modulo 2.1. Le cause prossime 2.2. La fenomenologia 2.2.1. Provenienza 2.2.2. Modo di trasmissione 2.2.3. I sintomi 2.2.4. Ampiezza di diffusione 2.2.5. Caratteristiche della malattia 2.2.6. Durata 2.2.7. Effetti 2.2.7.1. Tasso di mortalità 2.2.7.2. Qualità delle perdite 2.2.7.3. Le vittime illustri 2.2.7.4. Impotenza dei medici 2.2.7.5. Sull’economia-società 2.2.7.6. Reazioni 2.2.7.6.1. Comportamenti 2.2.7.6.2. Provvedimenti presi 2.3.La colpa 3. Italia 3.1. Michele da Piazza 3.2. Cronaca senese 3.3. Matteo Villani 3.4. Marchionne 3.5. Marco Battagli 4. Francia 4.1. Breve Chronicon Flandriae 4.2. Gilles li Muisit 4.3. Jean le Bel 4.4. Froissart 5.Germania 5.1. Konrad von Megenberg 5.2. Annales Frisacenses 5.3. Continuatio Novimontensis 5.4. La cronaca di Colonia 5.5. La cronaca di Erfurt 5.6. Francesco da Praga 6. Conclusioni
Premessa
L’anno 1348 si era aperto, nel ricordo dell’autore del Chronicon Estense, come per tanti dell’età immediatamente successiva, nel segno della peste: «Per totum orbem maxima pestis mortalitatis fuit» [1]. Del turbamento generale che ne seguì si trova segno, perfino materiale, nelle carte che ci riportano le cronache coeve [2]. Per quel che riguarda latamente il regno di Germania Rolf Sprandel ha rilevato una vera e propria spaccatura storiografica, tante sono le cronache interrotte nei fatidici anni 1348-50 [3]. La grande peste, la peste nera: nella antica storiografia la “misura”, la pietra di paragone su cui saggiare le epidemie successive [4]; nella moderna il simbolo più abusato della grande, epocale “crisi” del XIV secolo [5], culmine e coronamento di un decennio di calamità scrupolosamente, seppur con un certo disordine, registrate dai cronisti: cavallette, inondazioni, carestie, sbandamenti morali degli uomini come del consueto andamento dei prezzi, inasprimenti fiscali dovunque, furia di tutti gli elementi naturali ed umani, avvertimenti straordinari dal cielo e dalla terra. Nell’anno terribile, infine, riassunto ed amplificazione del decennio, non solo terremoto e peste “universali”, ma «infinita disturbia», con conseguenze traumatiche [6]. Molti credettero prossima quella fine del mondo descritta in Mt 24,7: «… et erunt pestilentiae et fames et terraemotus per loca», e che già Giovanni Villani aveva visto vicina [7].
Su questo tempo eccezionale di epidemie e carestie puntano quasi esclusivamente l’attenzione gli storici moderni della “crisi”, «come se solo questi fossero stati gli interventi della natura capaci di scuotere i contemporanei e di modificarne le condizioni di vita», nota del tutto opportunamente Arno Borst [8]. Appropriatamente, perché, se non è dubbio che la dimensione e la “qualità” del flagello si siano imposte con prepotenza all’attenzione dei contemporanei, tanto da sollecitare molti a redigere apposite postille ed aggiunte a cronache già “concluse” [9], è d’altra parte estremamente raro trovare opere dedicate esclusivamente alla peste. Konrad von Megenberg e Gabriele de Mussi consacrarono espressamente ed autonomamente alla peste un lavoro, il primo di carattere storico-filosofico-letterario, il secondo più geografico-medico [10]; i due meriterebbero da soli, e singolarmente, una relazione. Ma normalmente la descrizione del morbo nelle opere di storia si integra in un discorso più complesso, e generalmente non incentrato su di esso; al massimo si riserva uno spazio ben preciso, più o meno ampio, una rubrica, un paragrafo, un capitolo, nell’unico caso di Matteo Villani più capitoli.
D’altra parte è sicuro che l’epidemia non attirò su di sé l’interesse esclusivo dei contemporanei, basti pensare agli eloquenti silenzi delle prime fasi. Per quanto rapida, la diffusione della malattia non avvenne di colpo; le notizie giungevano a grande distanza: Francesco da Praga racconta come gli studenti boemi che tornavano da Bologna in patria riferivano degli effetti dell’epidemia in Italia e Francia [11]. Potrebbe quindi risultare sorprendente che nella stragrande maggioranza delle cronache di città non ancora toccate dal male non si trovi alcun cenno all’epidemia che infuria lontano; non si tratta di uno stilema storiografico, perché conferma di questo disinteresse si constata anche nell’attività legislativa ed amministrativa. La Carpentier vede un «quelque chose de tragique» [12] in questo vivere normalmente, senza prendere alcun provvedimento. Ma in realtà la spiegazione di questo assurdo, per lo storico moderno, comportamento da struzzo, risiede nel fatto che nessuno allora né conosceva né poteva immaginare l’estrema facilità del contagio, ed in particolare la pericolosità estrema di quel flagello. Le cronache tutte, italiane ed europee, concordano sul fatto che quel tipo di malattia era fino ad allora totalmente ignoto.
Tuttavia rimane indubbiamente una sorta di rimozione più o meno consapevole [13]. Certo colpisce che un simile atteggiamento si ritrovi in cronisti che scrivono dopo quegli anni terribili, quando le cose erano divenute tragicamente più chiare. Eppure è così: il cronista orvietano non sente affatto la necessità di menzionare nei primi mesi del 1348 l’infuriare della malattia in Sicilia, od a Genova od a Pisa. La lezione della peste non aveva ancora dato alcun frutto. Ma di nuovo non è alcuna ragione di meraviglia; è ancora troppo presto: anche i provvedimenti sanitari in merito devono fare molta strada. Nonostante quella tremenda lezione i pellegrini continuarono ad affluire, in vista dell’anno giubilare 1350, in gruppi numerosi ad Orvieto, dove si rinunciò quasi sempre a chiudere le porte di notte per facilitare il loro passaggio, e dove un gran numero d’orvietani si unì ai romei [14].
In effetti, a conferma di quanto riportato sopra circa l’opinione di Arno Borst, non la peste da sola, ma il dittico peste-terremoto, o terremoto-peste, è corrente [15]; frequentissimo quello carestia-peste [16]. Anzi proprio questo è uno dei motivi cardine della presentazione del male. Numerosi sono i cronisti che risalgono alle difficili condizioni climatiche dei due anni precedenti: Giovanni Villani descrive le calamità provocate dalla grande carestia della primavera del 1347, di cui soffrono particolarmente «i poveri e impotenti», tanto che malattie e morti si contano numerose: entro l’estate si registrarono più di 4000 vittime, «il più in povere genti» [17]. L’enfasi è significativa, visto che pare assodato che non si trattasse di nulla di eccezionale [18]. A Pistoia un cronista locale parla di carestia per tutta la cristianità [19], e, se proprio non nel mondo intero, conferme per quanto riguarda Italia, Provenza e Francia sono state reperite in abbondanza; pare se ne debba vedere la ragione in condizioni climatiche molto difficili, caratterizzate da grande abbondanza di precipitazioni [20]. Dopo l’inclemenza del tempo, ed a causa di quella, lo scarso raccolto del 1347 fu la causa di gravissimi problemi per diverse città, Orvieto, Firenze e Bologna in particolare [21].
Ricorre anche il trittico alluvioni-carestia-peste, per non dire della pala complessa guerra-alluvione-carestia-fame-peste [22]. E volendo si potrebbe complicare ulteriormente, ma si correrebbe unicamente il rischio di frantumare l’argomento. Ma va detto chiaramente che stabilire un rapporto di dipendenza tra vicende climatiche, guerra e peste, è fatto da imputare alla storiografia successiva [23], non alla cronistica coeva, che registra quei fatti senza attribuirvi meccaniche conseguenze. E quell’interpretazione storiografica ha avuto di recente un forte e meditato contraddittore sul piano generale, proprio e di metodo, nella persona di Carlo Maria Cipolla, com’è noto [24].
Queste prime avvertenze per dire che è necessario attribuire una importanza relativa all’epidemia - poiché così risulta nell’attenzione dei contemporanei, naturalmente, visto che di questo solo ci occupiamo -, guardare con attenzione alla gerarchia di importanza dei fatti riportati: per l’anonimo domenicano che fece l’aggiunta agli annali del suo convento di Friesach, ad esempio, è stato più rilevante il terremoto della peste; al primo dedica una decina di righe, nell’edizione dei Monumenta, al secondo, - che viene neppure immediatamente dopo, ma preceduto dalla menzione di «tonitrua magna de celo» - solamente la metà dello spazio che ha riservato al sisma [25]. L’anonima Cronaca Senese dedica 35 righe ad illustrare la rubrica Della grande moria. 1348: ma solo una riga e mezza riguardano propriamente, e genericamente, l’epidemia; il resto è riservato alle ben più avvincenti avventure del capitano Erbanera, «valentissimo uomo e grande e di bella presenza» [26].
Ancora un’osservazione preliminare si impone: la grande mortalità, causata dal terremoto o dalla peste, si inserisce generalmente in una serie di eventi di pari dignità, tutti giudicati egualmente degni di menzione, si tratti di fatti politici o naturali. Non solo non c’è - se non rarissimamente, come accennato - un’autonoma trattazione della pandemia, ma soprattutto non è possibile riscontrare mai - neppure in chi riserva ad essa uno spazio particolare - quella caratteristica “catastrofica” che è così frequente invece leggere attribuita alla peste in tanti contributi di studiosi di oggi. Se Jean de Venette parla di una «nova aetas», allude ad un rinnovamento delle persone, non ad un cambiamento di tendenza; anzi i “nuovi” sono peggiori dei “vecchi” [27]; nonostante il tremendo segno divino le cose ben presto tornano come prima: è un atteggiamento diffuso [28]. Che manchi la prospettiva di lunga durata nei cronisti contemporanei, che non sanno quello che sappiamo noi, è osservazione banale; meno banale è la constatazione che le tanto vituperate esagerazioni imputate dallo studioso moderno al cronista antico, riguardo ad esempio al tasso di mortalità, non devono poi aver pesato più di tanto nella valutazione complessiva, per dir così cronologico-geografico-contestuale, del fenomeno nei cronisti coevi. E non mi pare neppure si possa dire che le conseguenze psicologiche fossero veramente «devastanti» [29], visto che gli eccessi di reazione sono sempre rilevati a livello di aneddoto, mai in chiave generale, e che quindi si possono ragionevolmente supporre come frutto della mente e della psiche meno equilibrata, comunque al limite della norma. Per dire, insomma, che per gli osservatori del tempo “contavano” tanto le vicende dei principi, quanto quelle della natura, senza alcuna prevaricazione delle seconde sulle prime. Basti leggere a titolo esemplificativo questa introduzione all’anno 1349 della Continuatio Novimontensis [30]:
A. D. 1349 reges et principes in finibus nostris, licet prius discordes, tamen cuncti amicabiliter confederati sunt. Item inundacio aquarum permaxima ubique exorta dampnum intulit copiosum. Pesti vero contagiosa predicta…
L’unica grande eccezione è rappresentata da Petrarca, che si rese conto, con sensibilità unica, dei cambiamenti in atto alla metà del suo secolo [31]; ma anche Petrarca ci conferma che non certo la peste o il terremoto furono le ragioni della “crisi”, semmai ne furono un evidenziatore. Le reazioni degli uomini mostravano solo assuefazione, apatia, non avevano imparato nulla dalla storia, non si sentivano spronati a grandi cose. La mancanza di cultura, o l’obnubilamento di essa, segnavano i tempi bui del presente [32].
Con tutto questo è generalmente indubbio che il terribile male suscitasse una reazione universale e fortemente marcata. Ci fu chi, come Petrarca, sviluppò personali e complesse meditazioni sulla caducità della vita umana, trovando una ragione finale in un ideale di vita semplice e tutta dedita al bene sommo della cultura, ripreso dall’antichità che tanto amava [33], e chi, come il Boccaccio, colse l’occasione per la costruzione di un capolavoro. Sono i personaggi emblematici di quell’umanesimo che giusto con loro era nato e con loro conosceva la prima crisi. Secondo il Baron segnata dai fallimenti di Cola di Rienzo, delle grandi banche fiorentine e dalla peste [34]; Alessandro Barbero vi ha aggiunto anche la morte di Roberto d’Angiò [35].
Se si tratta di personaggi eccezionali, la norma volle che di quel male le cronache fossero, com’è notorio, i testimoni principali, anche se non unici [36]. Una letteratura ormai imponente, cresciuta rapidamente a partire dalle primissime ricerche degli inizi del secolo scorso fino ai giorni nostri, ha assodato vie di approccio, metodi via via più raffinati di lettura, possibilità di collegamento e di verifica mediante il ricorso ad altro tipo di fonti. Noi procederemo, se non del tutto estranei a questa tradizione di studi, tuttavia per una strada diversa. Tra le possibili prospettive di lettura sceglieremo quella che sulla peste ci indichi non i «dati», che interessano ora al medico [37], ora al demografo [38], allo storico dell’economia ed a quello della mentalità [39], ma il «senso» che la peste ha nell’opera di alcuni cronisti coevi. Non ci faremo, insomma, nessuna delle domande che Élisabeth Carpentier elencava efficacemente nell’introduzione al suo studio del fenomeno ad Orvieto [40]. Non essendo un medico, un demografo, né uno storico dell’economia o della mentalità, mi porrò anzi agli antipodi di chi considera la peste del 1348 un fenomeno che va visto esattamente collocato in un insieme politico, sociale ed economico, punto di partenza per lo studio delle condizioni di vita di allora invece che bersaglio - è proprio la posizione della Carpentier [41] -; mirerò invece a considerare l’argomento «peste» nello squisito campo storiografico, interessandomi della “veridicità” dei dati forniti dai cronisti solo ed in quanto funzionali alla restituzione del mondo storiografico - a riguardo della peste, naturalmente - della cronaca che correda con quei dati il suo ricordo della malattia. Non mi interessa qui mettere in parallelo la descrizione dei sintomi e del decorso della peste, su cui del resto c’è una pressoché totale concordanza nelle fonti, tale però da non fugare i nostri dubbi [42], quanto rilevare il quadro in cui il fenomeno si colloca nella prospettiva dei singoli o di un gruppo di cronisti; poiché non certo l’aspetto “medico” è quello che più ci può dire sull’impatto che il morbo - e il ricordo più o meno immediato di essa - ebbe sui contemporanei, mentre invece i segni che preannunciano ed accompagnano l’epidemia, i provvedimenti presi, il comportamento generale ed individuale, le reazioni dirette ed indirette, e soprattutto il significato ultimo del male restituito dalle cronache, costituiscono il nostro obiettivo.
Abbiamo detto «alcuni» cronisti, poiché non tutto naturalmente ci è pervenuto - è il caso, ad esempio, del capitolo relativo dell’anonimo autore della vita di Cola di Rienzo, che è andato perduto -, e d’altra parte non è neppure pensabile render conto di tutti coloro che ricordano la peste, pena annegare nel mare magnum, visto che il fenomeno colpì a tal punto che non c’è quasi chi non la ricordi, seppure fugacemente. E neppure è pensabile che il ristretto arco di attività di un singolo cronista possa in qualche modo rispondere a quelle domande «di lungo periodo» che tanto sono state coltivate in maniera privilegiata qualche decennio fa [43]. Né, infine, ci si chieda di illustrare la “fortuna” del tema della peste, visto lo spazio a nostra disposizione.
E partiamo con lo sgombrare il campo da quello che a noi pare un equivoco. Tra le descrizioni della peste la più impressionante, la più letterariamente compiuta, in una parola la più “bella”, e ben presto ripresa [44], si sa, è quella che apre il Decameron di Giovanni Boccaccio, su cui, ovviamente, si è esercitata, dal Petrarca ad oggi, la migliore critica. Ma varrà la pena soffermarsi un poco non sul valore e la finalità letteraria di quella introduzione nell’economia dell’opera, che lasceremo giustamente agli italianisti, quanto piuttosto sui moduli adoperati dal grande narratore, con occhio particolarmente attento al quadro complessivamente fornito dai cronisti contemporanei, nell’intento di cogliere quanto la “costruzione” letteraria debba agli stilemi più propri di quel tipo di cultura.
Se è infatti ormai indubbio che l’introduzione vada vista come estremamente funzionale, “necessaria” in «quell’unità ideale e fantastica del Decameron, che solo in questi ultimi tempi abbiamo ritrovato con gioioso stupore», come si esprimeva qualche anno addietro Vittore Branca [45], nessuno può negare che - non suoni scandalo - quella descrizione è una pura pagina di cronaca: si provi ad immaginarla proprio come composizione a sé, e lo si constaterà agevolmente; ed ancora nessuno può negare che il Boccaccio avesse sul tema dei modelli. Il Decameron sarà la risposta all’«universale dissolvimento della vita civile nella Firenze divorata dall’avidità e dall’egoismo», nell’«onestà» dei giovani che si ritirano nella villa fiesolana [46], ma ciò non toglie che alla domanda principe, il perché della pestilenza, il Boccaccio risponda, alla fin fine, del tutto convenzionalmente, che si trattava della manifestazione della collera divina di fronte alla iniquità umana: «… l’ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pistolenza…», dando, fra l’altro, il suo contributo - ed anche in questo caso niente affatto originale - ad una discussione, per dir così, “di moda” allora [47]. Se è indubitabile che si tratti di una «impostazione particolarmente coerente all’idea centrale dell’opera e alle convinzioni poetiche che ne regolano l’attuazione» [48], è altrettanto indubitabile che la medesima risposta avevano dato tanti fra i cronisti coevi. La peste fiorentina sarà una «occasione emblematica», scelta letteraria consapevole e meditata, ma, innegabilmente, anche drasticamente imposta dalla storia. Discorso analogo si può fare a proposito dell’insistenza del Boccaccio sulla desolazione del paesaggio, in città ed in campagna, e soprattutto sul manifestarsi di quegli atti disumani che tanto colpirono i contemporanei, non solo fiorentini, o toscani, non solo dell’Italia, dalla Sicilia a Milano, ma dell’intera Europa, dalla Spagna alla Boemia. Se «sono questi spettacoli di disumanità, di rinnegamento di ogni viver civile che il Boccaccio osserva come estremi sintomi di depravazione, come segni fatali di un ritorno alla squallida condizione dell’“homo homini lupus”» [49], sono pur sempre i medesimi segni che moltissimi in Europa colsero come organicamente legati al diffondersi del contagio. Se noi intendiamo la descrizione boccaccesca della peste come manifestazione artistica della consapevolezza dell’autore dell’«universale dissolvimento» [50], su questa base dovremmo riconoscere la medesima consapevolezza, magari meno “artisticamente” compiuta, in moltissimi dei contemporanei, che usano le identiche espressioni.
Tra i modelli su cui si impegnò, nella sua imitatio, il Boccaccio sono state variamente indicate le pagine sulla peste di Tucidide o di Lucrezio - che in realtà sembra impossibile che il certaldese conoscesse direttamente -, di Isidoro di Siviglia, e poi di Virgilio, Ovidio, Livio, Seneca, Lucano [51]; ma quello che ha avuto maggior fortuna, perché autorevolmente additato per primo dal Branca, è la descrizione di Paolo Diacono nella Historia Langobardorum II, 4. Francamente colpisce non tanto l’accostamento, pienamente giustificato dalla sicura conoscenza che di quell’opera aveva il Boccaccio, quanto il favore generale che l’ha contraddistinto: a me, confesso, risulta incomprensibile il confronto tra il brano del Decameron I, Introduzione 27 [52] che dice:
… l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote, e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano…
a Paolo Diacono nel luogo citato [53]:
Fugiebant filii, cadavera insepulta parentum relinquentes, parentes obliti pietatis viscera natos relinquebant aestuantes,
quando possiamo leggere nella cronaca senese attribuita ad Agnolo di Tura [54]:
… ognuno era inpaurito che l’uno non volea aiutare l’altro, el padre abandonava el figliuolo, el figliuolo abandonava el padre e la madre e’ fratelli, e la moglie el marito…;
in Matteo Villani [55]:
… le madri e’ padri abbandonavano i figliuoli, e i figliuoli le madri e’ padri, e l’uno fratello l’altro e gli altri congiunti.
in Marchionne [56]:
Lo figliuolo abbandonava il padre, lo marito la moglie, la moglie il marito, l’uno fratello l’altro, l’una sirocchia l’altra;
in Marco Battagli [57]:
… pater postea infirmum filium evitabat, frater fratrem, uxor virum…;
nella Chronica abreviata di Parma [58]:
… pater et mater vitabat filium, et uxor maritum, et filius patrem et matrem…;
nelle Storie Pistoresi [59]:
… lo padre abbandonava li figliuoli, e’ figliuoli lo padre e la madre, e l’uno fratello l’altro…;
in Pietro Azario [60]:
… vidi patrem de filio et filium e contra de patre, fratrem de frate, amicum de amico, vicinumque de vicino penitus non curare…;
in Giovanni da Parma [61]:
Christiani evitabant se invicem, tamquam lepus leonem, vel sanus leprosum, et dico tam de patre vel de matre contra filium, et e converso, vel de sorore contra fratrem, et e converso, vel de propinquo contra propinquum, quam de illis qui non noverant se;
nel Breve Chronicon Flandriae, ben lontano dall’Italia [62]:
… nec pater visitat filium, nec mater filiam, nec frater fratrem, nec filius patrem, nec amicus amicum, nec notus notum, nec quicunque quemcumque alteri coniunctus sit sanguine…;
e perfino in una iscrizione veneziana [63]:
… el pare no volea andar dal fio ne ’l fio dal pare…;
e potremmo continuare molto a lungo. Dobbiamo vedere la ripetizione del modello offerto da Paolo Diacono anche in tutti quanti gli altri? Come credere a quella suggestione antica, quando l’uniformità della descrizione, e la ripetitività fra un cronista e l’altro non possono che far pensare ad un modello diffuso, al quale tutti ricorrono perchè consacrato ormai dalla consuetudine, e perchè in realtà nessuno di questi cronisti se la sentiva di negare credibilità a quello che era divenuto subito un luogo comune, soprattutto nella convinzione che, se non si era stati testimoni diretti (anche la presenza di Boccaccio a Firenze nel 1348 è dubbia), altrove la cosa si era sicuramente verificata, visto che lo ripetevano tutti. Quando ci sono da raccontare fatti più singolari, lo si fa, come Marchionne, che moltiplica gli aneddoti.
Né si tratta solo di questo misero passo, perché sarebbe estremamente agevole scomporre analogamente l’intera introduzione del Boccaccio, frase per frase, parola per parola, dall’inizio alla fine. Diamo un saggio, tra diversi possibili, partendo proprio dalle prime battute:
Boccaccio
Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata.
Cronache
… negli anni di Cristo, dalla sua salutevole incarnazione… (M. Villani) … MCCCXLVIII fu nella città di Firenze (Marchionne) … pistilenziosa mortalitade… (Storie Pistoresi) … la congiunzione di tre superiori pianeti… (M. Villani) … humana iniquitasiusta Dei sententia… (M. Battagli)… ad correctionem humani generis… (Cortusi) … preteritis vero proximis annis… (Kölner Weltchronik) … Cominciossi nelle parti d’Oriente… (M. Villani) … cum innumerabili mortalium cede… (Liber regiminum Padue) … nec cessavit frequenti discursu diversas nunc has nunc illas pervagans regiones… (Kölner Weltchronik) E venendo… aggiunse alle parti vicine… (M. Villani) … versus ocidentem… (M. Battagli).
E, insisto, si potrebbe continuare passo passo, fino alla fine. Perché non concludere allora, semplicemente, che il Boccaccio fonde sapientemente, da par suo, materiali diversi che discorsi e scritti dei contemporanei gli fornivano a dismisura [64], rinunciando a rintracciare un modello unico, soprattutto nell’antichità, visto che il tempo presente era sovrabbondante nel fornire esempi, luoghi comuni già elaborati, tesi a commuovere od inorridire, e altro alla bisogna; in una parola un “genere” ben definito?
Un genere con una sua tipologia, forse esemplato per primo da Giovanni Villani [65], comunque impostosi presto, perfino in versi [66] con una struttura schematica precisa e sviluppo di alcuni motivi cardine; tipologia che varrà la pena di delineare rapidamente, al fine di assodare il quadro generale, nel quale, successivamente, indicheremo alcune posizioni rilevate. Il modulo corrente affronta in successione il tema delle cause prossime, quindi della fenomenologia del male, da ultimo, eventualmente, della sua ragione profonda.
Un grande fuoco dal cielo, registrato solo dubitativamente da Matteo Villani, è per molti, un anonimo cronista svizzero, come per il Chronicon Estense, la causa vera della peste; tra le cause per altri [67].
Più o meno lo stesso per la pioggia di serpenti avvenuta in Oriente, verificatasi dopo il fuoco di cui sopra per alcuni, prima per altri [68].
La congiunzione astrale di Saturno, Giove e Marte, considerata nefasta generalmente tra i dotti come tra i cronisti, è ritenuta non determinante dai colti di medicina, tra gli altri Pierre de Damousy, che scrive a Reims poco prima dell’arrivo della peste, e da Gentile da Foligno a Perugia, ma comunque da entrambi citata tra le cause del male [69]. La spiegazione di un evento con la posizione degli astri era comune, soprattutto in Italia [70]. Konrad von Megenberg la giudica una concausa, che può favorire i sommovimenti del mondo, non certo la causa prima ed agente [71]. Determinante pare invece nella Chronica de Ducibus Bavariae [72]; in altri variamente, ma comunque un segno premonitore [73].
Più occasionali sono i cenni ad altre cause prossime. Jean de Venette nota che la peste è cominciata a Parigi, alla fine di agosto, contemporaneamente all’apparizione di una cometa [74], come già Giovanni Villani [75]; ma si trattava in quel caso di un atteggiamento secolare, che l’intendeva come preannuncio, più che causa. Pierre de Damousy a Reims accusa i venti caldi del Mezzogiorno che portano l’umidità di debilitare i corpi e di predisporli al contagio [76], ed all’inizio d’agosto 1348, quando Parigi attende la peste nell’angoscia, osserva che il vaiuolo, che compariva allora a Reims, è considerato come un segno precursore della grande epidemia [77].
Alcuni indicano la corruzione dell’aria [78]. Gabriele de Musssi, che descrive con tanti dettagli il ritorno da Caffa delle galere genovesi portatrici della peste, o Gentile di Foligno a Perugia, o Guy de Chauliac e Chalin de Vinario ad Avignone, credono agli astri ed all’aria impestata, ma più ancora al contagio per ammorbamento dell’aria, come del resto anche Jean de Venette [79].
Anche i terremoti risultano tra le concause della peste, quando non la causa [80]; così a Orvieto, poco dopo l’epidemia, il 9 settembre 1349 un grave terremoto atterrisce tanto gli abitanti, come segno premonitore di un ritorno del male, che tutti si danno ad esercizi pii per scongiurarlo [81].
Infine c’è anche chi onestamente ammette che non se ne conoscevano affatto le cause [82].
Quando si tratta di descrivere propriamente il male di solito si comincia con l’indicarne l’origine geografica, quindi i modi di trasmissione, i sintomi, l’ampiezza di diffusione, le caratteristiche peculiari, la durata, gli effetti; questi ultimi a loro volta illustrati accennando al tasso di mortalità, alla qualità delle perdite, alle vittime illustri, all’impotenza dei medici, alle conseguenze economiche; infine le reazioni, i comportamenti indotti ed i provvedimenti presi per affrontare l’epidemia.
Concordemente la provenienza del morbo è indicata nell’Oriente, dove è attiva per un periodo più o meno lungo, prima di passare in Occidente. Il piacentino Gabriele de Mussi è uno dei più informati - e, pare, molto prossimo alla verità dei fatti [83] - sui momenti della trasmissione del contagio: furono i Genovesi a portarla dalle colonie italiane più orientali, dai porti del Don ed intorno al Mar Nero, da Tana e Caffa, nei territori propri bizantini (a Costantinopoli l’epidemia infuriò alla metà del 1347) [84]. Giovanni Villani sapeva che più o meno nello stesso periodo ne era colpita Trebisonda [85]. Per il Chronicon Estense  la peste giunse dal lontanissimo «Captay» in Persia; due galee genovesi la portarono a Costantinopoli ed a Pera, quindi a Messina, in Sardegna, ed infine a Genova; poi l’autore del Chronicon sapeva che aveva colpito Marsiglia e quindi la regione intorno a Parigi. La Chronica abreviata riferisce che da Genova la moria si è diffusa rapidamente («post paucos dies») in Lombardia, Toscana, Marche, Puglia, ma che soprattutto era risultata particolarmente attiva nelle regioni oltremontane, in Provenza, Francia, Aragona, Spagna, Inghilterra, Germania, Boemia ed Ungheria [86]. La Chronica de Ducibus Bavariae, meno informata, genericamente riporta che la peste ha regnato per otto anni prima di raggiungere la Baviera, vale a dire dal 1341, «in partibus primo transmarinis, deinde Gallicanis» [87].
Sono i mercanti a portarla in Occidente, prima in Grecia, poi in Italia, e quindi alle regioni contermini [88]. L’estrema facilità del contagio è sottolineata universalmente [89].
Di solito la comparsa dei primi segni della peste - i bubboni alle ghiandole linfatiche - si accompagna a febbri e dolori; il segno ultimo è l’espettorazione sanguigna [90]. La cronaca di Saint-Aubin di Angers dice dei bubboni come casi particolari: alcuni avevano degli ascessi o dei noduli all’ano o sotto le ascelle, e di quelli qualcuno scampava; altri avevano sui corpi delle macchie rosse o branastre, ed alcuni sputavano sangue: per costoro non era alcuna speranza [91].
La grande frequenza delle morti improvvise, o sopravvenenti qualche ora dopo i primi segni, è uno dei sintomi più caratteristici e gravi della peste. Ogni decesso un po’ rapido è allora sospetto e, se ne avvengono altri nei dintorni del defunto, la paura si impadronisce di tutti i circostanti. Le morti subitanee sono numerosissime all’inizio dell’epidemia; quasi nessuno sopravvive al quarto giorno [92].
Oltre la nota “tecnica”, non iperbolica,
Fuit generalis mortalitas maxima [93],
che indica come ormai la malattia sia diffusa ovunque, non più solo in alcune zone circoscritte [94], c’è chi distingue tra città e campagna, tra classi elevate e basse, tra ricchi e poveri, tra giovani e vecchi [95].
Peculiari della peste furono la repentinità ed ineluttabilità del male [96], con caratteristiche di eccezione [97], fino ad allora ignote [98]. Nell’uniformità generale Jean de Venette è uno dei pochi a notare conseguenze diverse in diversi luoghi [99]. Un tòpos largamente diffuso è l’incapacità a descrivere la terribilità del morbo [100].
L’epidemia dura normalmente dai tre ai sei mesi [101].
2.2.7.1.   Tasso di mortalità
L’entità percentuale delle morti varia tra il 33 e l’80% [102]. Il Chronicon Estense riferisce quello che si era saputo in Valle Padana: a Costantinopoli le vittime della peste erano l’89% dell’intera popolazione, 530.000 erano stati i morti in Sicilia, in particolare a Messina; a Trapani nessuno si era salvato; in Sardegna era scomparso il 90% degli abitanti; a Genova le vittime erano 40.000; Marsiglia era un deserto; a Parigi in un solo giorno di marzo si erano sepolti 1.328 morti, e non era il conto totale; nella città di «Nobellese» di 2.000 uomini d’arme non erano rimasti in vita che 200; un’altra città, «Avarexe», era deserta, così come molte altre per la massima parte devastate [103]. In marzo l’epidemia aveva colpito Napoli, e in due mesi si era portata via 84.000 persone. In aprile Venezia e Chioggia, causando 600 decessi al giorno; contemporaneamente dall’altra parte della penisola non diversamente Pisa soffriva per il medesimo morbo [104].
Inutile discutere ancora su questi numeri, generalmente inverosimili [105]: la violenza dell’epidemia divenne ben presto leggendaria, così che le cifre comunemente fornite dai cronisti hanno valore più letterario che documentario [106]; non si può che considerare il loro valore esclamativo, non essendoci consentito un controllo statistico accettabile [107], e non potendo noi estendere a tutti i cronisti una osservazione di Arsenio Frugoni circa un passo di Giovanni Villani, a proposito di una “interpretazione” della storia di Firenze [108]. Rimarchevole che la piccola cronaca di Saint-Aubin-d’Angers, con una obiettività rara per l’epoca, e tanto più meritoria in quanto il convento aveva perduto poco più della metà dei suoi abitanti, compreso l’abate, riconosca che la peste non infuriò ugualmente in tutti i paesi, poiché in certi luoghi sopravvisse un decimo del totale, in altri un sesto, in altri un terzo, in altri un quarto [109].
2.2.7.2.   Qualità delle perdite
Come per il numero delle vittime, anche la valutazione sulla qualità delle perdite varia notevolmente. C’è concordia nel rilevare che molte famiglie si estinsero totalmente [110], ma poi chi insiste sul fatto che scomparvero i più rappresentativi, tanto fra i nobili quanto tra i popolani [111], e chi al contrario, come Guglielmo Cortusi, che «mirabile» la peste non uccise né un re, né un principe, né un «dominus civitatis» [112]. Chi nota che prima erano colpiti i fanciulli, poi quelli di costituzione più robusta [113], e chi all’opposto che la mortalità era «in personis validis et iuvenibus magis quam in senibus et debillibus» [114]. Per il monaco della Continuatio Novimontensis monaci e monache furono tra le vittime più numerose [115], ma anche per Giovanni da Parma «fratres et sacerdotes in Tridento quasi omnes sunt mortui» [116]; curiosamente Guy de Chauliac ad Avignone nel 1361 dice che la peste ha fatto poche vittime tra le donne, e non è detto non facesse un confronto con quella del 1348 [117]; per Agnolo di Tura e gli Annales Mellicenses infuriò più nel contado che nelle città [118]. Ad Orvieto la peste arriva ai primi di maggio, cominciando dai quartieri poveri e cresce rapidamente di gravità fino a luglio, quando raggiunge i quartieri ricchi e quando - testimonia il Discorso historico - in un giorno solo morirono 500 persone, «grandi et piccoli, et maschi et femmine». Ancora il cronista del Discorso historico attribuisce la morte improvvisa in gran parte alla paura: «Et era si grande la mortalità et lo sbigotimento delle genti, che morivano di subito» [119]. La varietà di valutazione è grande, e se sarà da ammettere in generale che gli strati socialmente più deboli fossero maggiormente falcidiati dalla peste [120], non è però affatto possibile, sulla base delle relazioni cronistiche, concludere unilateralmente col Mollat che «La Peste Nera decimò i poveri, ma non annientò la povertà», o che «Furono decimati tutti i livelli d’età» [121]: d’altra parte i cronisti inglesi, Guy de Chauliac ad Avignone e Jean de Venette a Parigi, notano nel 1361 che bambini ed adolescenti sono i più colpiti, mentre la peste del 1348 aveva falcidiato tutte le età [122].
Qualcuno, come Marchionne, nota che la malattia colpiva anche gli animali domestici [123].
2.2.7.3.   Le vittime illustri
Non frequentissima, la registrazione dei personaggi di rilievo che furono vittime della peste è comunque uno dei motivi ricorrenti: un elenco di personalità ragguardevoli è fornito da Agnolo di Tura [124]; di peste era morto a Firenze Giovanni Villani, dice Matteo; Giovanni d’Andrea è naturalmente ricordato a Bologna [125]; la morte dell’abate dal Chronicon Sublacense [126].
2.2.7.4.   Impotenza dei medici
L’incapacità dei medici a porre un qualche rimedio si accompagna al loro terrore di fronte ai malati [127]; e ci furono anche medici improvvisati per avidità [128]. Guy de Chauliac, medico di papa Clemente VI ad Avignone, nota che l’epidemia si risolse nella vergogna più totale: «Ed io, per evitare l’infamia, non osavo allontanarmi, ma con continua paura mi curavo…» [129].
2.2.7.5.   Sull’economia-società
Le conseguenze sulle attività artigianali e commerciali normali furono impressionanti, soprattutto in Italia [130]. A Firenze in particolare la vita economica subì un fierissimo colpo; ma i più intraprendenti si riebbero presto: già il 22 marzo 1349 il diario della famiglia Alberti registra uno stato buono della famiglia ed ancora migliori prospettive future [131]. Altrove però pare che non si possano registrare gravi conseguenze, eccetto che sul piano demografico [132]. Generalmente i cronisti sono concordi nel rilevare l’abnorme crescita dei salari successiva alla peste, ma non la stessa cosa si può dire dei prezzi [133].
2.2.7.6.   Reazioni
   2.2.7.6.1.   Comportamenti
La prima difesa, com’è comprensibile, fu la fuga dalla città in preda al contagio; dovunque, ad Orvieto come a Siena e Firenze, a Venezia come ad Avignone e Vienna [134].
A Firenze nel 1348, malgrado l’interdizione degli assembramenti, eccezionali processioni vengono organizzate per implorare quella Vergine [135], la cui immagine si vede il 16 agosto 1348 a Tournai piangere di compassione per le sofferenze degli uomini [136]. A Vienna il medesimo anno, in un grande slancio di contrizione e di mortificazione, tutti i partecipanti, clero in testa, si tolgono le calzature e seguono a piedi nudi le processioni. Per converso, tuttavia, come a Orvieto, non per timore di favorire il contagio, sembra, ma per la disorganizzazione del clero in seguito alla violenza dell’epidemia, anche processioni abituali, come quella di S. Giovanni il 24 giugno, sono rimandate di sei giorni, e quella dell’Assunzione, il 14 agosto, non ebbe luogo [137].
I preti, alla pari dei medici, sembrano dimentichi dei loro doveri di assistenza, e comunque risultano insufficienti [138]. Marchionne dice che a Firenze si erano scandalosamente arricchiti facendo pagare salatissimi i loro servizi e visitando con debite precauzioni [139].
Jean de Venette, Michele da Piazza in Sicilia, Pierre de Damousy a Reims, Gilles li Muisit a Tournai notano tutti come il clero intero è colpito dai suoi obblighi, ed il clero regolare più ancora del secolare, perché i suoi membri non solo portano il soccorso materiale e spirituale a domicilio, ma aggiungono a questo rischio anche quello della vita in comunità [140].
Le sepolture si facevano a fatica [141]; cimiteri e fosse comuni fuori città si moltiplicarono [142]. Nel 1349 a Tournay [143] si proibisce di seppellire dentro e nei pressi delle chiese ed i magistrati fanno costruire due nuovi cimiteri in città, ma questa misura, considerata all’epoca come necessaria per la salubrità degli agglomerati, urta con il desiderio dei fedeli di riposare in terra consacrata, o nella chiesa, per essere più prossimi al Santo Sacramento o alle reliquie dei santi di cui cercano l’intercessione, ed anche per evitare le profanazioni.
Ci fu anche la tentazione di abbandonare del tutto le città colpite [144], e non mancarono gli sciacalli [145]:
Ovunque regnava l’avvilimento, un’atmosfera angosciosa [146]. Eppure Matteo Villani ricorda l’indulgenza concessa da Clemente VI, ed i molti che muniti dei sacramenti, cristianamente rassegnati, si disponevano alla morte, e la Chronica de Ducibus Bavariae insiste nella descrizione delle morti serene dei molti che con i conforti religiosi si apprestavano all’estremo passo, «quasi gaudia celestis patrie pregustarent» [147].
Il Langer [148] ha riassunto gli elementi di psicologia religiosa, le forme pubbliche di penitenza, la crescita delle opere di carità, le devozioni [149]; ma poi constata che questo apparente rinnovamento spirituale, dovuto all’impressione del castigo lasciata dalla peste e dal desiderio di quietare la collera divina, va di pari passo con una immoralità crescente e si accompagna talvolta ad un malcontento nei confronti della Chiesa (è il secolo di Wyclif e Huss) ed un automatismo dei mezzi di salvezza (è anche l’epoca del commercio delle indulgenze). E contemporaneamente il ricorso all’astrologia, alla magia, al satanismo. Tutto ciò contribuisce alla creazione di uno stato d’animo tipico della fine del Medio Evo. Se ne trova un’eco nei temi prediletti dagli artisti del tempo: la Passione, il Giudizio finale, l’Inferno, la Danza macabra [150]. In effetti sono molti i segni del crollo della moralità pubblica e privata, ad esempio ad Orvieto [151]. Una legge generale sembra essere che la reazione di fronte al ripetersi dei disastri naturali è normalmente o di angoscia disperata o di sfrenata vitalità [152].
Dopo il male i superstiti, dotati dei beni dei morti, dimentichi dell’orrore trascorso, divennero più litigiosi di prima. L’eccesso caratterizza il dopo-peste: «intrepide metam excedebant et sine lege quam plures vivebant» [153].
L’abbattimento degli spiriti causato dalla peste fu anche, in qualche caso, all’origine dell’indebolimento della funzionalità politica, e ci fu chi, come Francesco di Montemarte, mise in relazione con la peste la pacificazione tra le parti ad Orvieto e la soggezione della città a Perugia [154]. Un legame tra la peste e la riconciliazione tra i principi austriaci sembra di dover desumere anche nella Continuatio Novimontensis [155].
   2.2.7.6.2.   Provvedimenti presi
In generale gli interventi delle autorità non sono né tempestivi né massicci, e di conseguenza di scarsa efficacia [156]. Gli impedimenti per coloro che venivano da zone infette sono tra le prime misure di difesa adottate dalle città [157]; ma poi generalmente i forestieri, ed in particolare i mercanti, vengono respinti oltre le porte [158].
Non mancarono le rudimentali misure sanitarie per arginare l’epidemia. Uno dei mezzi più antichi per isolare i malati consiste nel chiuderli dentro le loro case: il metodo riesce, si dice, a Milano dove, nel 1348 si evita la peste barricando porte e finestre di tre case infette e chiudendovi gli abitanti insieme ai malati [159]. In Italia l’infezione che i morti son creduti propagare fa prendere delle misure d’igiene più varie. A Catania [160] nel 1347 si decide di bruciare i corpi dei rifugiati da Messina morti di peste, ed il patriarca per risparmiare ai cittadini la puzza dei roghi ordina che i corpi dei Messinesi siano bruciati in campagna [161]. Per il resto i consigli a carattere generalmente preventivo dei «medici di Parigi e tutto il loro collegio a riparo della mortalità», riportati dalle Storie Pistoresi, risultano totalmente cervellotici, tanto che non siamo assolutamente in grado di riconoscere dove stia il discrimine fra buona volontà e mistificazione [162]
A Pistoia, nell’aprile 1348, solo le vedove hanno il permesso di portare il lutto che è proibito ad ogni altro membro della famiglia dei defunti, proibizione di annunciare pubblicamente i funerali, di suonare le campane per i morti e le sepolture, di darsi a qualunque manifestazione esterna di dolore [163].
A partire dalla peste nera la frequenza degli orfani pone dei problemi alle autorità locali [164].
Tutti i cronisti attribuiscono generalmente alla collera divina la causa prima delle epidemie [165], ma questo era scontato. Era stato così da sempre: di fronte all’inesplicabile il ricorso al divino è automatico. Il male viene dal peccato; la punizione, o l’ammonimento, da Dio [166], ed è procedimento non limitato ai secoli bui. Se sono sempre da evitare i paralleli improponibili e spesso «irritanti» tra l’oggi ed il secolo XIV [167], come dimenticare che è stato indicato qualche anno fa il dilagare dell’AIDS come conseguenza del disordine dei costumi sessuali, quindi niente altro che come giusta punizione divina che colpisce i reprobi? Il punto era, nel 1348, identificare di chi in particolare, in maniera precisa e concreta, era la colpa di aver suscitato l’ira divina, e di conseguenza la peste [168]. Volta a volta in passato si era accusato un principe, un popolo, e via via le colpe erano state indicate nei vizi capitali, l’avidità, la lussuria, la superbia, la crudeltà; nei cronisti coevi alla peste niente di nuovo, dunque, tanto più che la Bibbia, il modello per eccellenza di ogni narrazione, più volte offriva esempi di tal genere [169]; si può notare, solamente, che non viene registrata l’opera della Fortuna, alla quale pure, come alla volontà di Dio, si ricorreva con una certa frequenza [170].
Il nesso peste-colpa, aspetto particolare del più generale tra calamità e colpa, si manifestò nelle forme consuete: lo storico della povertà nota che furono accusati i poveri, quello dell’economia ricorda soprattutto gli usurai, lo storico della mentalità i ricchi [171]; ma certo le vittime più adatte erano gli Ebrei, i miscredenti, le prostitute [172], soprattutto gli Ebrei, spesso identificati pure come i responsabili delle povertà altrui. Con rara lucidità i cronisti strasburghesi scrivono che la ragione della accuse e delle persecuzioni violente stava nel fatto che essi erano semplicemente ricchi [173].
La tentazione di identificare i colpevoli tra i viventi dovette cominciare molto presto, ma è del tutto estranea all’Italia. Le prime accuse di avvelenare le acque nei confronti di alcuni non meglio identificati homines miseri sono registrate ad Avignone; ne conseguono roghi continui [174]. Ma poi l’accusa diviene nelle regioni centrali d’Europa specifica nei confronti degli Ebrei, e cambia fondamentalmente il tipo della imputazione: non tanto colpevoli perché fanno qualche cosa che facilita il contagio - del resto nessun cronista dell’epoca dice una sola parola sulla possibilità effettiva della trasmissione del contagio mediante gli artifici che a quello scopo si attribuivano agli Ebrei [175]-, quanto perché sono fondamentalmente responsabili in quanto costituzionalmente rei. Il carattere scomposto di questo tipo di reazione risulta palmare dal fatto che l’accusa viene rivolta agli Ebrei in blocco: alcuni di loro possono essere costretti a confessare di avvelenare l’acqua, ma i colpevoli sono tutti [176], conseguenza dell’idea che si tratti di un blocco monolitico; lo dimostra ampiamente il fatto che le notizie in proposito sono in Germania, nella terra di elezione dei tormenti inflitti agli Ebrei, estremamente generiche; il solo Heinrich von Diessenhofen dà indicazioni precise sui pogrom antiebraici [177]. La punizione arriva al rogo ed alla distruzione delle case [178], e non è raro che si raccolgano diverse vittime in un luogo per procedere ad una esecuzione in massa [179]: come si faceva con gli eretici. Le azioni contro gli Ebrei, a differenza di quanto avviene nella gran parte d’Europa - dove sono accusati di diffondere ad arte il contagio, e perseguitati con un impegno totale, fino alla distruzione piena [180] o parallalemente al diffondersi delle notizie sull’arrivo del male, o contemporaneamente all’infuriare della pestilenza, (e del resto ben oltre i limiti cronologici della peste nera [181]) -, in Italia sono molto modeste, si verificano solamente dopo che l’epidemia ha infierito, e non riguardano affatto l’accusa di essere in qualsiasi maniera responsabili del male: ad Orvieto consistono nella riduzione ad un quarto della cifra che gli eredi dei debitori defunti per la malattia devono rimborsare ai prestatori ebrei, non sapendosi esattamente quanto gli scomparsi avevano già corrisposto, e nell’intento di evitare che si approfitti della situazione [182].
I Peccati
Ma la ragione profonda del male sta nel peccato: o meglio in un peccato particolare che si cerca volonterosamente di identificare. Per il cronista senese è colpa degli stessi cristiani, che si uccidono a vicenda, magari alleandosi con i nemici infedeli [183]:
Queste maledette galee de’ Genovesi venivano e aveano aiutato a’ Saraceni e al Turco a pigliare la città di Romania che era de’ Cristiani e amazaro molti Cristiani e molte più crudeltà e uccisioni féro quelli Genovesi a’ Cristiani che non féro i Turchi, e per questo si tenea che Dio avea mandato tanta mortalità a i detti Genovesi e a’ Cristiani e in Turchia, e morì in Saracina e’ tre quarti e così de’ Cristiani.
Il Breve Chronicon Flandriae riporta l’opinione diffusa ad Avignone [184]:
Quis finis vel quod principium, Deus scit; quidam tamen timent quod pro morte Andree regis, qui ita trucidatus fuit, Deus his malis mundum flagellat.
 Per Guglielmo Cortusi la peste è solo la più tremenda delle punizioni divine, ma a scopo correttivo: «ad correctionem humani generis» [185]; la ragione sta nel perdurare di guerre dovunque [186]:
Hoc tempore Christianitas in quinque locis furebat in armis. Primo contra Turcos, iuxta Smirnas: et Rex Angliae contra Franciam: Rex Hungariae in Apuliam: Rex vero Boemiae, electus Imperator, contra Bavariam: Tribunus Romae oppressus a Patribus fugit in Apuliam.
In ogni caso al peccato bisogna porre rimedio. Diverse cronache riportano l’episodio di quel signore pagano che aveva manifestato l’intenzione di farsi battezzare, ma che, dopo aver sentito che i cristiani erano ugualmente vessati dalla peste quanto i musulmani, aveva cambiato proposito [187]; doveva insegnare che la colpa della peste non era nel perdurare del paganesimo. Ciò nonostante si riversò generalmente all’esterno, sui non-cristiani, o sui cristiani troppo tiepidi, o sui peccatori pubblici, l’accusa di essere all’origine del male.
Dapprima, però, ci fu la grande ventata dei flagellanti, risorta grandiosamente giusto nel 1348 [188]; che però, seppure nata, - pare - ancora una volta, come nel 1260, in Italia, primo paese occidentale colpito dalla peste, non conobbe nella penisola gli eccessi che tanto colpirono invece i cronisti tedeschi e francesi nelle loro regioni, al punto che Frantisek Graus ha indicato nel nesso peste-flagellanti-persecuzioni ebraiche la cifra più appariscente della crisi europea della metà del secolo [189].
Persecuzioni ebraiche e penitenti pubblici impressionarono grandemente i contemporanei, non necessariamente in quest’ordine; in molti casi si riferiscono prima le manifestazioni dei penitenti, quindi le persecuzioni, come negli Annales Mellicenses [190]. E molti, ad esempio la Continuatio Zwetlensis Quarta e Froissart, diedero maggiore rilievo al fenomeno dei flagellanti, più che alla peste che l’aveva causato [191].

* * *

Su questa base tipologicamente comune si evidenziano, per una maggiormente caratterizzata posizione, alcuni cronisti. Procediamo di qui in avanti seguendo l’itinerario geografico e, grosso modo, parallelamente cronologico, della peste in Europa. Non stupisca veder riservato maggiore spazio all’Italia, che vide per prima il male e più ne sofferse: più ne parlarono i suoi cronisti.
Il primo cronista di rilievo che incontriamo è il siculo Michele da Piazza. Il quadro dell’epidemia da lui fornito [192] è particolarmente vivace. Poco incline alle ampie interpretazioni, Michele intende il tempo del flagello, alla pari di ogni altro evento da lui registrato, come «realtà viva di sua vita» [193].
Lo scoppio della peste avviene in un quadro idilliaco:
Siculis vero de huiusmodi pace nimium congaudentibus, et sub pace existentibus tranquilla Deum collaudantibus de tam immenso dono, quod antiqui Reges Siculi hactenus obtinere minime potuerant…,
appena velato - «nimium congaudentibus» - dalla deprecazione di un eccesso di fiducia nella felicità dello stato presente. Ma ecco che all’inizio di ottobre del 1347 dodici galee genovesi attraccano al porto di Messina. Su di loro pesava la collera divina:
… divinam fugientem ulcionem, quam Dominus noster pro eorum iniquitatibus desuper eis transmiserat…
Michele non dice le ragioni dello sfavore divino, che comunque riguarda i forestieri, non gl’incolpevoli siciliani. Il male è già nei genovesi, «ossibus infixum», e subito trasmesso, visto che bastava parlare loro, o toccare qualche oggetto loro appartenuto, per contrarre la malattia, al punto da non poterne scampare. I segni dell’affezione sono precisi ed inconfondibili: prostrazione totale e dolore per tutto il corpo, pustole sulle gambe o sulle braccia, quindi sputo di sangue che durava tre giorni, incessante, incurabile, fino alla morte. Resisisi conto del male portato dalle galee genovesi, i Messinesi li allontanano dal porto e dalla città con la massima celerità. Le navi partirono, la malattia rimase.
Incapace, perché fondamentalmente poco o nulla interessato, a trovare una spiegazione dell’infuriare del morbo, il cronista isolano risolve il tema in una casistica minuziosa ed accurata, tutta tesa al contrario a restituirne il carattere totalizzante. Il resto, la vita politica o amministrativa, i protagonisti della vita pubblica, tutto scompare; rimangono i rapporti personali, o meglio, la disgregazione di essi. Subito si innesca un crescendo pericolosamente orientato al completo annullamento dei legami umani, che va perfino oltre la volontà dei singoli: se il figlio si ammalava il padre ricusava di avvicinarsi a lui, e se osava farlo immediatamente contraeva il male e nel giro di tre giorni esalava l’ultimo respiro; e con lui morivano tutti i membri di quella famiglia, e gli animali domestici. Non solo i rapporti di naturale solidarietà familiare sono così profondamente alterati, perché allo stesso modo - oltre il volere personale, ripeto - entra in crisi anche la solidarietà religiosa, anche quella sacramentale, e quella civile che si esprime nel riconoscimento pubblico delle volontà ultime: molti ricorrevano ai sacerdoti per confessare i propri peccati, ai notai per fare testamento, e preti, giudici e notai non volevano entrare nelle loro case, e chi entrava non poteva evitare una morte rapida. I frati degli ordini mendicanti e gli altri regolari che erano assidui nelle confessioni e nell’amministrazione dei sacramenti erano i più colpiti. I cadaveri rimanevano abbandonati nelle case: nessuno, prete, figlio, padre, parente aveva il coraggio di entrare, ma si ricorreva a carrettieri pagati non poco per portare le salme alla sepoltura. Le case rimanevano aperte, con tutto quello che contenevano, comprese le ricchezze: se qualcuno avesse voluto entrare niente glielo avrebbe impedito. L’improvvisa pestilenza si sviluppò al punto che prima non vi fu un numero sufficiente di persone in grado di fornire aiuto, ed in seguito non ve ne furono affatto.
Infine la città è devastata tanto da rischiare la fine. I cittadini decidono di abbandonarla, si vieta agli altri non di entrarvi, ma neppure di avvicinarsi ad essa. I Messinesi si rifugiano in campagna, in luoghi aerati ed in mezzo alle vigne ben oltre il limite dell’abitato; un gran numero si dirige a Catania, fidando nell’aiuto della vergine Agata; altri passano in Calabria, altri in diverse regioni della Sicilia.
Ed il crescendo aumenta di intensità e di orizzonte. Che serve la fuga, se il male era nelle loro ossa e viaggiava con loro? I fuggitivi morivano nei campi, nelle strade, sulle spiagge, nei boschi, dovunque. Chi arrivò a Catania morì là dove era stato ospitato, e la mortalità portata dai Messinesi crebbe tanto che a richiesta dei cittadini catanesi il patriarca decretò sotto pena di scomunica di non seppellire alcun messinese in città, ma piuttosto fuori, in fosse molto profonde.
Dopo i congiunti che si evitavano vicendevolmente, i Catanesi che evitano i Messinesi. C’era chi per terrore non parlava neppure con essi, ma fuggiva alla loro vista. Se qualcuno rivolgeva loro la parola, lo apostrofavano: «non mi parlari ca si Missinisi». Non trovavano case dove risiedere, e se non ci fossero stati alcuni messinesi abitanti a Catania con le loro famiglie ad ospitarli di nascosto, sarebbe loro totalmente mancato ogni aiuto. Dopo Messina, Catania; dopo Catania l’isola intera. Si disperdono i contagiati, e giungono a Siracusa, Sciacca, Agrigento, soprattutto Trapani, che quasi perdette la totalità degli abitanti.
Disegnato il quadro generale Michele torna sugli individui martoriati, e descrive minutamente il decorso della malattia: non solo le pustole volgarmente chiamate antrachi, ma anche ghiandole crescevano in diverse parti del corpo, sul petto, alle gambe, alle braccia alla gola. All’inizio erano come nocciole, e venivano insieme ad un gran gelo, e prostraevano a tal punto che ci si poteva solo stendere, in preda ad una altissima febbre e ad una angoscia profonda. Poi crescevano come noci, come uova di gallina, di anatra, ed il dolore enorme e la corruzione degli umori interni costringevano a sputare sangue, e lo sputo, salendo dal polmone infetto alla gola, corrompeva il corpo intero, ed il corpo corrotto, non più sostenuto dagli umori, esalava lo spirito. La malattia durava tre giorni; nel quarto almeno il corpo era liberato dalle sofferenze di questo mondo.
L’impotenza dei rimedi lascia una sola speranza: quella di raggiungere il bene ultimo. Considerando il breve ciclo del male, i Catanesi, come erano preda del mal di capo e del freddo intenso per il corpo, subito si confessavano, quindi facevano testamento. Ma giudici e notai stanchi si rifiutavano di andare per i testamenti, e se si recavano da qualche ammalato, ne stavano ben lontani; i sacerdoti non si sottraevano al loro dovere, ma né giudici e notai per i testamenti, né sacerdoti per i sacramenti, erano sufficienti alla bisogna. Perciò il patriarca, volendo provvedere alle anime, concesse a qualunque prete la facoltà di assolvere dai peccati: tutti quindi guadagnarono certamente il luogo della salvezza eterna.
Quanto forte fosse stato il pericolo del totale annichilimento delle grandi città dell’isola, e della sua vita civile, era stato evidente, ma per quanto terribile, per quanto segno tremendo della caducità del benessere, non si trattava della fine del mondo, né di un evento inesplicabile, in sede di bilancio finale. Il male era venuto da fuori, lo si era subìto, non causato; se non si era stati in grado di combatterlo, si era comunque sopravvissuti. La peste in Sicilia era stata una prova grandiosa, ma in fondo assimilabile: niente più che un brusco cambio di velocità, un’accelerazione inconsueta della parabola umana, una via rapida verso il destino ultimo dell’uomo. Il tratto intermedio si era compresso, ma l’alfa e l’omega rimanevano inalterate.
L’autore della cronaca senese attribuita ad Agnolo di Tura [194], sa che a Natale la peste è in Dalmazia e già a Genova [195], portatavi da alcune galee genovesi provenienti dal Mediterraneo orientale dove avevano combattuto:
Le galee de’ Genovesi tornaro d’oltramare e da la città di Romania a dì ....di novenbre e tornaro con molta infermità e corutione d’aria la quale era oltremare, inpercohè in quel paese d’oltremare morì in questo tempo grande moltitudine di gente di morbo e pestilentia. Essendo gionte a Gienova le dette galee tenero per la Cicilia e lassorovi grande infermità e mortalità, che l’uno non potea socorare l’altro: e così gionti a Gienova di fatto v’attacoro il morbo grandissimo e morivavi molta gente, e durò questo più semane e continuo cresceva il detto morbo e per questo tutti quelli navili furono tutti cacciati di Genova, e così si partiro quelle maledette galee…
Cacciate da Genova le navi vanno a Pisa ad inaugurare il nuovo anno:
… e vennero a Pisa a dì....di gienaio, e come furono a Pisa nella piaza de’ pesci e a qualunque favellavano subitamente amalavano di morbo e subito cadevano morti, e così chi favellava a quelli amalati o tochasse alcuna di le loro cose, così di subito amalavano e morivano, e così si sparse per tutta Pisa, per modo che vi fu tal dì che ne moriva 400…
Di qui, dice il cronista senese, l’epidemia si sparse in tutto il mondo. Da Pisa con le «maledette galee» a Piombino; nel febbraio a Lucca, a marzo a Firenze, tra aprile e maggio a Siena, Perugia, Orvieto, ed oltre l’Appennino a Bologna e Modena [196].
Ma nonostante questo avvio di respiro ampio, almeno sul piano regionale, l’orizzonte del cronista ben presto si restringe recisamente all’ambito cittadino. La descrizione propria della peste, dopo un avvio convenzionale [197], sembra prendere la via del ricordo personale: «E io Agnolo di Tura, detto il Grasso, sotterrai 5 miei figliuoli co’ le mie mani…» [198], tanto che il Larner rimanda a questa cronaca per esemplificare come si trattasse di un fenomeno dalle rilevanti conseguenze psicologiche [199]. Ma dopo questo breve cenno di carattere autobiografico, il cronista presenta invece una situazione generale, tipicamente cittadina; anzi tipicamente senese.
Non gli importa indagare le ragioni, terrene o divine che siano, del male, quanto piuttosto esclusivamente gli effetti che ebbe l’epidemia nella vita della città. Ed ecco, nell’ordine, la sensibilità dei governanti nel provvedere all’assistenza degli indigenti, fino alla sepoltura, l’insistenza sulla decimazione della popolazione [200], l’abbandono delle opere pubbliche [201] e delle cave d’argento, oro e rame, l’incapacità ad impedire lo strazio dei cadaveri da parte delle bestie selvatiche, l’elenco dei notabili vittime del male. Infine, «restata la pestilentia», il disordine della condotta dei sopravvissuti: «ognuno che scanpò atendevano a godere; frati, preti monache e secolari e donne tutti godevano, e non si curavano lo spendere e giocare, e a ognuno pareva essere richo, poichè era scanpato e riguadagnato al mondo, e nissuno si sapea assettare a far niente» [202]. Si noti, oltre il rinvio ad un passo parallelo di Matteo Villani, su cui ha richiamato l’attenzione il Mollat [203] - e numerosi altri potrebbero essere ricordati -, che la sensazione di riacquisto di vitalità fosse per il cronista senese solo relativa - tutti si consideravano ricchi per il sempice fatto di essere sopravissuti -, mentre reale invece fu l’interruzione di un periodo di floridezza che aveva visto nella costruzione del nuovo duomo la sua manifestazione più appariscente. Il tempio moderno non si costruì più, e non perché i Senesi, superato il periodo angoscioso della peste, avessero perso la testa in un totale rilassamento morale:
E per cagione di detta moria si tralassò e non si seguì più oltre per la poca gente che rimase in Siena, e anco per le malinconie e affanni che ebe chi rimase. E anco li maestri, che tolsero a fare detto lavorio, quasi tutti morirono. E similmente i cittadini che erano operai al detto lavoro moriro, il quale difitio si cominciò nel 1338, come indietro è detto [204].
Erano venute meno le forze morali e materiali che avevano spinto tempi addietro a quell’opera grandiosa di celebrazione della opulenza della città. Se in seguito il cronista sembra di nuovo allineare i fatti degni di menzione per la vita cittadina, come se nulla fosse cambiato, non può esimersi dallo stilare un bilancio finale da cui emerge chiaramente, oltre il moralismo, che la società senese nel breve volgere di un anno, è profondamente mutata:
1349. Doppo la gran pestilentia de l’anno passato, ogni persona viveva sicondo il suo albitrio; e ogni persona tendeva a godere di mangiare e bere, cacciare, uccellare e giocare; e tutti li denari erano venuti a le mani di gente nuova [205].
Dove non conta tanto la deprecazione degli eccessi, quanto piuttosto la constatazione di un emergere di nuovi ricchi e potenti. Veramente qui la peste appare giocare un ruolo importante nella storia dello sviluppo della vita civile in Siena, e la valutazione dello storico moderno, ben più motivata, dialoga con quella dello storico antico [206].
Matteo Villani inizia la sua continuazione della cronaca di Giovanni proprio dalla peste in cui il fratello maggiore era scomparso. Rivolgiamoci, accogliendo ancora una volta l’esortazione di Arsenio Frugoni [207] a porre particolare attenzione ai prologhi, tanto fruttuosa - basterà ricordare quanto sul piano tipologico è servita a Bernard Guenée [208] -, e, per quel che ci interessa qui, particolarmente al prologo al capitolo primo, che è anche, e soprattutto, prologo all’intera opera. In verità molto è già stato scritto circa i prologhi di Matteo [209], veri manifesti programmatici e riassunti icastici della sua «concezione del mondo». Ora quel prologo è l’illustrazione più piena di uno «sfiduciato moralismo» [210], constatazione del caos che regna sovrano dovunque, sia per l’azione umana, sia per l’infuriare delle forze della natura; ma, chiediamoci, è anche «consapevolezza lucida di una crisi del mondo presente», come vedeva proprio qui a Todi qualche anno fa Enrico Artifoni [211]? Se per Giovanni Aquilecchia il pessimismo di Matteo ha in questo punto la sua prima manifestazione «di stampo biblico-cristiano» [212], se per il Green quel pessimismo mostra di risolversi in una per dir così dissoluzione storiografica [213], ci pare doveroso osservare che la presentazione dell’opera si muove non all’indietro, sul piano dell’apocalisse, al più in rassegnata attesa del giudizio ultimo, ma su quello più propriamente positivo e propositivo tutto volto al futuro. Tanto più che, se Aquilecchia nota come tema tra i più «interessanti» le tirate antiecclesiastiche di Matteo [214], che sembrerebbero rendere materiche nello scritto della cronaca le tensioni del tempo, tra Firenze ed Avignone, Artifoni ha mostrato come fossero presenti nel secondo Villani sincera ed appassionata fede repubblicana e - soprattutto, aggiungiamo noi - una «intransigenza guelfa» [215] che, per quanto più reazione emotiva che meditazione politica, sono in un qualche modo quella risposta alternativa al disordine del mondo che Aquilecchia pensava arduo poter rintracciare nella cronaca «al di là dello sfiduciato senso del precario» [216]. Per dire che se il prologo al primo libro è come all’inizio della nona sinfonia beethoveniana, il segno del caos, si dovrebbe constatare che il resto del lavoro non è affatto l’illustrazione del regno del caos; altrimenti non si capirebbe come subito dopo, per quanto sicuramente in omaggio ad un preciso schema retorico, si giustifichi quella fatica con la speranza - la parola appare esplicitamente - di giovare, in maniera tutta particolare a coloro che sono «meno sperti», in modo che «con fatica e studio da poter venire a operazioni virtudiose». Di più: teniamo conto che il quadro sconsolato del mondo - quadro sconsolato dell’esistenza - si prolunga e si amplifica nei successivi capitoli, dal primo al quinto, che costituiscono proprio i limiti entro cui si iscrive la peste del 1348.
Consideriamo la partenza, già a suo modo ambiziosa: si delinea immediatamente l’immane soffio della storia umana:
Trovasi nella santa Scrittura…
Il male che colpisce il mondo ha la sua prima motivazione nel male commesso dagli uomini; così si leggeva nel prologo all’opera,
… per la macchia del peccato la generazione umana tutta è sottoposta alle temporali calamità e a molta miseria e a innumerabili mali…
ed allo stesso modo si prosegue qui: così era stato al tempo del diluvio, quando il peccato aveva corrotto l’umanità intera:
… avendo il peccato corrotto ogni via della umana carne… [217].
In seguito, se non vi furono più diluvi universali, in accordo con la promessa divina a Noé, suggellata dall’arcobaleno [218], che però Matteo non ricorda affatto, si susseguirono «diluvi particolari, mortalità, corruzioni e pistolenze, fami e molti altri mali che Iddio ha permesso venire sopra gli uomini per li loro peccati». Questa insistenza sui «diluvi» non pare affatto puramente topica, visto che i due anni precedenti erano proprio stati caratterizzati da un’anomala abbondanza di piogge, come abbiamo ricordato sopra, e la stessa parola «diluvio», in volgare ed in latino, si trova largamente adoperata in proposito nei testi coevi, di cronisti e non [219]. Quindi Matteo dà un saggio di storia delle grandi epidemie, ovviamente per quel che sa. E sa - con qualche confusione - dell’epidemia «al tempo di Marco Aurelio Antonio [220] e Lucio Aurelio Commodo imperadori»; poi di quella «al tempo di Gallo Ostilio Augusto e Bolusseno suo figliuolo, occupatori dello imperio e gravi persecutori dei cristiani» [221]; continuò per i tre lustri successivi [222]. Ma poi più nulla; la sua cultura storica è troppo modesta per consentirgli di proseguire la rassegna, e subito viene al caso presente, che, naturalmente, non solo regge il paragone con le pestilenze antiche che ha ricordato, ma addirittura le sovrasta per l’ampiezza delle regioni colpite, «universale giudicio», perfino superiore incomparabilmente, se guardato dall’entità delle vittime, a quello del diluvio universale, che colpì i pochi abitanti della terra di allora [223].
Ma è tempo per il Villani di entrare in argomento. L’inizio proprio è a dir poco sconcertante: Matteo si propone di narrare «lo sterminio della generazione umana», scandendone tempi e modi, fenomenologia e vastità, e subito si stupisce non della terribilità del male, ma piuttosto della «molta misericordia» usata dalla «divina giustizia» in quell’occasione, visto che l’umanità sarebbe stata invece degna «per la corruzione del peccato di final giudizio». Il peccato in questione non è certo quello originale, ma anzi il dilagare presente del peccato, giunto a tanto da meritare l’estinzione estrema. Anche se poi il Villani non ci dice affatto in che consistano quei peccati talmente diffusi da causare la collera divina. In realtà è proprio questa indeterminatezza a chiarire di che si sostanzi e fino a che punto giunga il tanto conclamato scetticismo villaniano. Se il cronista senese giudicava l’epidemia giusto castigo divino per il malvagio comportamento dei genovesi, esteso poi per riverbero a tutta la cristianità [224], Matteo, che pure sa bene del modo preciso in cui il male è giunto in Occidente, ne incolpa l’intera razza umana: per il senese il tramite furono le «maledette galee de’ Genovesi»; per il fiorentino alcune «galee d’Italiani». Ugualmente in chiave cosmica, viene intesa la parabola complessiva del male. L’avvio solenne, «Videsi negli anni di Cristo, dalla sua salutevole incarnazione, 1346…», non è puro dato cronologico, ma afflato provvidenziale in cui situare esattamente il fenomeno. Così la precisazione astrologica, su cui evidentemente molti avevano attirato (poi) l’attenzione, per additarne un segno premonitore, viene riportata per dovere di cronaca [225], ma con la precisazione esplicita che non certo lì sta la ragione profonda del male: a questa conclusione conducono una constatazione a metà tra lo scientifico ed il senso comune, e la convinzione religiosa:
… la congiunzione di tre superiori pianeti nel segno dell’Aquario, della quale congiunzione si disse per gli astrolaghi che Saturno fu signore: onde pronosticarono al mondo grandi e gravi novitadi; ma simile congiunzione per li tempi passati molte altre volte stata e mostrata, la influenza per altri particulari accidenti non parve cagione di questa, ma piuttosto divino giudicio secondo la disposizione dell’assoluta volontà di Dio.
Matteo ripete qui quanto già il fratello Giovanni aveva osservato a proposito della pestilenza del 1347 [226]; Boccaccio era stato apparentemente neutrale [227]:
… mortifera pestilenza, la quale o per operazione de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali…
Ma la peste serviva al grande narratore per disegnare il suo contrario, lo scuro su cui tracciare i disegni chiari delle speranze e dei lieti conversari; per Matteo è invece il momento ammonitore dell’apocalisse finale, il flagello che colpisce tutti, «gli uomini d’ogni condizione di catuna età e sesso», prima in Oriente dove ha origine, e poi in Occidente. Anche la vastità del quadro geografico,
Cominciossi… inverso il Cattai e l’India [228] superiore… si venne di tempo in tempo e di gente in gente apprendendo: comprese… la terza parte del mondo che si chiama Asia… s’aggiunse alle nazioni del Mare Maggiore e alle ripe del Mare Tirreno, nella Soria e Turchia, e in verso lo Egitto e la riviera del Mar Rosso, e dalla parte settentrionale la Rossia e la Grecia, e l’Erminia e l’altre conseguenti provincie…,
anche questo accumulo, dal generale (l’Asia…) alle regioni più particolari ed individuate, ma sempre con una riserva di mitico, lontano ed in fondo terrorizzante, situa l’arrivo del male in un immane soffio divino che avvolge l’umanità. Di questa terribile grandiosità devono prendere coscienza i lettori, non i fiorentini, non gli Italiani, ma le «nazioni che dopo noi seguiranno»; questa è la ragione precisa per cui scrive Matteo.
Le «galee d’Italiani» venute dall’Oriente infettano la Sicilia, e quindi Pisa, e Genova. Quindi riprende vigore il grande respiro provvidenziale: «conseguendo il tempo ordinato da Dio…», parallelo apocalittico dell’evangelico tempo della salvezza, la «mortale pestilenza» avvolge la Sicilia intera, e quindi l’Africa, il Tirreno e le sue isole e tutta Europa: l’Italia, la Provenza, la Spagna fino all’Oceano, l’Irlanda, l’Inghilterra, la Scozia, ed infine «gli Alamanni e gli Ungheri, Frigia, Danesmarche, Gotti e Vandali e gli altri popoli settentrionali». Il panorama storico e geografico della peste si conclude così, tumultuosamente dilatandosi, e tutto avvolgendo, fin nelle brume più estreme del nord, come dalle leggendarie estremità orientali si era mosso.
Sulla atrocità dei comportamenti ingenerata dal terrore del male insiste anche il Villani, soprattutto nei confronti di chi più avrebbe avuto bisogno di aiuto. Tutti i cronisti sottolineano con analoghe parole, sappiamo, «la crudeltà che era e modi dispiatati», come si esprime la cronaca senese [229], ad ogni livello, anche tra i parenti più intimi [230], ma Matteo è il solo a classificare come originariamente “barbara” quell’«inumanità crudele», che pure si ritrovò in seguito anche fra i cristiani [231]. La sollecitudine reciproca poteva esser un rimedio, ma tutti evitavano i malati. Di contro all’insieme degli altri cronisti - notevole correzione ad un pessimismo rassegnato -, il solo Villani sostiene che chi si era già disposto alla morte, volendo continuare a prestare soccorso a parenti ed amici infermi, pur contraendo il male non morì, e poté continuare la sua opera, e la cosa incoraggiò altri a fare altrettanto, per cui molti, così sollevati, poterono guarire [232].
Il tempo successivo alla peste pare il culmine del pessimismo villaniano. Il quarto capitolo, Come gli uomini furono peggiori che prima, esemplifica la norma che, scampato il pericolo, dopo i giorni del dolore, «gli uomini trovandosi pochi e abbondanti per l’eredità e successioni dei beni terreni, dimenticando le cose passate come state non fossono, si dierono alla più sconcia e disonesta vita che prima non aveano usata». Senza limiti ci si diede ai piaceri, cibi, vesti, lussuria, senza freno, anzi nei modi più esasperati. Se Dante aveva poco dopo l’inizio del secolo contrapposto gli eccessi di comportamento della Firenze di allora alla misura della Firenze di Cacciaguida, se Riccobaldo negli stessi anni aveva fatto più o meno lo stesso per la sua Ferrara [233], oltre mezzo secolo più tardi Matteo Villani non può già più ripercorrere quel modello: esecrazione dei tempi presenti, sì, ma nessun ricordo di tempi più morigerati! Da troppo tempo Firenze viveva in un clima di benessere tale da avere fatto del tutto dimenticare l’età dei sobri costumi degli antenati. E Matteo scioglie la sua amarezza senza speranza in dimensioni universali: non si tratta della sola Firenze infatti, «e così, e peggio, l’altre città e province del mondo». La chiusa del capitolo è speculare all’inizio del primo capitolo: là si partiva dalla Scrittura, dal diluvio; qui si ammonisce che «secondo il profeta Isaia, non è abbreviato il furore d’Iddio, né la sua mano stanca». Così si conclude lo spazio dedicato alla peste. Il capitolo successivo, Come si stimò dovizia, e seguì carestia, serve egregiamente ad illustrare per Ruggiero Romano e John Day la crisi italiana della metà del Trecento [234], per il Mollat «le conseguenze sociali e morali della peste» [235]; sorprende che questi qualificati commentatori citino il brano a sostegno di interpretazioni offerte con scarsa problematicità, quasi che le conseguenze dell’epidemia non potessero essere naturalmente che quelle. Mentre invece è da rilevare che il fiorentino e sensibile agli “affari” Matteo Villani, un “esperto” d’allora, presenti quelle conseguenze come la negazione delle previsioni naturali. Un buon conoscitore delle leggi di mercato, come era Matteo, confessa che lui, e come lui tanti altri, non erano stati in grado di immaginare quello che sarebbe successo, anzi avevano supposto il contrario. Lo studioso di oggi sorride con compatimento di fronte ai lamenti moralistici di Matteo, mettendo in mostra la propria conoscenza delle leggi economiche, e dimenticando quello che oltre un secolo fa aveva notato Jakob Burckhardt: «Un fiorentino soltanto poteva lasciare scritto come tutti si aspettassero che, per la scarsezza degli abitanti, tutti i prezzi delle cose ribassassero, e come invece e viveri e mercedi siano rincarati del doppio; come il popolo in sulle prime non volesse più lavorare, ma darsi buon tempo; come nella città non potessero più aversi né servi, né fantesche se non a prezzi elevatissimi; come i contadini non volessero più coltivare che i terreni migliori, lasciando incolti gli altri e come gli enormi legati lasciati durante la peste a favore dei poveri apparissero dopo inutili affatto, perché i poveri o erano morti o poveri più non erano» [236]. Perché condannare il moralismo, ricorrere al liberatorio passepartout della “mentalità” di un uomo del Medioevo, e non limitarsi alla constatazione che si trattava semplicemente di un fatto, registrato da altri, più o meno con le stesse modalità, anche altrove, in Italia ed in Europa [237]? Se invece si trattava di un errore di valutazione dei contemporanei, in generale, non sarà inutile ricordare che ancora l’“esperto” moderno Robert Fossier ha dovuto avvertire che non sempre - anzi, quasi mai - i modelli “moderni” funzionano per i secoli finali del Medioevo [238]. Anche la peste era stato un fatto, e quel che era seguito, insomma, appariva tale da vanificare le leggi economiche nelle quali una persona particolarmente versata per il mondo economico, come appunto Matteo Villani, credeva; si delineavano nuovi comportamenti, nuove leggi, un nuovo tempo, da comprender su basi diverse; del nuovo tempo, la peste era stata, per Matteo, la cifra iniziale.
Ma torniamo a chiederci quale sia l’insegnamento che i lettori devono trarre, quali siano «il consiglio e ’l rimedio dell’avversità» che il Villani si proponeva di indicare programmaticamente. La risposta ora è semplice e disarmante: niente più che la constatazione che qualunque catastrofe, per quanto enorme, non è dovuta al mal fare contingente; che non è ragione alcuna di trovare giustificazione all’infuriare di una forza naturale - incontrollabile -, nella cattiva condotta di questo o di quello, singoli o collettività. La ragione profonda è nella stessa natura dell’esistenza, tutta ed esclusivamente nelle mani di Dio. Né angoscia inerte, né presunzione quindi; né scarico di responsabilità, né identificazione di colpevoli, perchè tutti, e da Adamo, siamo colpevoli; la “lezione” della peste deve avere validità al livello delle coscienze, deve spronare «a operazioni virtudiose», non per placare l’ira di un Dio irraggiungibile, ma per agevolare il tragitto terreno dell’uomo. Così essendo intesa la vita, limpido significato acquista allora il prologo:
… per la macchia del peccato la generazione umana tutta è sottoposta alle temporali calamità e a molta miseria e a innumerabili mali i quali avvengono nel mondo per varie maniere e per diversi e strani movimenti e tempi, come sono inquietazioni di guerre, movimenti di battaglie, furore di popoli, mutamenti di reami, occupazioni di tiranni, pestilenzie, mortalità e fame, diluvi, incendi, naufragi e altre gravi cose delle quali gli uomini ne’ cui tempi avvengono, quasi da ignoranza soppresi, più forte si maravigliano e meno comprendono il divino giudicio e poco conoscono il consiglio e ’l rimedio dell’avversità, se per memoria di simiglianti casi avvenuti ne’ tempi passati non hanno alcuno ammaestramento; e in quelle che la chiara faccia della prosperità rapporta non sanno usare il debito temperamento, rischiudendo sotto lo scuro velo della ignoranza l’uscimento cadevole e il fine dubbioso delle mortali cose…
Questa coscienza esistenziale, né angosciosa né eroica, sostanzia lo scopo per cui Matteo ha scritto la sua storia, il suo «ammaestramento», in tempo di «avversità» come in tempo di «prosperità»; la «consapevolezza» di Matteo Villani veramente qui «si trasferisce sul piano del cosmo» [239] ed oltre, e dà un senso alla peste, a Firenze, all’Italia ed al mondo, in breve alla vita umana. Meditando la storia della peste del 1348 si potrà in simili frangenti vivere consapevolmente: è la stessa importante “lezione” che il nostro contemporaneo Arno Borst trae dallo studio del terremoto di quel medesimo anno [240]. Se le insicurezze sul mondo erano divenute in Giovanni Villani insicurezza della persona, come rilevava il Green [241], in Matteo la catastrofe della peste era possibilità di esercitare quel rigore di concatenazione delle riflessioni che già è stato notato sul piano letterario [242], e motivo per procedere oltre in un maggiore equilibrio dell’anima.
La “mutazione” dei tempi, avvertita alla vigilia della peste da Giovanni Villani, e dopo il male resasi evidente agli occhi del cronista senese e di Matteo Villani, diviene più chiara in Marchionne fiorentino [243]. Tuttavia si potrebbe dire che la pagina della sua cronaca dedicata alla peste è un intermezzo del mutamento in atto, tra un prima in cui l’organismo cittadino sembra funzionare a fatica, ed un dopo in cui la direzione amministrativa della città si avvia a riacquistare una nuova ed efficace capacità di intervento. La rubrica sulla «mortalità la quale fu nella città di Firenze, dove morirono molte persone» rappresenta una netta cesura del tessuto narrativo della cronaca, e si presenta con aspetti, per così dire, “misti”, visto che accosta tributi diversi a quello che abbiamo detto il modulo cronachistico convenzionale, a notazioni vivaci e popolaresche che hanno il fresco sapore della realtà, vissuta personalmente - Marchionne nel 1348 aveva dodici anni -, o comunque udita narrare da testimoni vicini cronologicamente e spazialmente, amici, conoscenti e familiari.
L’orizzonte è ristretto: Marchionne ignora totalmente l’epidemia al di fuori di Firenze, non dice come vi fosse portata o da chi; il male scoppia senza una riga di introduzione, improvviso, ingiustificato, non preceduto da segni premonitori, né come coronamento di eventi calamitosi o comportamenti colpevoli, un hàpax della storia di Firenze.
Il quadro è colorito, ma piuttosto disordinato [244], tutto intessuto sui particolari, spesso risolto in puri elenchi [245], ma anche con una tale abbondanza di aneddoti che, oltre all’orrore, non possono che essere diretti ad intendere la vicenda con un certo distacco, fino a strappare un sorriso. Come quando racconta di quelli che al malato dicevano: «Io vo per lo medico», ed una volta guadagnato l’uscio non si facevano più vedere; o degli altri che, con la scusa di evitare al malato la fatica di chiamare durante la notte, gli ponevano accanto al letto ciò che si pensava potesse essere d’aiuto, pillole, vino, acqua, e dopo che il disgraziato aveva preso sonno si allontanavano; o quando riferisce dei cadaveri ricoperti con un leggero strato di terra, e quindi con altri cadaveri, ed altra terra, come si fa con le lasagne ed il formaggio.
Ma la somma dei particolari non fa una unità. Gli elementi singoli rimangono a sé stanti, una lista di fatti unici, efficaci nel complesso a rendere una atmosfera, ma soprattutto orientati, crediamo, a restituire la disintegrazione della città nell’atomismo del particolare e del negativo: «Tutta la città non avea a fare altro che a portare morti a seppellire» [246]. Se non mancano gli interventi del pubblico - divieto di celebrazione dei funerali con suoni di campane, catafalchi ed annunci a voce; limitazione della partecipazione dei religiosi alle esequie; proibizione di importare in città frutti considerati nocivi - si tratta di provvedimenti, escluso l’ultimo, giusto diretti a confinare nell’ambito del privato quelle manifestazioni di lutto che, troppo perniciose al morale perché così numerose, non si giudicava opportuno ammettere come ordinarie. Quasi che impedirne il clamore potesse nasconderne la diffusione. Ci si trova però ancora insieme, o nelle processioni «gridando: “Misericordia”, e facendo orazioni», o «in brigata a mangiare per pigliare qualche conforto»; ma anche i pranzi con gli amici sono un’ennesima occasione per constatare la mancanza dei convitati.
Solo la fine dell’epidemia rimette in moto l’apparato di governo, fino a quel momento solamente in grado di procedere alla conta dei decessi:
Nel detto anno, essendo ristata la mortalità, era in Firenze trasandato gli uomini e le donne nel vestire… e fessi ordine sopra ciò, e diessi balìa a seguir gli ordini al giudice della grascia. Li sarti erano sì forte smisurati… Fu a loro posto ordine quello dovessero tôrre d’ogni cosa per sè. Li fanti e fante erano sì spiacevoli con grandissimi prezzi che convenne farvi grosse pene a raffrenarle. Li lavoratori delle terre del contado volieno tali patti… Di che fu fatto ordini gravi sopra ciò… Missesi freno ancora nelle nozze… [247]
Il controllo della situazione è ristabilito; la peste ha segnato un periodo di totale arresto della capacità del comune a fronteggiare la situazione; ma ora tutto e passato. Il tempo si è fermato da marzo a settembre 1348; la storia di Firenze riprende a scorrere.
Per Marco Battagli da Rimini, autore di una cronaca dal valore discusso [248], la peste [249] va intesa come evento del tutto provvidenziale. La chiave è tutta moralistica, ma grandiosa, di stampo biblico. Comincia anch’egli nel ricordo del diluvio universale:
… humana iniquitas et cuiuscumque generis peccata tantum creverant super terram, quod eorum fetor et clamor ad iustas aures pervenit altissimi. Tunc iusta Dei sententia, similis diluvio Noe, cum ignea mortis acute plaga super omnem faciem terre irruit cum furore et quasi inquit, sicut fecit tempore diluvii: - Omnem creaturam delebo et propter eorum facinora finis universe carnis perveniat ad effectum…,
che riprende Gn.  6, 5-13:
Videns autem Deus quod multa malitia hominum esset in terra et cuncta cogitatio cordis intenta esset ad malum omni tempore… Delebo, inquit, hominem, quem creavi, a facie terrae… dixit ad Noe: Finis universae carnis venit coram me…
Opportunamente dimentica il Battagli, come Matteo Villani, la promessa divina di non più colpire il genere umano con un nuovo flagello “universale”, e passa a descrivere i segni del male che ha visto da vicino: «testimonium perhibeo». Il ricordo della congiunzione astrale sotto cui si è iniziata l’epidemia, altrove oggetto di discussione, è in lui declassata a nota puramente cronologica, mentre l’origine prossima della malattia vien fatta discendere, come in altri, da un grande fuoco. Solo che in Battagli quel fuoco offre il destro per continuare il parallelo con la storia sacra, questa volta verso il tempo ultimo. Come all’inizio della storia umana la malvagità aveva causato il diluvio, così oggi gli innumerevoli peccati hanno causato la peste; come il giudizio finale avverrà nel segno del fuoco, così la peste di oggi, sorta dal fuoco, esemplifica e preannuncia il dies irae:
Hoc enim tale periculum Dei sententiam possumus appellare et quasi videtur esse et fuisse iudicium futurum per ignem, quod in Scripturis sanctissimis invenitur, quoniam illud infirmitatis iudicium processisse ab igne videtur.
In questo modo il flagello è posto al centro della parabola spirituale, e lo stesso Battagli, risparmiato miracolosamente - «pro dei gratia ego evasi» -, è, nel dilagare della malvagità, segno del rinnovarsi della figura di Noè, segno del sopravvivere nell’umanità tralignata, di pochissimi buoni. Ma a questo punto ogni possibilità di una rinnovata storia parallela a quella biblica cade bruscamente: non solo l’ira divina non ha colpito chi avrebbe dovuto colpire, ma le cose ora, dopo la peste, stanno peggio di prima:
Omnes autem formose domine et viri iusti omnes vite terminum assignaverunt et quasi iniqui et reprobi pro contrario remanserunt. Quod post mortalitatem in operibus patuit, quia in duplo peiores sumus, quoniam nullus de altero, si potest obesse, confidat, cur cupiditas et avaritia modo ad presens in omnibus est conserta: ergo quasi ab omni conversatione caveto.
L’impostazione iniziale del brano è profondamente turbata da questa conclusione; ma evidentemente il Battagli ha barato: partito come un predicatore ha mostrato alla fine il suo vero volto di pessimista politico. In realtà ciò che guida il suo giudizio - anche a riguardo della peste - è l’antiguelfismo sconsolato e senza speranza di chi nel 1352 può solo concludere:
Modo solum ecclesia cum tyrannis in Ytalia dominatur et Romanorum imperium et iustitia obscure sepulta sunt et tyrannorum iniquitas et superbia cum Luciferi sequacibus, sicut in celo, ita modo in terra deviat rectum iter [250].
Allora si comprende come l’«humana iniquitas et cuiuscumque peccata», che hanno dato origine all’intervento divino, sono quegli stessi mali, «cupiditas et avaritia» che si constatano regnare ancora, nonostante quell’intervento; è l’«iniquitas et superbia» dei tiranni e della chiesa, negazione del «Romanorum imperium et iustitia» - un’endiade! -, che regge e governa sovrana, parallelo terreno dell’azione luciferina nei cieli. La peste non ha cambiato nulla; la sola consolazione, di chi non ha speranza di vedere un mutamento, è che alla fine, se Dio vuole, ci sarà un giudizio.
L’anonimo chierico di Fiandra che scrive della peste [251] comincia con il riportare il contenuto di una lettera, spedita il 27 aprile 1348 da Avignone a Bruges, dal cantore e canonico di Saint-Donatien Louis Heiligen, o Sanctus, uno dei più cari amici del Petrarca, cui dedicò le familiari. Il resoconto è lungo e particolareggiato. Oltre le dicerie sugli straordinari fatti d’Oriente che hanno preannunciato l’arrivo del male in Occidente - pioggia di animali repellenti e velenosi, tuoni, fulmini e grandine in misura eccezionale, fuoco dal cielo ed ammorbamento dell’aria -, ritornano i vascelli maledetti di Genova, che in questo caso sono il veicolo esclusivo di propagazione della peste, perché uno di essi, respinto da Genova, va verso Marsiglia, ed un’altro verso la Spagna. I sintomi della moria sembrano indicare tre tipi diversi di malattie, di cui due sembrano attagliarsi a quanto sappiamo della peste polmonare e di quella bubbonica, mentre la terza sembra solo una variante della seconda. Si diffonde ancora il canonico sulla facilità del contagio, sulla entità dei decessi, sull’ampiezza, per quanto sa allora, dell’epidemia, oltre il Rodano e fino a Tolosa. Dopo altri particolari su quanto si fece ad Avignone, dà consigli per difendersi: mangiare e bere con misura, proteggersi dal freddo, evitare ogni eccesso, limitare al massimo i contatti umani, in conclusione chiudersi in casa ed aspettare che l’epidemia si esaurisca: così faceva anche il papa. Ma poi il Chronicon pare dimenticarsi della peste per dedicarsi ad altri fatti e fatterelli. Ma invece ritorna in due brevi paragrafi a rammentare che l’epidemia avanza in Borgogna e Normandia. Quindi riprende ad occuparsi di tutt’altro: guerre, alleanze, miracoli, successioni. Fugacemente riferisce di molte migliaia di ebrei bruciati a Worms ed altre città, sotto l’accusa di aver avvelenato le acque - ma nessun cenno alla peste -, e passa per alcune pagine a descrivere i flagellanti; ma gran parte dello spazio loro dedicato è occupato dalla copia di una lettera del papa che li condanna senza eccezione. Poi più nulla, in proposito. La peste rimane dunque sullo sfondo, neppure angosciosa e incombente presenza che tutto condizioni, ma nulla più che elemento di una cornice, alla pari di altri. Lo stesso legame dei flagellanti con il senso di colpa suscitato dall’epidemia è appena accennato: in realtà quello che preoccupa è la dimensione del fenomeno, le manifestazioni disordinate, il mancato inquadramento della devozione: «quia sine auctoritate episcoporum vel pape faciebant». Non si dice neppure esplicitamente se il morbo è giunto nelle Fiandre. In conclusione per il chierico autore del Chronicon si deve allineare quel male dopo e in mezzo ad altri fatti, più o meno memorandi, visto che non ha tali caratteri di eccezionalità da esigere uno spazio compatto ed una trattazione analitica.
Gilles li Muisit, abate di Saint-Martin-de-Tournai, ci ha lasciato una Nouvelle chronique che va dalla Pasqua del 1349 al marzo 1353 [252]. Uomo di cultura modesta, prevalentemente poetica e morale, tutto teso alle questioni pratiche, Gilles è tutto sommato «un témoine secondaire de son temps» [253]. Ma si tratta degli anni cruciali della peste, che lo obbligano, con gli avvenimenti rilevanti ad essa collegati, a prendere una posizione piuttosto netta.
Per la verità la peste lo occupa direttamente solo come conclusione di un periodo per lui piuttosto impegnativo. Comincia infatti col descrivere le persecuzioni contro gli ebrei nell’aprile del 1349 a Colonia e nel Brabante [254], prosegue poi con l’apparizione dei flagellanti nella regione ed in particolare a Tournai, ed infine con l’arrivo della peste ed il suo sviluppo.
Pare che il morbo non colpisse la regione in maniera grave quanto nelle regioni circostanti [255]; in ogni caso essa precedette di poco l’arrivo dei flagellanti all’inizio d’agosto, ma divenne grave solo in settembre.
Anche Gilles è particolarmente colpito dal fenomeno dei penitenti, come tanti altri suoi contemporanei, ma ben più degli altri spinge il suo interesse fino ad informarsi a fondo. Così può fornire abbondanti dettagli sul movimento che, dice, ha ricavato da conversazioni con i loro capi; lo impressiona in particolare l’eterogeneità del reclutamento e nel contempo la capacità di omogenizzazione:
Et cantantes et ordinati ibant cantando secundum suum ydioma, Flamingi in flamingo, illi de Brabantia in Theutonico, et Gallici in gallico.
Habebant cantilenam ordinatam secundum suum ydioma, quam cantilenam incipiebant cantores ordinati, ceteris una voce respondentibus… Surgebant et cantando de beata Virgine, juxta suum ydioma.
La pietà sincera e commovente fà sì che sulle prime i flagellanti possano giungere a Tournai e fare le proprio opere di devozione con il benestare delle autorità [256]. Ma la reazione non tarda: la religiosità popolare espropria il diritto-dovere di indirizzo e di guida proprio della dirigenza religiosa [257], che non può permettere alcuna alienazione in proposito, pena la perdita del proprio ruolo, in sede locale come al sommo vertice. Ed ecco il capitolo di Tournai opporre le proprie processioni, predicazioni e penitenze a quelle dei flagellanti [258]. Ma c’è di più: la mobilitazione spirituale si fa sempre più razionale e sistematica. Già la liturgia era stata adattata alle circostanze dal papa Clemente VI, che aveva istituito un officio speciale per la peste. Gilles segue e si affianca: nella sua cronaca inserisce molte preghiere in francese, due delle quali indirizzate a S. Sebastiano, da recitare in tempo di peste [259]. Particolarmente insistita la descrizione dell'intervento delle autorità laiche in quella occasione, anche in tema di processioni: è segno manifesto del positivo disciplinamento di tutte le attività cittadine [260].
All’epidemia in sé Gilles dedica una considerazione ovviamente particolare, ma ancora prevalentemente con l’occhio dell’amministratore pubblico. Racconta sì qualche fatto eccezionale, come quello del pellegrino che tornava da S. Giacomo di Compostela e che dopo aver cenato una sera in una osteria con l’oste, le sue due figlie ed un servo, il giorno seguente li trovò morti di peste tutti e quattro [261]; ma la tragedia quotidiana, più o meno uguale per tutti, non lo sollecita a nessuna descrizione puntuale. Perfino il rilievo che le vittime sono numerose tra i più indigenti [262], e nei villaggi con vicoli stretti, più che tra i maggiorenti e nelle città caratterizzate da spazi maggiormente aperti [263], sembra destinato a trasmettere la convinzione che l’ordine, la razionalità civile, tipica di un luogo pubblicamente ben condotto, in qualche modo siano una garanzia contro il diffondersi del male dalle origini sconosciute. Racconta che all’inizio i funerali si fanno con gran pompa, le campane suonano giorno e notte, ma che poi i magistrati cittadini si preoccupano delle conseguenze sul morale della popolazione, e prendono una serie di provvedimenti, che vanno dalla limitazione del suono delle campane alle sole messe domenicali, al divieto delle vesti nere, alla semplificazione delle sepolture, che devono essere simili per ricchi e poveri; importante l’osservazione finale: la popolazione è unanime nel lodare queste misure che calmano gli spiriti, e quindi fanno indietreggiare il male [264]. La vigilanza e l’operatività delle autorità, civili ed ecclesiastiche, è non solo assolutamente necessaria per governare l’insostenibile situazione creata dalla peste, come nel caso dei flagellanti, ma ha anche indubbia validità terapeutica preventiva [265].
La cronaca dell’abate di Tournai sembra una vivace risposta, sul piano propositivo alle numerose più o meno esplicite, rimostranze circa lo stato del clero [266], testimoniateci da molti contemporanei, e per la verità già attestate prima della peste, ma che parvero acuirsi durante l’epidemia, fino a spingersi all’accusa che proprio i chierici ne fossero in qualche misura responsabili [267].
Per Jean le Bel, canonico di Saint-Lambert di Liegi, la peste in sè non ha grande rilevanza [268]: la liquida in poche righe, utilizzando argomenti del tutto convenzionali. Ben più importante è ciò che ne derivò: vista l’impossibilità di trovare un qualche rimedio all’epidemia si diffonde l’idea che si tratti di un intervento soprannaturale, e molti si danno a penitenze e devozioni. Allora, in questo clima già favorevole, monta la marea dei flagellanti partiti dalla Germania e giunti anche a Liegi. Vivamente impressionato Jean evoca con ampiezza di dettagli le marce ad ampio raggio dei penitenti, le processioni grandiose sulle quali campeggiano crocefissi, stendardi, palii dipinti, che è naturale immaginare gonfi di vento su quelle teste curve che «aloient par les rues II et II chantant haultement chanchons de Dieu et de Nostre Dame rimées et dictées», facendo loro «serymonies», e «toudis chantant leur chanchons» [269]. Si tratta di un vasto quadro, ricco di colori e di movimento, che subito colpisce e commuove gli abitanti di Liegi accorsi immediatamente. E il fiume ingrossa e si scinde in mille rivoli; le vene si ampliano alle regioni vicine. Un immenso afflato di religiosità popolare molto, molto più importante della peste. Ma il canonico di Liegi non può concludere con l’adesione al movimento. Si capisce che ha guardato con stupore e meraviglia al tumultuoso crescere dello spirito penitenziale e comunitario; ma poi in questo spirito comunitario è anche la radice della contestazione, o comunque del contrasto con ciò che è estraneo a questo spirito: «ceste grande affliction se converti en orgueil et en presumption». I penitenti, come tante volte si è visto nel Medioevo, assolutizzano la via di salvezza che percorrono, sono in contrasto con le devozioni “normali” perché giudicano le loro «plus dignes», fanno violenza a preti e chierici, per impossessarsi dei loro beni e benefici, dice il canonico cadendo bruscamente di tono.
A questo punto cessa di colpo l’interesse di Jean per i penitenti, ed una osservazione finale introduce ad un nuovo argomento stimolante: in realtà i flagellanti non fecero cessare la pestilenza, e questo fece sì che si spargesse la voce che la moria fosse causata dai Giudei. Bisogna notare che mentre nel caso dei flagellanti l’origine del morbo era in un atto volontario di Dio, mosso a vendetta dell’umanità peccatrice, gli Ebrei sono incolpati non di aver suscitato la collera divina, ma di aver dato principio materialmente al contagio, avvelenando pozzi e sorgenti. Si tratta di un mutamento di prospettiva notevole, ma sul quale Jean non insiste. Come non gli importa affatto esprimere un giudizio sulla cosa. Di nuovo è affascinato dalla descrizione di un nuovo evento straordinario: la furia popolare, i roghi, ma soprattutto i martiri ebrei che forti delle loro profezie, della loro fede, si danno volontariamente alle fiamme, con i piccoli in braccio, «trestout chantant». Di nuovo i canti, questa volta a ritmare le urla di una folla inferocita, l’ansimare delle corse, l’angoscia della caccia, e, per stupefacente converso, i gruppi di coloro che «aloient morir tous dansans et chantans aussy joyeusement comme s’ilz alassent aux noces». Chi ricorda leggendo quelle pagine di Jean le Bel che tutto ha avuto origine dalla peste? Chi pensa che la peste sta ancora infuriando? Tutto preso dalla rievocazione di quegli eventi stupefacenti il canonico di Liegi ha relegato l’epidemia ad occasione, casuale sorgente di ben altri drammi.
Le poche pagine che Froissart dedica alla peste [270] hanno un parallelo in Jean le Bel, sua fonte largamente privilegiata, com’è noto; eppure le differenze sono notevoli, segno esplicito di un ben diverso approccio al tema. Fin dalla rubrica del capitolo l’interesse dell’autore si mostra inequivocabilmente: «La peste et les Flagellants», elementi di un inscindibile binomio. Anzi, proseguendo la lettura ci si rende immediatamente conto che il vero argomento del capitolo sono solo i secondi:
En l’an de grace Nostre Signour mille .CCC.XLIX, alerent li penant…

Froissart ne dice la provenienza, dalla Germania, spiega minuziosamente gli strumenti che adoperavano e come li impiegavano, i canti che accompagnavano gli atti penitenziali; riferisce particolari truculenti: alcune donne raccoglievano il loro sangue e lo usavano come rimedio miracoloso. Solo a questo punto sente la necessità di spiegare che lo scopo era quello di far cessare l’epidemia. Ma sulla peste dice ben poco: le morti improvvise che raggiunsero circa un terzo della popolazione. Poi subito riprende a parlare dei flagellanti che andavano di città in città per schiere ben differenziate dal colore dei loro ruvidi copricapi, con il proposito di non dormire in uno stesso luogo per più di una notte, ed il loro pellegrinaggio doveva durare 33 anni e mezzo, in ricordo degli anni di vita di Cristo. Insiste ancora sulla buona accoglienza che incontravano, sugli atteggiamenti umili che mostravano dovunque, sulle pacificazioni che favorirono. Senza mostrare alcun giudizio prosegue dicendo che non poterono entrare nel regno di Francia, poiché papa e cardinali decisero che quel tipo di penitenza pubblica «n’estoit pas licite ne raisonnable», scomunicarono loro e chi li affiancava, e privarono dei benefici ecclesiastici i chierici che li sostenevano. Combattuti dal papa e dal re di Francia il movimento si ridusse al nulla. Terminata la vicenda dei flagellanti, con una frase di passaggio, Froissart lega l’argomento successivo: i pogrom antiebraici, non descritti comunque, solo accennati brevemente, ma piuttosto presentati come l’avverarsi di una delle loro profezie. E con questo termina il capitolo. Per la peste sono rimaste poche righe, del tutto convenzionali; il cronista delle infinite battaglie anche nel morbo universale, intrinsecamente materia povera, ha trovato il mezzo per accentuare il movimento di grandi masse, per fissare gli occhi sul sangue che sprizza, sui massacri, sui roghi. Il lettore anche leggendo questo capitolo sarà soddisfatto: i fatti che veramente contano anche qui sono compiutamente descritti.
La figura più dotata di indipendenza di giudizio, obiettività e spirito razionale è quella di Konrad von Megenberg. Contro le dicerie correnti, ad esempio, argomenta che gli ebrei a Vienna sono più numerosi che in alcun’altra città tedesca, che anche qui vi moiono in così grande quantità da dover ampliare il loro cimitero: è quindi assurdo pensare che fossero stati proprio loro a provocare il male [271].
A riguardo delle cause della peste esclude che si tratti del dispiegarsi nel mondo dell’ira divina, in base alla constatazione che nel periodo immeditamente precedente erano state falcidiate moltissime brave persone, mentre al contrario molti malvagi erano stati risparmiati. Se la provvidenza divina non c’entra, all’origine delle recenti catastrofi, del terremoto e della peste, devono essere ragioni naturali. Se si tratta di cause naturali bisogna identificarle, così che sia possibile agli uomini adottare alcune misure preventive. Ed ecco la spiegazione ipotizzata da Konrad, sulla scia di Aristotele e di Alberto Magno: all’origine sia dei terremoti sia della peste doveva essere l’accumulo di vapori sotterranei, che all’improvviso deflagravano [272].
Eppure, se queste sono le ragioni del naturalista, non deve mancare anche una qualche colpa dell’umanità, che ha messo in moto quella esplosione per la volontà suprema di Dio. E se c’è una umanità colpevole non si tratterà certo del popolo anonimo. Chi è mancato al suo compito è chi sta in alto, la classe dirigente, responsabile della conduzione del popolo, in pace come in guerra. Sono loro, i governanti, che vengono meno al loro dovere, che non si comportano più, come in passato, mirando al bene comune. Sono loro ad aver richiamata su di sé e sui loro sottoposti la collera e la punizione divina, recentemente manifestata col terremoto e con la peste. Ad ogni livello della dirigenza politica ed amministrativa nessuno si comporta come dovrebbe, e persegue beni materiali. Perfino gli uomini di scienza si presentano gonfi di sapere, con vuote parole [273], ma in realtà non mirano affatto al bene supremo della verità, quanto aspirano ad essere graditi e lodati. Solo se i governanti, e chi li attorniava ed aiutava, si fossero prefisso il raggiungimento dei valori supremi della giustizia e della verità, il futuro sarebbe stato libero da simili pericoli [274].
Per l’Anonimo di Friesach [275] i disastri naturali vanno letti alla luce delle scritture, tanto il terremoto [276] quanto la peste: «… universaliter fere per totum mundum, egrediens a mari usque ad mare…», che non può non ricordare il versetto di un salmo messianico divulgatissimo, il 71,8: «Et dominabitur a mari usque ad mare…». Allusione al giudizio dell’ultimo giorno? Probabilmente, ma senza insistenza; meccanicamente, mi verrebbe fatto di dire, con l’inerzia mentale di chi ha già tutto classificato, anche l’imprevisto ed il non ancora accaduto; in fondo la citazione serve a riaffermare la speranza che in quel tempo estremo il giudice divino «salvos faciet filios pauperum», come recita il versetto 3 del medesimo salmo, e che quindi il giusto debba guardare con non eccessivo timore a questi preannunci del giorno ultimo [277].
Nella Continuatio Novimontensis [278] l’anno 1348 è interamente occupato dal terremoto e dalla peste; ma mentre il primo richiede al cronista lo spazio miserando di tre frasi, la seconda lo impegna lungamente. Non si verificò alcun altro evento, di qualsiasi natura, che fosse degno di ricordo per il monaco cronista. Il quadro generale dell’epidemia non contiene grandi elementi di novità rispetto alle descrizioni di altri, ma colpisce per l’ampiezza, la gradualità e l’accuratezza, la lucida coerenza che governa il seguito delle notazioni. Inizia con la provenienza, la causa immediata, i protagonisti e le modalità della trasmissione del contagio; prosegue con il terrore che colpì le città, i provvedimenti presi per difendersi e per evitare lo sciacallaggio, la desolazione generale, l’entità delle morti. Quando poi il morbo raggiunge le terre circostanti, Carinzia e Stiria, le osservazioni si fanno più puntuali, ricche di particolari e capaci di rievocare la fosca atmosfera di quei giorni, «ita ut homines desperati incederent et quasi amentes» [279]. Quindi si innesca un processo razionale e consequenziario: i colti si chiesero il perché di quel «letalis annus», e non trovando spiegazioni né nel moto anomalo degli astri, né nella corruzione dell’aria, giudicarono che si fosse manifestato puramente il volere divino. Ed allora, per commuovere quel Dio, ecco le penitenze pubbliche di schiere numerose di cittadini e di villici, ecco le processioni di devoti seminudi che visitavano le chiese, cantilenando nella lingua materna della passione di Cristo, e flagellandosi a sangue; e le donne proseguivano la sera, al riparo delle mura, gli atti di mortificazione degli uomini di giorno all’aperto. La penitenza pubblica durò per poco più di un mese, da S. Michele (8 maggio) alla Pasqua (20 aprile). Alla devozione popolare, sorta spontaneamente, si accompagnano i riti dei sacerdoti, armati di reliquie e di litanie, ed anche il pontefice romano, che istituì una speciale liturgia, così ricca e particolareggiata che il cronista rinuncia a ricordarla analiticamente. Ma non si ottiene nulla con gli atti devoti, anzi le morti aumentano; i medici sono impotenti; non resta che abbandonarsi totalmente, «omnibus postpositis», a quel Dio che non fa conoscere i suoi disegni. Passa quindi il nostro a parlare della sintomatologia della malattia: rigonfiamenti rossi variamente maculati all’inguine o alle ascelle e, per quelli inevitabilmente condannati, espettorazioni di sangue. Chi visitava il malato o gli prestava un qualche aiuto veniva a sua volta colpito; spessissimo alla morte di uno seguiva quella di tutta la famiglia. Per la generale devastazione il bestiame vagava nei campi senza custodia, e perfino i ladri per il timore non osavano avvicinarsi, e perfino gli eredi evitavano come se fossero infetti i beni lasciati legittimamente per testamento. La malattia in prossimità del novilunio incrudeliva. Infine verso metà novembre (per S. Martino) l’epidemia cessò, dopo essersi portata via molti monaci e molti coloni. L’anno successivo la peste era giunta a Vienna, e quindi a tutti i confini della Germania. Una nota infine inconsueta di psicologia : gli scienziati del tempo avevano consigliato, al fine di evitare l’angoscia di quei giorni, di favorire lieti incontri, per combattere la depressione, e si erano visti dovunque gioiosi conviti e feste di nozze, che avevano posto rimedio alla disperazione [280].
Il male terribile aveva imperversato senza che si potesse far nulla per impedirlo; ma gli uomini non si erano persi d’animo, ed avevano reagito vivacemente. Se non c’erano spiegazioni naturali credibili, si era tentato con la devozione popolare e con quella diretta dalle istituzioni ecclesiastiche; solo riusciti inutili questi tentativi si era posta ogni fiducia nelle mani divine; esito di per sé non dissimile da quanto rilevato altrove, ma qui conclusione di un seguito di osservazioni che ci fa stimare l’abbandono finale più scelta razionale che emotiva. Tanto più che se quello che all’uomo era impossibile era stato alla fine lasciato alla veggenza divina, non si rimase inerti per quello che sul piano del morale era invece largamente possibile fare; non dunque negativa angosciosa rinuncia all’azione, ma positiva volontà di sopravvivere.
La cronaca di Colonia [281] non contiene in assoluto alcun elemento di novità circa la peste; la descrizione dell’origine orientale, dell’avvento in Occidente, della gravità del male e dei topici comportamenti inumani indotti, ed infine dei sintomi della malattia, è largamente convenzionale e di riporto. Da rimarcare piuttosto la collocazione dello spazio dedicato all’epidemia. Sembra infatti di dover inserire la peste entro un ciclo di avvenimenti funesti, che si origina e conclude con la guerra franco-inglese, e che conosce come capitoli intermedi il fenomeno dei flagellanti, i pogrom ebraici e la pestilenza.
Che si debbano stabilire relazioni di dipendenza tra un argomento e l’altro non sembra di poter desumere; né l’anonimo autore fornisce un minimo segno che autorizzi a pensarlo. Ma certo la successione adottata fa riflettere. Poiché quello che governa non è un criterio strettamente cronologico: quegli avvenimenti sono più o meno contemporanei, e non è la griglia rigidamente annalistica che inquadra la presentazione di quei fatti: prima si fa cenno ad avvenimenti bellici del luglio ed agosto 1346, poi dell’agosto 1347, di nuovo dell’ottobre 1346; quindi, con un passaggio generico, «per idem tempus», si passa ai flagellanti nel regno di Germania, di seguito, «eisdem temporibus», ai tumulti antiebraici, e quindi, «circa hec tempora», alla peste [282], prima di tornare alla guerra, con la morte di re Filippo di Francia nel 1350. L’ordine sarebbe potuto essere diverso: i flagellanti potevano venir dopo la peste, così come le persecuzioni degli Ebrei, o ancora diversamente, variamente combinando.
Ma se non è motivo che autorizzi a far dipendere un fatto dall’altro, né per importanza, né per rapporti di causa ed effetto, né, come si è visto, per ragioni di cronologia, non si può concludere che gli argomenti, nella specola dell’autore, si equivalgono. Sul fondo comune rappresentato dalla guerra tra Francia ed Inghilterra, il solo fatto di rilevanza “europea”, si sono manifestate le processioni dei penitenti, sono stati uccisi diversi ebrei, è scoppiata la peste. Con tutto ciò, se non c’è interrelazione, i tre argomenti non sono senza possibilità di confronto, oltre quello di contiguità.
Intanto le dimensioni: i penitenti pubblici dall’Ungheria trascorrono «per totam Germaniam»; i tumulti contro gli Ebrei avvengono «per universum regnum Germanie»; la peste «orbem afflixit generaliter universum», ed in Gallia e Germania «vehementer». In secondo luogo la capillarità: flagellanti si videro ovunque, «non erat civitas, non villa, non municipium» dove non fossero presenti; la violenza contro gli Ebrei si manifestò «in omnibus civitatibus, opidis et municipiis»; la mortalità fece sì che intere famiglie fossero completamente estinte «in diversis regionibus et regnis multe civitates et ville, in non nullis civitatibus et villis» [283]. In terzo luogo si tratta di fatti del tutto negativi: quella dei flagellanti è una «periculosa nimis et detestabilis secta hominum laycorum», una «pestilens supersticio»; il giudizio negativo dei pogrom contro gli Ebrei è implicito nel tono usato per descriverli, «Iudei universi utriusque sexus, cuiuscumque etatis tam parvuli quam infantuli unius diei crudeli nece sine misericordia fuerunt trucidati», ed avvalorato dalla nota che vi contribuirono anche resti di quei flagellanti di cui tanto male si è detto precedentemente, carboni ancora accesi tra la cenere, che offrirono «crudelitatis sue officium vel pocius maleficium»; del male rappresentato dalla «gravis pestilencia et mortalitas hominum» non è alcun bisogno di dire. Ancora: si tratta di mali sorti improvvisamente, senza ragione, seppur in luoghi diversi; e tutti quanti caratterizzati da una sorta di contagio crescente che diffonde il male tra le grandi masse popolari [284], senza rimedio; e che infine, dopo aver devastato ovunque, scompaiono senza lasciare traccia [285].
Fatti dunque straordinari, incomprensibili, segni dell’opera del maligno che governa tanto gli uomini quanto la natura, manifestazioni dell’incepparsi della storia, più o meno dello stesso segno negativo, da illustrare dunque e da intendere con gli stessi mezzi, della parola e del giudizio storico. Un intermezzo, una parentesi in tre tempi di diversa gradazione, in una cornice identica. Tre detestabili episodi degli anni 1348-50, da citare per i tanti lutti di cui sono stati all’origine, ma che non hanno avuto seguito.
Per il terzo continuatore della cronaca di S. Pietro di Erfurt la peste giunge come ultimo fatto notevole del biennio 1349-50 [286]. La precedono avvenimenti diversi, di più o meno grande rilievo, ma fra i quali spiccano i moti antiebraici e le manifestazioni dei flagellanti. Né il primo né il secondo sono ricordati come conseguenza dell’epidemia: si presentano del tutto autonomamente da quella, e sono accompagnati da tentativi di interpretazione improntati ad un realismo non frequente. Le uccisioni di ebrei avvengono ad Erfurt come precedentemente si sono verificate, ricorda la cronaca, in tante città della Turingia, ed analogamente sono accompagnate dall’accusa di aver avvelenato l’acqua. Ma poi le osservazioni del nostro cronista si fanno sorprendentemente singolari per la coerenza interna che li tiene. Non si sostiene, come fanno tante altre cronache, che l'inquinamento delle acque aveva lo scopo di diffondere il contagio della peste - che, ripeto, fino a questo punto non è neppure nominata -, e se si riporta “per dovere di cronaca” la diceria secondo la quale il fine era quello di impedire ai cristiani di cibarsi di pesce durante la quaresima ed in generale di cuocere alcuna vivanda con l’acqua, la ragione vera, «exordium calamitatis eorum», consisteva nei molti debiti che «barones cum militibus, cives cum rusticis» avevano contratto con loro. Questo spiegava la sollevazione popolare, scoppiata «invitis consulibus». Non si tratta certo di una impensabile comprensione umana, visto che la spiegazione è introdotta da un «Requiescant in inferno!» che non lascia il minimo dubbio sull'ostilità dell’autore, ma semplicemente di - a suo modo, s’intende - obiettività di giudizio.
Un uguale totale disincanto usa la cronaca nel riferire dei flagellanti. Anche in questo caso la vicenda di Erfurt non è sostanzialmente diversa da quella di tanti luoghi dell’intera Germania; ma di nuovo una singolarità: Erfurt è la sola città della Turingia in cui i magistrati cittadini, questa volta «providi et discreti», hanno impedito alle schiere dei flagellanti di entrare in città. Ben presto risulta evidente l’inconsistenza del movimento: «manifeste apparuit, quod tota trufa fuerat».
Il resoconto della peste non può dunque presentarsi che con caratteristiche prevedibili: origini della epidemia analogamente a quanto avvenuto in tutta la Turingia e la Germania, ma, ancora una volta, «precipue in Erphordia»; intervento dei magistrati cittadini, con la consulenza dei medici, per disciplinare le sepolture; entità dei decessi e durata. Nessuna accusa di colpa rivolta a nessuno. Si tratta di una totalmente asettica, e piuttosto concisa, relazione di un semplice evento, che si aggiunge a quelli che l’hanno preceduto, senza pesare di più, senza suscitare maggiore emozione, in linea con il modo di procedere della città nell’affrontare qualsivoglia accadimento di interesse comune. La sola esclamazione finale, «Requiescant in sancta pace!», è il segno di una pietà per gli scomparsi - per quanto di maniera - che si era negata agli ebrei uccisi.
Per Francesco da Praga [287] si deve distinguere: la posizione raggiunta dagli astri era stata la causa naturale determinante della peste; la ragione profonda invece risiedeva nell’eccessivo amore per i beni terreni mostrato dagli uomini del tempo. Riteneva che la Boemia fosse stata risparmiata dal flagello perché allora governata da un re giusto, Carlo IV. Il ben ordinato e ben diretto regno di Boemia risaltava ancor di più se messo a confronto non tanto con i paesi dei barbari, naturalmente, ma perfino con la situazione di Francia e d’Italia, dove invece i mali tipici del 1348 erano stati tremendamente efficaci. Il terremoto aveva distrutto Ravenna e Villach, la peste a Venezia e Marsiglia aveva decimato la popolazione; in Boemia il sisma fu appena avvertito, e l’epidemia, contrastata dall’aria pura, non si era potuta espandere. Anche il caotico movimento dei flagellanti non aveva avuto quell’impatto negativo rivelatosi in Germania. Infine ritiene che dopo l’ammonimento divino del 1348 la situazione generale è migliorata. La lezione della peste era stata chiara e semplice: il buon governo allontana il pericolo dello scatenarsi della ammonizione divina [288].
Se ora tentiamo di ricondurre ad unità quanto abbiamo ripercorso analiticamente - seppure per campioni, visto la spazio a disposizione -, diremmo che la grande pandemia del 1348 significò molto in Europa, per il numero delle vittime e la vastità, tanto da non consentire a nessun cronista, o quasi, di ignorarla; ma sul piano propriamente storiografico ebbe un senso molto meno “epocale” di quanto si sia creduto e si creda. Le cronache non furono la consolazione retorica della tragedia collettiva che fu la peste. Spesso la grande moria non fu che una occasione, per quanto imprescindibile, per esercitazioni di carattere letterario, più o meno riuscite. Ma raramente le si attribuì un senso “storico”. Anzi, generalmente venne considerato - per quanto terribile, carico di orrore, drammatico - un episodio, tutto considerato, nello svolgersi delle vicende umane, ben poco significativo.
Se si era trattato di un monito divino, nessuno o quasi aveva colto l’avvertimento, e si era tornati rapidamente alla situazione precedente, forse peggio di prima. Se era stato un preannunzio degli ultimi giorni, in definitiva il giudizio finale rimaneva ancora di là da venire. Se era stato il frutto di una mancata vigilanza da parte dei governanti, quegli stessi governanti erano rimasti, ben poco migliori, quando non più incattivi e incapaci. Chi si era atteso la punizione dei malvagi, ed il premio dei buoni, era rimasto totalmente deluso. La peste era stato un “eccesso”, come “eccessive” erano state le reazioni dei flagellanti ed i pogrom antiebraici: la vita civile esige invece quell’equilibrio, quella “norma”, quell’ordine che è proprio l’opposto. Se le cronache non possono, per definizione, riferire che quello che emerge dal grigiore della vita quotidiana, il fatto straordinario della peste nella cronaca doveva rimanere straordinario. Per i cronisti i mutamenti economici, sociali e politici - con l’unica eccezione di quelli demografici - in atto sono stati poco accelerati dalla malattia, e comunque non ne sono stati sicuramente causati. Per un certo periodo la peste, o meglio il terrore della peste, costituirono una ipoteca psicologica [289], ma in definitiva essa venne considerata un accidente del tutto fortuito, casuale, senza spiegazione scientifica com’era, e di impossibile interpretazione religiosa.
Non si previde neppure la possibilità di un ritorno futuro, e quindi non ci si attrezzò per l’avvenire. Di fronte all’irrazionale non ci sono che due possibilità: rimuovere o convivere. I cronisti che furono a ridosso della peste nera cicatrizzarono la ferita e proseguirono oltre; era «passato», storia assimilata. Ma non mentirono a se stessi, non fecero il possibile per dimenticare, come invece di frequente si constata accadere oggi, di fronte a quel male del tutto imprevedibile, al di fuori della statistica, che rimane ancora per noi il terremoto [290]. Di fatto “videro” la peste con gli occhi che avevano, mettendo più o meno in evidenza le loro debolezze, convinzioni, pregiudizi, idee politiche, morali, modo di ragionare.
Se vogliamo in qualche modo sintetizzare, diremo che in ambiente italiano l’attenzione variegata per gli aspetti umani della tragedia è prevalente, insieme alla tendenza a giudicare dell’incidenza dell’epidemia in chiave di funzionalità amministrativa e di etica politica generale, insieme ad una più o meno accentuata vena esistenziale; nel regno di Francia più pronunciato è l’interesse per i grandi movimenti di massa ai quali il timore della peste ha dato origine; in ambiente germanico invece si fa più scoperta la sensibilità per le interpretazioni più razionali, controllabili, logiche, che permettano all’uomo una qualche possibilità di scelta di comportamento, contrapposta alle terribili ventate emozionali dei movimenti scomposti delle popolazioni.
È estremamente arduo ricondurre a poche note esteriori la varietà degli approcci al tema; non era possibile dare risposte univoche ad un male rimasto sostanzialmente ignoto, tranne che nella pericolosità. Di fronte alla peste nera il cronista del 1348, privo di modelli anteriori, senza indicazioni di maestri, ecclesiastici o laici, era nudo; nel perenne pericolo di naufragio nei luoghi comuni, si mosse naturalmente con le armi di cultura, carattere ed intelletto di cui era fornito; e c’era, allora come oggi, chi era ben armato, chi mediocremente, chi miseramente; chi titubante, chi modesto, chi letterato, chi mercante, chi religioso, chi laico, chi rassegnato, chi ottimista… Se nostro compito è recuperare le linee di fondo comuni, nel caso del dramma senza confini della peste nera non è lecito prescindere in alcun modo dalle reazioni individuali. Una sola cosa è certa e, ci pare, incontrovertibile: passata l’epidemia, recuperate sanità e funzionalità civile, le cronache trasmisero ai contemporanei - ed ai posteri - un’immagine del male con toni variegati, ma sostanzialmente equilibrati. Il problema metafisico del dolore e della morte di massa aveva avuto soluzioni diverse, più o meno razionali e credibili; ma non era stata certamente eluso.
Note
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[1] Chronicon Estense cum additamentis usque ad annum 1478, edd. G. Bertoni - E. P. Vicini, «Rerum Italicarum Scriptores» (di qui in avanti: RIS) n. e. 15/3 (1908-37)(di qui in avanti: Chronicon Estense), p. 159, forse ripetendo Patrizio Ravennate Cronica, in A. Calandrini - G. Fusconi Forlì e i suoi vescovi I. Appunti e documentazione per una storia della Chiesa di Forlì I. Dalle origini al secolo XIV Forlì, Centro studi e ricerche sulla antica provincia ecclesiastica ravennate 1985 (Studia ravennatensia 2), p. 1174: «Mortalitas magna per totum fere mundum», segnata, però, in capo al 1347.
[2] Andreae Danduli ducis Venetiarum Chronica per extensum descripta a. 46-1280, ed. E Pastorello, RIS n. e. 12/1 (1938-1958), Introduzione, p. XV: «Anche il manoscritto originale della Cronaca estesa del Dandolo serba traccia manifesta del flagello dell’epidemia. La interruzione improvvisa del testo del libro nono, il mutamento della carta, dell’inchiostro, dello scriba e del criterio di numerazione dei capitoli, la ripresa a distanza del primo amanuense, le numerose correzioni stilistiche e le giunte fatte alla copia del sostituto, si riferiscono evidentemente ad un tempo d’arresto, che, fra il 1344 e il 1352, anno in cui la Cronaca rimase definitivamente sospesa, non può convenire se non con il semestre della pestilenza del 1347»; cf. Georgii et Iohannis Stellae Annales Genuenses, ed. G. Petti Balbi, RIS n. e. 17/2 (1975), p. VI: «Per il periodo tra il 1347 e il 1364 assai scarse sono le notizie negli Annali, tanto che possiamo quasi parlare di una lacuna, avvertita pure dal nostro storico, il quale più volte lamenta di non aver trovato né di aver avuto testimonianza di fatti accaduti in quegli anni».
[3] R. Sprandel Geschichsschreiber in Deutschland 1347-1517, in Mentalitäten im Mittelalter. Methodische und inhaltische Probleme, ed. F. Graus, Sigmaringen 1987 (Vorträge und Forschungen 35), pp. 288-89.
[4] Ad esempio per Conforto da Costozza, a proposito della peste del 1387, per cui vedi G. Arnaldi Realtà e coscienza cittadine nella testimonianza degli storici e cronisti vicentini dei secoli XIII e XIV, in Storia di Vicenza II L’età medievale a cura di G. Cracco, Vicenza 1988, p. 305 nota 44.
[5] R. Romano - A. Tenenti Alle origini del mondo moderno Milano 1967, pp. 9-16 (Storia Universale Feltrinelli 12); F. Graus Vom «Schwarzen Tod» zur Reformation. Der krisenhafte Charakter des europäischen Spätmittelalters<, in Revolte und Revolution in Europa, ed. P. Blickle, München 1975 (Historische Zeitschrift, Beiheft 4), pp. 10-30.
[6] A. Borst Il terremoto del 1348, prefaz. di R. Delle Donne, Salerno 1988, p. 28: «I sopravvissuti si flagellavano per penitenza fino a far sprizzare il sangue, o si ubriacavano alla buona vendemmia del 1349 fino a picchiarsi l’un l’altro», che parafrasa e cita la Continuatio Novimontensis, ed. W. Wattenbach, «Monumenta Germaniae historica» (di qui in avanti: MGH) «Scriptores» (di qui in avanti: SS) 9 (1851 (=1983)), pp. 671-76, in particolare p. 676: «Optima vina ubique provenerunt, et de ipso utentibus indiscrete, omnes quasi amenciam contraxerunt, ita ut absque causa se verberarent atque male tractarent», dove però pare di dover intendere che la violenza degli ebbri si rivolgesse contro di sé, piuttosto che vicendevolmente.
[7] Giovanni Villani Nuova Cronaca, III (Libri XII-XIII), ed. G. Porta, Parma, Fondazione Pietro Bembo - Ugo Guanda 1991 (di qui in avanti: G. Villani), XIII, cxxiii, p. 566: «E nota, lettore, che lle sopraddette rovine e pericoli di tremuoti sono grandi segni e giudici di Dio, e non sanza gran cagione e permessione divina, e di quelli miracoli e segni che Gesù Cristo vangelizzando predisse a’ suoi discepoli che dovieno apparire alla fine del secolo». Su quest’idea del Villani vedi M. Haeusler Das Ende der Geschichte in der mittelalterlichen Weltchronistik «Archiv für Kulturgeschichte» 13 (1980) Beihefte, p. 143. Vedi anche ad esempio Cronaca senese attribuita ad Agnolo di Tura del Grasso detta la Cronaca Maggiore, edd. A. Lisini - F. Iacometti, RIS n. e. 15/6 (1939)(di qui in avanti: Agnolo), p. 555: «… ognuno credea che fusse finemondo»; Die Oberrheinische Chronik, ed. H. Maschek, in Deutsche Chroniken, Leipzig 1936 (Deutsche Literatur. Sammlung literarischer Kunst- und Kulturdenkmäler in Entwicklungsreihen, Realistik des Spätmittelalters 5), p. 64; Die Chronik des Johanns von Winterthur, edd. F. Baethgen - C. Brun, MGH SS n. s. 3 (19552) (di qui in avanti: Giovanni di Winterthur), p. 276; e via via fino al Sercambi: Le croniche di Giovanni Sercambi, I, ed. S. Bongi, Lucca 1892 (Fonti dell’Istituto Storico Italiano (di qui in avanti: FSI) 19)(di qui in avanti Sercambi), p. 96: «E per ciascuno fu stimato essere la fine del mondo», e ben oltre, nel ricordo dei posteri.
[8] Borst Il terremoto del 1348, p. 20. Che la peste non sia affatto la ragione principe della “crisi” è armai abbondantemente provato ed accettato; cf. A. Frugoni G. Villani, Cronica, XII, 94, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano e Archivio Muratoriano» 77 (1965), p. 248: «invece era sì in corso, anche senza accompagnarsi alla improbabile regressione demografica, una profonda crisi politica ed economica» con rimando («non solo fiorentina») a E. Perroy, À l’origine d’une économie contractée. Les crises du XIV e siècle< «Annales E. S. C.» 1 (1949), pp. 167-87; cf. ancora A. Higounet-Nadal Périgueux aux XIV le e XVe siècles. Étude de démographie historique Bordeaux 1978, pp. 146-47, con rimando, oltre che al Perroy, anche a R. Cazelles La peste de 1348-1349 en Langue d’Oïl. Epidémie prolétarienne et enfantine, «Bull. Phil. et Hist. du Comité des travaux historiques» 1965, pp. 293-305. Vedi infine G. Cherubini La «crisi» del Trecento. Bilancio e prospettive di ricerca «Studi storici» 15 (1974), pp. 660-70.
[9] Ad es. Annales Frisacenses. Continuatio, ed. L. Weiland, MGH SS 24 (1879 (=1975)), p. 67.
[10] S. Krüger Krise der Zeit als Ursache der Pest? Der Traktat De mortalitate in Alamannia des Konrad von Megenberg, in Festschrift für Hermann Heimpel, 2, Göttingen 1972, pp. 839-83. Il resoconto cronistico di Gabriele de Mussi, Historia de morbo sive mortalitate quae fuit anno Domini MCCCXLVIII, fu edito per primo da H. Haeser in Archiv für die gesammte Medizin, II., Dokumente zur Geschichte des schwarzen Todes, ed. A. W. Henschel, Berlin 1842, pp. 26-59, e poi più volte; da ultimo (ma in realtà trascrivendo e trascegliendo dalla edizione Haeser, in Geschichte der epidemischen Krankheiten, Jena 1865, Anhang VIII., pp. 17-23) in A. G. Tononi La peste dell’anno 1348, «Giornale Ligustico» 11 (1884), pp. 144-52; vedi anche V. J. Derbes De Mussis and the Great Plague of 1348, a forgotten episod of bacteriological warfare «Journal of American Medical Association» 196,1 (1966), pp. 59-62; nulla in proposito in Repertorio della cronachistica emiliano-romagnola (secc. IX-XV), introd. di A. Vasina, Roma 1991 (Nuovi studi storici 11).
[11] Franciscus Pragensis Cronica Boemorum regum, ed. J. Emler, «Fontes Rerum Bohemicarum» 4 (1884) (di qui in avanti: Franciscus Pragensis), pp. 449-50.
[12] E. Carpentier Une ville devant la peste. Orvieto et la Peste Noire de 1348 Paris 1962 (Ecole pratique des hautes études - VI e  section. Centre des recherches historiques. Démographie et sociétés VII), p. 100; cf. anche pp. 121-36.
[13] Higounet-Nadal Périgueux aux XIVe e XVe siècles…, p. 146: «… la mentalité de l’époque refusait de parler de la peste…».
[14] Discorso historico con molti accidenti occorsi in Orvieto et in altre parti principiando dal 1342 sino al 1368 o Ephemerides Urbevetane, ed. L. Fumi, RIS n. e. 15/5,1 (1902-20)(di qui in avanti: Discorso historico), p. 35; Carpentier Une ville…, 193-94; J.-N. Biraben Les hommes et la peste en France et dans les pays européens et méditerranéens, voll. 2, Paris - La Haye 1975-76 (Civilisations et Sociétés 35-36), 2, p. 69, ma la peste è già finita da un pezzo.
[15] A puro titolo esemplificativo, trascegliendo da un materiale abbondantissimo, Julianus Canonicus Civitatensis Chronica, ed. G. Tambara, RIS n. e. 24/14 (1906), p. 57: «Anno Domini MCCCXLVIII, die xxv januarii, circa horam vespertinam, fuit terremotus magnus, qualis non fertur in aliquibus scripturis. Eodem quoque anno iam incepta pestilentia»; Cronica de Ducibus Bavariae, ed. G. Leidinger, in Chronicae Bavaricae saeculi XIV, MGH «Scriptores rerum germanicarum» (di qui in avanti: SRG) in us. schol. 19 (1918), p. 171: «Anno Domini MCCCXLVIII in conversione sancti Pauli factus est hora vespertina terremotus magnus, qui in diversis mundi partibus diversas evertit civitates. Eodem anno, videlicet MCCCXLVIII, sevire cepit in Bavaria et Bohemia et Austria illa magna pestilencia…»; ancora più indicativo, per l’asettico accostamento, l’integro paragrafo che l’autore degli Annales Mellicenses, ed. W. Wattenbach, MGH SS 9 (1851 (=1983)) p. 513, dedica all’anno 1348: «In festo conversionis sancti Pauli, hora quasi vespertina, terremotus factus est magnus, et in Karinthia Villacum et plures civitates et castra cum hominibus perierunt. Item eodem anno tanta pestilencia invaluit in Ytalia et in Provincia, quod vix duodecimus homo remansit; incendia etiam plurima fuerunt».
[16] Per le Storie Pistoresi, ed. S. A. Barbi, RIS n. e. 11/5 (1907-27)(di qui in avanti: Storie Pistoresi), p. 235, gli anni 1347 e 1348 sono accumunati da «fame e di pistilenziosa mortalitade per tutto lo mondo». Vedi anche F. Graus Pest, Geißler, Judenmorde. Das 14. Jahrhundert als Krisenzeit, Göttingen 1987 (Veröffentlichungen des Max-Plank-Instituts für Geschichte 86), pp. 15-16 nota 11. Il legame tra carestia e peste si trova anche esplicitamente in alcuni trattati medici di poco successivi: K. Sudhoff Pestschriften aus den ersten 150 Jahren nach de Epidemie des “schwarzen Todes” 1348, «Archiv für Geschichte der Medizin» 17 (1925), p. 55.
[17] XII, lxxxiii-lxxxiv.
[18] V. Rutenburg Popolo e movimenti popolari nell’Italia del ’300 e ’400, introd. di R. Manselli, Bologna 1974, p. 71.
[19] Storie Pistoresi, p. 224.
[20] A. Corradi Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1860, I, Bologna 1865 (= 1973), pp. 477-78; Carpentier Une ville…, pp. 81-82; Biraben Les hommes et la peste…, 1, p. 135.
[21] Corradi Annali…, p. 479; Carpentier Une ville…, pp. 82-83.
[22] Non si tratta neppure di fenomeno limitato alla metà del Trecento: cf. B. Figluolo Il terremoto del 1456, Altavilla Silentina 1988-89 (Storia e scienze della terra 1), 1, pp. 3-17: La spirale maltempo-carestia-pestilenza.
[23] E non è una trovata recente: già Leonardo Bruni legava strettamente carestia e peste; l’ha indicato per primo M. Meiss Pittura a Firenze e Siena dopo la morte nera. Arte, religione e società alla metà del Trecento, Torino 1982, p. 138.
[24] Contro un nemico invisibile. Epidemie e strutture sanitarie nell’Italia del Rinascimento, Bologna 1985.
[25] Annales Frisacenses. Continuatio, p. 67; Borst Il terremoto del 1348, p. 23.
[26] Cronaca Senese dei fatti riguardanti la città e il suo territorio di autore anonimo del secolo XIV, edd. A. Lisini - F. Iacometti, RIS n. e. 15/6 (1939)(di qui in avanti: Cronaca Senese), pp. 148-49.
[27]Chronique latine de Guillaume de Nangis de 1113 à 1300 avec les continuations de cette chronique de 1300 à 1368, ed. H. Géraud, Paris 1853, 2 (di qui in avanti: Jean de Venette), p. 215.
[28] Graus Pest, Geißler, Judenmorde, pp. 30-31.
[29] Borst Il terremoto del 1348, p. 28: «Nella mente dei testimoni oculari si imprimeva per sempre ciò che i moderni specialisti così difficilmente comprendono: le catastrofi non si lasciano accuratamente ripartire in fisiche, epidemiche, tecnologiche, politiche, sociali. Esse devastano la vita dell’uomo nel suo complesso».
[30] Continuatio Novimontensis, p. 676.
[31] Borst Il terremoto del 1348, pp. 33-35; C. Vasoli Umanesimo ed escatologia, in L’attesa della fine dei tempi nel Medioevo, a cura di O. Capitani e J. Miethke, Bologna 1990 (Annali dell’Istituto storico italo-germanico, Quaderno 28), p. 252.
[32] F. Petrarca Le senili, ed. G. Martellotti, Torino 1976, pp. 92-98.
[33] U. Dotti Vita di Petrarca Roma-Bari 1987, pp. 194-210, in particolare p. 210: «… possibile risposta al male del mondo, l’ideale del savio che vive contento di pochi amici, della comunità d’interessi con loro e della comune serenità di propositi e di pensieri».
[34] H. Baron La crisi del primo Rinascimento italiano. Umanesimo  civile e libertà repubblicana in un’età di classicismo e tirannide Firenze 1960 (o 1970?), p. 115. Già nel 1860 J. Burckhardt (adopero la trad. it., La civiltà del Rinascimento in Italia Firenze, Sansoni 1968), inseriva il suo breve paragrafo sulla peste (pp. 76-77) nel capitolo Ritardo del Rinascimento. Cf. il legame accolto, a segnare il 1347, «l’anno più nero per l’economia della penisola e anche per molta parte d’Europa», da Capitani nella Introduzione a M. Mollat I poveri nel Medioevo introd. di O. Capitani, Bari 1981, pp. XXIX-XXX, tra l’«accumulo di “congiunture” sfavorevoli: carestie, turbe meteorologiche e, naturalmente, la “peste nera”», le “congiunture sfavorevoli” economiche e la vicenda di Cola.
[35] A. Barbero Il mito angioino nella cultura italiana e provenzale fra Duecento e Trecento Torino 1983 (Biblioteca storica subalpina 201), p. 162.
[36] Biraben Les hommes et la peste…, 1, p. 72.
[37] Per cui rimando a W. H. McNeill, La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall’antichità all’età contemporanea, Torino 1982; J. Ruffie - J. C. Sournia Le epidemie nella storia, Roma 1985, ed ora al lavoro di I. Naso in questo stesso volume.
[38] Th. Rahe Demographische und geistig-soziale Auswirkungen der Pest von 1348-1350 «Geschichte in Wissenschaft und Unterricht» 35 (1984), pp. 125-44. Significativo comunque che L. Del Panta Le epidemie nella storia demografica italiana (secoli XIV-XIX) Torino 1980, pp. 28-31 non consideri neppure fugacemente le cronache tra le «Fonti per lo studio delle crisi di mortalità»; nel paragrafo immediatamente successivo, «Lo studio delle crisi con dati parziali o incompleti», alle pp. 31-33, si fa cenno a mo’ di esempio, ad un cronista, ma proprio per concludere che le fonti annalistiche e cronachistiche possono avere una qualche validità su questo piano specifico solamente se trovano conferma statistica; osservazione del tutto analoga fa Capitani nella sua Introduzione al Mollat I poveri nel Medioevo, p. XXXIII, a proposito di Matteo Villani. Una completa svalutazione delle cifre fornite dai cronisti a proposito dei morti nella peste del 1348 è in Del Panta Le epidemie nella storia…, a p. 114. Posizione analoga è assunta da R. Comba La demografia nel Medioevo, in La Storia. I. Il Medioevo. 1. I quadri generali Torino, UTET 1988, p. 8. A. M. Nada Patrone Alimentazione e malattie nel Medioevo, ibid., p. 38, sottolinea invece «la straordinaria indifferenza alle grandi crisi del loro tempo da parte dei cronisti ed annalisti (ad eccezione, per il basso medioevo, di Boccaccio, Chaucer e William Langland) e di quasi tutti gli uomini di cultura che, seppur memorizzano un evento epidemico, lo descrivono in modo molto fatalistico.… Questo atteggiamento… può far supporre una sorta di rassegnata abitudine alla tragedia, di dura consuetudine con la morte, dovute forse alle limitate possibilità e speranze di sopravvivenza dell’uomo medievale». Per converso «gli unici tipi di fonti utilizzabili per tracciare una mappa delle malattie nel medioevo sono le fonti narrative, agiografiche ed iconografiche…» (p. 42). E. Carpentier Autour de la Peste Noire: famines et épidémies dans l’histoire du XIVe siècle «Annales E. S. C.» 17 (1962), pp. 1062-92, propone in maniera quasi esclusiva la via da lei percorsa: quella delle ricerche locali. Vedi ora il lavoro di R. Comba in questo stesso volume.
[39] Per cui vedi per indicazioni di largo respiro, che interessano anche i cronisti, l’intero volume Mentalitäten im Mittelalter…, ma in particolare F. Graus Mentalität - Versuch einer Begriffsbestimmung und Methoden der Unterschung, pp. 9-48, e R. E. Lerner The Black Death and Western European Eschatological Mentalities «The American Historical Review» 86 (1981), pp. 533-52.
[40] Carpentier Une ville…, p. 7: «il s’agit le plus souvent de raconter l’histoire de la peste dans une ville ou dans un pays. Quand a-t-elle commencé? Combien de temps a-t-elle duré? Quand a-t-elle fini? A-t-elle eu des «résurgences»? Quelle descriptions, quels témoignage possède-t-on sur elle? Quelles sont ses victimes célèbres? Parfois, la recherche prend plus d’ampleur: d’où est venue la peste? Par quel chemin?».
[41] Carpentier Une ville…, p. 9, e dopo di lei di W. M. Bowsky The impact of the Black Death upon Sienese Government and Society «Speculum» 39 (1964), pp. 1-34, e di R. W. Emery The Black Death of 1348 in Perpignan ibid. 42 (1967), pp. 611-23. In generale vedi N. Bulst Der Schwarze Tod. Demographische, wirtschafts- und kulturgeschichtliche Aspekte der Pestkatastrophe von 1347-1352. Bilanz der neueren Forschung «Saeculum» 30 (1979) pp. 45-67.
[42] D. Herlihy Pistoia nel Medioevo e nel Rinascimento Firenze 1972, pp. 125-41 fornisce una bella rassegna delle incertezze e dei problemi irrisolti posti dalla descrizione dei sintomi della peste.
[43] Cf. Carpentier Une ville…, p.164: «quelle est exactement la place de la Peste noire dans ces deux siècles de «déclin du Moyen Age», de «décadence de l’économie européenne», de «crises du XIVe siècle»?»; vedi anche L. Febvre La peste noire de 1348 «Annales E. S. C.» 4 (1949) pp. 102-03; F. Keyser Die Pest in Deutschland und ihre Erforschung, in Actes du Colloque international de Démographie historique, Liège, 1963: Problèmes de mortalité. Méthode, sources et bibliographie en démographie historique Liège 1965, pp. 369-77.
[44] Giovanni di Pagolo Morelli Ricordi, ed. V. Branca, Firenze 1956, pp. 287-92.
[45] V. Branca Boccaccio medievale e nuovi studi sul Decameron Firenze 19928, p. 33.
[46] Ibid., p. 39.
[47] Ibid., p. 34 e nota 2.
[48] Ibid., pp. 34-35, ma vedi anche l’osservazione successiva (p. 35): «L’evocazione della peste non solo poggia su una tradizione tanto serrata e autorevole nella retorica medievale da costituire quasi una ekphrasis canonica…».
[49] Ibid., p. 37.
[50] F. Cardini Il Decameron: un «Genesi» laico? Le dieci giornate della rifondazione cavalleresca del mondo, in Cardini De finibus Tuscie. Il Medioevo in Toscana Firenze 1989, p. 185: «Il Boccaccio fa nascere l’«occasione» del Decameron proprio dal destrutturarsi drammatico di tutta una società e in modo particolare di tutto un ceto dirigente…»; p. 186: «E, con la peste, quella rovina sembrava un fatto consumato ormai irrimediabilmente. Non era solo la rovina d’un grande centro, con la sua potenza politica e i suoi traffici. Era, soprattutto la rovina d’un Way of life, che si esprimeva attraverso il rilassamento dei freni morali, il disinteresse per lo stesso lavoro e le stesse ricchezze, infine la rottura dei legami di parentela, al punto che “l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano”…».
[51] G. Getto La peste del Decameron e il problema della fonte lucreziana, in Getto Immagini e problemi di letteratura italiana Milano 1966, pp. 49-68.
[52] Adopero G. Boccaccio Decameron, a cura di V. Branca, Torino 19926.
[53] Adopero Paolo Diacono Historia Langobardorum, edd. L. Bethmann - G. Waitz, MGH Scriptores Rerum Langobardicarum et Italicarum (1878), che comunque qui non differisce dall’ed. Crivellucci, di cui si serve il Branca.
[54] Agnolo, p. 552.
[55] Croniche di Giovanni, Matteo e Filippo Villani secondo le migliori stampe, Trieste 1857 (di qui in avanti: M. Villani), I, 2.
[56] Marchionne di Coppo Stefani Cronaca fiorentina, ed. N. Rodolico, RIS n. e. 30/1 (1903-55)(di qui in avanti: Marchionne), p. 230.
[57] Marco Battagli da Rimini Marcha, ed. A. F. Massèra, RIS n. e. 16/3 (1912-13)(di qui in avanti: Battagli), p. 54.
[58] Chronica abreviata fr. Johannis de Cornazano, in Chronica parmensia a sec. XI. ad exitum sec. XIV, ed. L. Barbieri, Parma 1858 (di qui in avanti: Chronica abreviata), p. 386. Su di essa vedi Repertorio della cronachistica emiliano-romagnola…, pp. 259-61.
[59] Storie Pistoresi, p. 235.
[60] P. Azario Liber gestorum in Lombardia, ed. F. Cognasso, RIS n. e. 16/4 (1925-39), p. 1.
[61] Cronaca inedita di Giovanni da Parma canonico di Trento, in A. Pezzana Storia della città di Parma, I, Appendice, Parma, 1837 (=Bologna, Forni 1971) (di qui in avanti: Giovanni da Parma), p. 51.
[62] Breve Chronicon Flandriae, ed. J. J. De Smet, «Corpus Chronicorum Flandriae» 3 (1856) (di qui in avanti: Breve Chronicon Flandriae), p.16.
[63] P. G. Molmenti La storia di Venezia nella vita privata. Dalle origini alla caduta della Repubblica, 1, Trieste1973, pp. 415-16.
[64] Getto La peste del Decameron…, p. 65: «La peste costituiva insomma un vero e proprio topos, un tema letterario a elementi obbligati, un’ekphrasis canonica…»; p. 66: «Con l’esperienza personale della peste, o comunque con le notizie che di essa o di particolari di essa potevano fornirgli i suoi contemporanei, il Boccaccio non doveva certo sentire la necessità di ricorrere ai classici per nutrire di nuovi dati il suo racconto. Dei classici egli aveva bisogno, soprattutto, per risolvere un problema di calcolata arte retorica…»; p. 68: «… un’occasione, anche, per svolgere un alto esercizio di arte retorica…».
[65] G. Villani, XII, lxxxiv, pp. 486-88: «Ma infinita mortalità, e che più durò, fu in Turchia, e in quelli paesi d’oltremare, e fra’ Tarteri. E avvenne tra’ detti Tarteri grande giudicio di Dio e maraviglia quasi incredibile, e ffu pure vera e chiara e certa, che tra ’l Turigi e ’l Cattai nel paese di Parca, e oggi di Casano signore di Tarteri in India, si cominciò uno fuoco uscito di sotterra, overo che scendesse da cielo, che consumò uomini e bestie, case, alberi, e lle pietre e lla terra, e vennesi stendendo più di xv giornate atorno con tanto molesto, che chi non si fuggì fu consumato, ogni criatura e abituro, istendendosi al continuo. E gli uomini e femine che scamparono del fuoco, di pistolenza morivano. E alla Tana, e Tribisonda, e per tutti que’ paesi non rimase per la detta pestilenza de’ cinque l’uno, e molte terre vi s’abandonaro tra per pestilenzia, e tremuoti grandissimi, e folgori. E per lettere di nostri cittadini degni di fede ch’erano in que’ paesi, ci ebbe come a Sibastia, piovvono grandissima quantità di vermini grandi uno sommesso con viii gambe, tutti neri e coduti, e vivi e morti, che apuzzarono tutta la contrada, e spaventevoli a vedere; e cui pugnevano, atossicavano come veleno. E in Soldania, in una terra chiamata Alidia, non rimasono se non femmine, e quelle per rabbia manicaro l’una l’altra. E più maravigliosa cosa e quasi incredibile contaro avvenne in Arcaccia, uomini e femine e ogni animale vivo diventarono a modo di statue morte a modo di marmorito, e i signori d’intorno al paese pe’ detti segni si propuosono di convertire alla fede cristiana; ma sentendo il ponente e paese di Cristiani tribolati simile di pistolenze, si rimasono nella loro perfidia. E a porto Talucco, inn una terra ch’ha nome Lucco inverminò il mare bene x miglia fra mare, uscendone e andando fra terra fino alla detta terra, per la quale amirazione assai se ne convertirono alla fede di Cristo. E stesesi la detta pistolenza infino in Turchia e Grecia, avendo prima ricerco tutto Levante i Misopotamia, Siria, Caldea, Suria, Cipro, il Creti i Rodi, e tutte l’isole dell’Arcipelago di Grecia, e poi si stese in Cicilia, e Sardigna, Corsica, ed Elba, e per simile modo tutte le marine e riviere di nostri mari; e otto galee di Genovesi ch’erano ite nel mare Maggiore, morendo la maggior parte, non ne tornarono che quattro galee piene d’infermi, morendo al continuo; e quelli che giunsono a Genova, tutti quasi morirono, e corruppono sì l’aria dove arivavano, che chiunque si riparava co lloro poco apresso morivano. Ed era una maniera d’infermità, che non giacia l’uomo iii dì, aparendo nell’anguinaia o sotto le ditella certi enfiati chiamati gavoccioli, e tali ghianducce, e tali gli chiamavano bozze, e sputando sangue. E al prete che confessava lo ’nfermo, o guardava, spesso s’apiccava la detta pistilenza per modo ch’ogni infermo era abandonato di confessione, sagramento, medicine e guardie. Per la quale sconsolazione il papa fece dicreto, perdonando colpa e pena a’ preti che confessassono o dessono sagramento alli infermi, e lli vicitasse e guardasse. E durò questa pestilenza fino a …, e rimasono disolate di genti molte province e cittàdini […]. E tali son fatti i giudici di Dio per pulire i peccati de’ viventi».
[66] Buccio di Ranallo Cronaca Aquilana, ed. V. De Bartholomaeis, Roma 1907 (FSI 41), pp. 180-86.
[67] M. Villani, I, 2: «Avemmo da mercatanti genovesi, uomini degni di fede, che avevano avute novelle di que’ paesi, che alquanto tempo innanzi a questa pestilenzia, nelle parti dell’Asia superiore uscì della terra ovvero cadde dal cielo un fuoco grandissimo, il quale stendendosi verso il ponente, arse e consumò grandissimo paese senza alcuno riparo. E alquanti dissono che del puzzo di questo fuoco si genrò la materia corruttibile della generale pestilenzia: ma questo non possiamo accertare»; Die Oberrheinische Chronik, pp. 64-65; Chronicon Estense, p.160: «Eodem millesimo et diebus, pluit ignis maximus de celo in partibus Imperii, quod est inter Cathayum et Persidam, et cecidit in forma nivis et combursit montes, terras et alia loca, homines et feminas, et deducebat fumum maximum, quem qui adspiciebat, moriebatur in spatio medii diei; et similiter si aliquis vel aliqua respiciebat illos, qui fumum viderant, etiam moriebatur. Accidit tunc, quod decem galie transibant partes illas, quarum due de Januensibus, scilicet homines respicientes illos qui viderant dictum fumum, mori ceperunt etiam; tamen conduxerunt eas Constantinopolim et Peram. Tunc cives dictarum civitatum loquentes cum illis existentibus super galias, statim moriebantur»; Continuatio Novimontensis, p. 674 (codex Novimontensis): «Non longe ab illa regione accidit, quod terribilis ignis de celo fulminavit, et ea que reperit consumpsit; lapides vero virtute illius ignis ita ardebant ac si in arida ligna fuissent mutati. Fumus inde procedens erat valde contagiosus, ita ut mercatores a longe ipsum intuentes statim inficerentur; nonnulli ex eis eciam vitam ibidem finierunt. Qui autem evaserunt, pestilenciam secum deportaverunt…».
[68] M. Villani I, 2: «Appresso sapemmo da uno venerabile frate minore di Firenze vescovo di… del Regno, uomo degno di fede, che s’era trovato in quelle parti dov’è la città di Lamech ne’ tempi della mortalità, che tre dì e tre notti piovvono in quello paese bisce con sangue che appuzzarono e corruppono tutte le contrade: e in quella tempesta fu abbattuto parte del tempio di Maometto e alquanto della sua sepoltura»; Continuatio Novimontensis, p. 674 (codex Novimontensis): «Insuper in partibus ubi zinziber nascitur letalis pluvia descendit, mixta cum serpentibus et diversis vermibus pestiferis; et cunctos quos tetigit continuo extinxit». Il Chronicon Estense, p. 160, riporta la notizia, ma non la mette in relazione con la peste successiva: «Eodem millesimo, in partibus Captay pluit in maxima copia vermium et serpentium qui devoraverunt maximam quantitatem gentium et quoscumque homines, homines vel feminas, tangebat aqua, subito moriebantur».
[69] A. Coville Ecrits contemporains sur la peste de 1348 à 1350 «Histoire littéraire de la France» 37 (1937), pp. 340-51; Biraben Les hommes et la peste…, 2, pp. 9-10.
[70] N. Rubinstein The Beginnings of Political Thought in Florence, A Study in Medieval Historiography «Journal of the Warburg and Courtauld Institute» 5 (1942), pp. 198-227.
[71] Das Buch der Natur von Konrad von Megenberg. Die erste Naturgeschichte in deutscher Sprache, ed. F. Pfeiffer, Stuttgart 1861.
[72] Cronica de Ducibus Bavariae la, p. 168: «Anno Domini MCCCXLI prima die mensis Marcii ingressus est Saturnus primum punctum capricorni, et tunc iniciabatur pestilencia illa magna, quam totus expertus est mundus».
[73] Chronique et Annales de Gilles le Muisit, abbé de Saint-Martin de Tournai (1272-1352), ed. M. H. Lemaître, Paris 1905 (di qui in avanti: Gilles le Muisit), pp. 238-39; Jean de Venette, pp. 179-80; Chronique de Jean Le Bel, edd. J. Viard - E. Déprez, 1-2, Paris 1904-05 (di qui in avanti: Jean Le Bel), 1, p. 225; Chronicon comitum Flandrensium, ed. J. J. De Smet, in «Corpus Chronicorum Flandriae» 1 (1837), p 227; Breve Chronicon Flandriae, p. 18.
[74] Jean de Venette, pp. 210-11; vedi anche P. Cochon Chronique normande, ed. Ch. de Robillard de Beaurepaire, «Société de l’histoire de Normandie» 1870, pp. 71-72; Biraben Les hommes et la peste…, II, pp. 12-13.
[75] G. Villani, XIII, xcviii, p. 510: «Nel detto anno, del mese d'agosto, aparve in cielo la stella commeta […] e ingenerò grande mortalità ne' paesi che il detto pianeto e segno signoreggiano; e bene il dimostrò inn Oriente e nelle marine d'intorno, come dicemmo adietro».
[76] Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 20.
[77] Ibid., p. 39.
[78] Ad es. Jean de Venette, p. 212; Die Chronik des Hugo von Reutlingen «Forschungen zur Deutsche Geschichte» 21 (1881), pp. 49-50; Sercambi, p. 96: «Et era sì corrocta l’aire, che in qualunqua luogo huomo andava, la morte il giungea»; altri rimandi in Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 20.
[79] Vedine la rassegna in Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 25; Jean de Venette, pp. 212-13, che però vi aggiunge anche l’inquinamento delle acque da parte dei giudei.
[80] Liber regiminum Padue, ed. A. Bonardi, RIS n. e. 8/1 (1903-07), p. 368: «… in annis MCCCXLVIII die XXV ianuarii hora XXIII fuit ingens terraemotus qui duravit per dimidium horae, post quem pestis inaudita mare transivit, et evolavit de Venetiis in omnes occidentis provincias, et denique in universum orbem».
[81] Carpentier Une ville…, p. 197; Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 16.
[82] Cronica de Ducibus Bavariae, p. 168: «Unde autem eadem pestilencia causaretur vel quomodo ei succurrendum esset, nullus potuit medicus invenire».
[83] Biraben Les hommes et la peste…, 1, p. 53.
[84] Non si pensi che il de Mussi riferisca di cose viste personalmente, perché è stato mostrato dal Tononi, p. 142, che tra 1346 e 1356 egli era attivo nella sua professione di notaio con continuità a Piacenza.
[85] Vedi supra nota 65; cf. Biraben Les hommes et la peste…, 1, p. 53.
[86] Chronica abreviata, pp. 385-86.
[87] Chronicon Estense, p. 160; Cronica de Ducibus Bavariae, p. 168.
[88] Breve Chronicon Flandriae, p. 14; Continuatio Novimontensis, p. 674.
[89] Agnolo, p. 555: «questo morbo s’attachava coll’alito e co’ la vista pareva»; Liber regiminum Padue, p. 368: «… in solo visu, vel anhelitu omnes interrimebat»; cf. Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 22.
[90] Ad es. Marchionne p. 230: «Lo segno era questo, che, o tra la coscia e ’l corpo al modo (nodo?) d’anguinaia, o sotto lo ditello apparia un grossetto, e la febbre a un tratto, e quando sputava, sputava sangue mescolato colla saliva, e quegli che sputava sangue niuno ne campava»; Cronica de Ducibus Bavariae, p. 168: «Invasit autem homines et in lectos prostravit aliquando per nimum calorem, aliquando per frigus, aliquando per capitis dolorem, inter que glandes erumpebant in corporibus eorum et crescebant aliquibus sub humeris, aliquibus in ingwine, aliquibus in coxis, quarum tamen multe evanescentes aut saniem emittentes mortem hominibus non intulerunt»; cf. Carpentier Une ville…, p. 114; Molmenti La storia di Venezia, pp. 415-16; Biraben Les hommes et la peste…, 2, pp. 43, 46.
[91] Annales S. Albini Andegavensis, ed. L. Halphen, «Cocllection de textes pour servir à l’étude et à l’enseignement de l’histoire» 37 (1903) (di qui in avanti: Annales S. Albini Andegavensis), pp. 39-41; Biraben Les hommes et la peste…, 2, pp. 43-44, 46.
[92] Marchionne p. 230: «… fu di tale terrore e di tanta tempesta, che nella casa dove s’appigliava chiunque servìa niuno malato, tutti quelli che lo serviano, moriano di quel medesimo male, e quasi niuno passava lo quarto giorno»; Boccaccio Decameron Introduzione 13: «… quasi tutti infra ’l terzo giorno dalla apparizione de’ sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano», cf. Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 48.
[93] Annales Urbisveteris, ed. L. Fumi, RIS n. e. 15/5,1 (1902-20), p.197.
[94] Come chiarisce bene la rubrica del Battagli, p. 54: «De mortalitate universali per totum orbem»; è espressione ricorrente.
[95] Cronica de Ducibus Bavariae, p. 168: «Quam magna autem seu seva fuerit in popularibus civitatibus atque villis, si scribatur, incredibile estimatur».
[96] Agnolo, p. 555: «E morivano quasi di subito… e favellando cadevano morti… e non valea nè medicina nè altro riparo; e quanti ripari si facea parea che più presto morissero»; Discorso historico, pp. 25-26: «et la mattina erano sani et l’altra matina morti»; Carpentier Une ville…, p. 113; Biraben Les hommes et la peste…, 1, p. 55.
[97] Gilles le Muisit, p. 238; Jean de Venette, p. 179-80; Chronicon comitum Flandrensium, p. 227; Die Chronik Heinrichs Taube von Selbach mit den von ihm verfaßten Biographien Eichstätter Bischöfe, ed. H. Bresslau, MGH SS n. s. 1 (1922), pp. 75-76.
[98] Carpentier Une ville…, p. 162; Biraben Les hommes et la peste…, 1, p. 55, nota a riprova che, sulla scorta degli studi di K. Sudhoff, di contro alla totale assenza di trattati medici sulla peste prima del 1348, con una unica eccezione nel 1340, sono stati pubblicati circa trecento trattati in merito risalenti al periodo tra 1348 e 1500; Nada Patrone Alimentazione e malattie nel Medioevo, p. 39: «le opere mediche sulle epidemie si infittiscono proprio a partire dal fatidico 1348».
[99] Jean de Venette, p 214.
[100] Ad es. Sagacio e Pietro de Gazata Chronicon Regiense, RIS 18 (1731), col. 66: «De hoc morbo non possem scribere horribilitates, et crudelitates, et obscuritates, quae fuerunt».
[101] Sei mesi sono la norma per Giovanni da Parma, p. 52. A Pisa (Agnolo, p. 553) «durò questa morìa 5 mesi…»; a Siena per uno (Cronaca Senese, p. 148): «… bastò tre mesi, giugnio, luglio e agosto»; ma per Agnolo, p. 555: «La mortalità cominciò in Siena di magio… E così durò in fino a settembre»; ad Orvieto (Discorso historico, pp. 25-26) «durò questa mortalità finamente a calenne di septembre», dai primi di maggio; a Firenze per M. Villani da aprile a settembre, per Marchionne (p. 230) da marzo a settembre; per le Storie Pistoresi, p. 235 «durò l ’nfertà più di IIII mesi continui»; a Bologna da marzo a settembre; a Venezia da febbraio ad agosto per alcuni (Pastorello Introduzione, p. XIV), ma per altri il canonico semestre: Molmenti La storia di Venezia, pp. 415-16 ; per il Battagli, p. 55, dovunque da febbraio ad Ognissanti, primo di novembre; ad Avignone durò sette mesi secondo la testimonianza di Guy de Chauliac (Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 45), ma il culmine si ebbe tra gennaio ed aprile (Breve Chronicon Flandriae, p. 14); a Vienna dalla Pentecoste del 1349 (31 maggio) a S. Michele (29 settembre) (Continuatio Novimontensis, p. 676).
[102] A Padova e distretto secondo il Liber regiminum Padue, p. 368: « tertia pars defecit»; a Pisa per Agnolo, p. 553, «stimasi che ne morisse de’ 5 e’ 4…», ed a Piombino «morivi e’ 3 quarti de le persone…», ma per Pisa cf. A. Feroci La peste bubonica in Pisa nel Medio Evo e nel 1630 Pisa 1893, p. 13: secondo l’anonimo qui pubblicato la mortalità colpì il 70% della popolazione; Agnolo, p. 555: «… in tutto si trova che ne la città e borghi di Siena morisse 80m persone, chè in questo tenpo facea Siena e li borghi più di 30m omini, e rimase Siena a meno di X mila omini»; il 75% nelle Venezie, risultava all’autore della Continuatio Novimontensis, p. 674, e lo stesso a Siena per la Cronaca Senese, p. 148; Agnolo, p. 553: «A Milano morì poca gente, inperochè morì 3 fameglie»; ad Orvieto per il Discorso historico, pp. 25-26, «contasi, che delle dieci parti ne morissero le nove parti»; per gli Annales Urbisveteris, p. 197, «creditur quod medietas hominum obierit»; a Firenze per M. Villani «de’ cinque i tre e più», il 60%, soprattutto tra gli strati inferiori, con la nota, tipica di Matteo, che sempre vede in chiave cosmica, «nel generale per tutto il mondo mancò la generazione umana per simigliante numero»; 96.000 i morti per Marchionne, 100.000 per Boccaccio; A. B. Falsini Firenze dopo il 1348 «Archivio Storico Italiano» 129 (1971), p. 436, ritiene che «ci si possa avvicinare alla verità ammettendo presenti in Firenze, prima della peste, poco più di 90.000 abitanti e, subito dopo la peste, poco meno di 50.000 abitanti». A Venezia le vittime erano state prossime a 100.000 per il Battagli, pp. 54-55, ed il Liber regiminum Padue, p. 368; ad Avignone per le Storie Pistoresi, p. 235, più di 120.000, per Giovanni di Winterthur, p. 275, 16.000 in un mese; a Pisa (Storie Pistoresi, p. 236) più di 25.000, ed a Parigi 1.573 morti il solo 13 marzo. Per gli Annales Mellicenses, p. 513, la percentuale dei morti era del 72%: «… vix duodecimus homo remansit» ; per Giovanni da Parma, p. 51, a Trento l’83% («5 su 6»); per Giovanni da Praga tra Venezia e Marsiglia il 66%, e così mediamente in Germania per la Continuatio Novimontensis, p. 676. Vedi anche, dopo Bulst Der Schwarze Tod, pp. 49 ss., P. Dubuis L’épidemie de peste de 1349 à Saint-Maurice-d’Agaune Lausanne 1980 (Études de lettres - Faculté des lettres de l’Université IV-3), pp. 3-20.
[103] Chronicon Estense, pp. 160-61; riprendono pari pari il Chronicon la Polyhistoria, RIS 24 (1738), coll. 806-07, e l’intero Corpus Chronicorum Bononiensium, ed. A. Sorbelli, RIS n. e. 18/1 (1906-40), pp. 583-87; per Bologna A. I. Pini Campagne bolognesi. Le radici agrarie di una metropoli medievale Firenze 1993, pp. 138-39: «si può senz’altro concludere che la peste portò via gli abitanti della città in una proporzione che oscilla tra 1/3 e i 2/5. Non era dunque molto lontano dal vero il cronista bolognese contemporaneo Pietro da Villola quando scriveva che per la peste “fu estimato che di cinque era morti li tre e più”».
[104] Chronicon Estense, p. 162. Sulla peste a Venezia vedi ancora Pastorello, Introduzione, p. XIV, che cita anche Gian Jacopo Caroldo Historia di Venetia, ms. Marc. It. VII 128a, c. 200r, ed il Chronicon Monasterii S. Salvatoris Venetiarum Francisci de Gratia (1141-1380), ed. A. M. Duse, Venezia 1766, pp. 69-70, ed infine la testimonianza tarda raccolta in Marin Sanudo Vitae Ducum Venetorum, RIS 22 (1733) coll. 614-16.
[105] A. Sapori L’attendibilità di alcune testimonianze cronistiche dell’economia medievale, in Studi di storia economica medievale 1, Firenze 1955, pp. 25-33.
[106] Biraben Les hommes et la peste…, 1, p. 156.
[107] Nemmeno la conclusione, a suo modo cauta, di Mollat I poveri nel Medioevo, p. 221: «il calo demografico raggiunse forse un terzo della popolazione europea».
[108] Frugoni G. Villani, Cronica, XII, 94, p. 245 «Tutte queste cifre, al di là della precisazione numerica, rappresentano anche una interpretazione, direi, della storia fiorentina». Bowsky The impact of the Black Death…, pp. 4-5 giudica le cifre fornite dai cronisti senesi come, se non esattissime, generalmente affidabili.
[109] Annales S. Albini Andegavensis, pp. 39-41; Biraben Les hommes et la peste…, 1, p. 155.
[110] Discorso historico, pp. 25-26: «… molte famiglie et chasate rimasero sderedate»; Marchionne p. 230: «quando s’appigliava in alcuna casa, spesso avvenia che non vi rimanea persona che non morisse»; Giovanni da Parma, p. 51; cf. Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 30.
[111] Annales Urbisveteris, p. 197: «principales nobiles et populares obierunt». Per Domenico da Gravina Chronicon de rebus in Apulia gestis, ed. A. Sorbelli, RIS n. e. 12/3 (1903-09), p. 49, «quasi modicus superfuit populus» nel regno di Sicilia.
[112] G. Cortusi Historiae, RIS 12 (1728)(di qui in avanti: Cortusi), col. 926. Non risponde affatto a verità che secondo la cronaca di Rimini (e ci si riferirà al Battagli) la malattia ha colpito prima i poveri, poi i ricchi, ma nessun grande signore, come si trova in G. C. Coulton The Black Death London 1929, p. 62, ripreso da Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 31.
[113] Cronica de Ducibus Bavariae, p. 168: «Ubicunque vero sevitura erat, ibi primo in pueros, deinde in forciores seviebat»; Giovanni da Parma, pp. 51-52, nota che la peste colpì in regioni diverse in diverse stagioni, qui nei tempi caldi, là nei freddi, senza norma, e più i giovani dei vecchi, e più le fanciulle (soprattutto se carine), e più le donne degli uomini.
[114] Alberto de Bezanis Cronica pontificum et imperatorum, ed. O. Holder-Egger, MGH SRG in us. schol. 3 (1908), p. 102, ed aggiunge: «in locis sanis quam in viciosis et in fumis»; che cosa significhi «in fumis» è inesplicabile, ma indicherà comunque luoghi malsani.
[115] Continuatio Novimontensis, p. 676. Il che si accorda in parte con quanto riferito da Heinrich von Herford (Liber de rebus et temporibus memorabilibus sive Chronicon Henrici de Hervordia, ed. A. Potthast, Gottingae 1859), p. 284, che «nobilibus et militaribus et clericis secularibus plus pepercit».
[116] P. 51.
[117] Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 29.
[118] Agnolo, p. 555: « nel contado morì molta più gente, che molte terre e ville s’abandonaro che non vi rimase persona»; Annales Mellicenses, p. 513: «… in Karinthia, Austria et Babaria mortalitas in tantum seviebat, quod multe ville et in civitatibus quibusdam domus quamplures sunt destructe, ita quod inhabitator in eis nullus est inventus».
[119] Discorso historico, pp. 25-26; Carpentier Une ville…, pp. 112, 120-21; Biraben Les hommes et la peste…, 2, pp. 28, 31, 37.
[120] J.-N. Biraben Les pauvres et la peste, in Études sur l’histoire de la pauvreté, ed. M. Mollat, Paris 1974 (Publications de la Sorbonne, Études 8,1-2), 2, pp. 505-18.
[121] Mollat I poveri nel Medioevo, p. 221. Alcune perplessità in proposito mostra ragionevolmente Capitani nell’Introduzione, pp. XXX-XXXIII. Ancora più drastica, e meno accettabile, l’affermazione “esemplificativa” alle pp. 221-22: «L’insistenza dei cronisti nel mostrare, come gli artisti delle danze macabre, un’eguale vulnerabilità del ricco e del povero, è corretta dalle testimonianze del triste primato della povertà. La malattia colpì dapprima i quartieri poveri, per esempio a Rimini, a Orvieto… a Narbonne… si può parlare così di “epidemia proletaria”».
[122] Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 28.
[123] Marchionne, p. 230; cf. Carpentier Une ville…, p. 113; Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 25.
[124] Agnolo, p. 556.
[125] Corpus chronicorum Bononiensium, pp. 583-87.
[126] Chronicon Sublacense, ed. R. Morghen, RIS n. e. 24/6 (1927), p. 44.
[127] Agnolo, p. 553: «… e non si trovava medici che volessero curare…» ; M. Villani I, 2: «Di questa pestifera infermità i medici in catuna parte del mondo, per filosofia naturale o per fisica o per arte d’astrologia, non ebbono argomento né vera cura»; Marchionne, p. 230: «… e non valeva né medico, né medicina, o che non fossero ancora conosciute quelle malattie, o che li medici non avessero sopra quelle mai studiato, non parea che rimedio vi fosse»; Boccaccio Decameron, Introduzione 13: «A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza de’ medicanti […] non conoscesse da che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse…»; Breve Chronicon Flandriae, p. 16: «nec medicus visitat infirmum, si tamen ei dantur quicquid infirmus in hac vita possideret».
[128] M. Villani, I, 2: «Alquanti per guadagnare andarono visitando e dando loro argomenti, li quali per la loro morte mostrarono l’arte esser fitta e non vera: e assai per coscienza lasciarono a ristituire i danari che di ciò aveano presi indebitamente»; Boccaccio Decameron, Introduzione 13: «… o che la ignoranza de’ medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo…».
[129] Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 127.
[130] Discorso historico, pp. 25-26: «Et le botteghe delli artefici tutte stavano chiuse»; Breve Chronicon Flandriae, p. 18: ad Avignone, ogni lavoro sospeso, «vacationes indicte sunt usque festum Michaelis».
[131] V. Rutenburg Popolo e movimenti popolari nell’Italia del ’300 e ’400, introd. di R. Manselli, Bologna 1974, p. 109.
[132]  Di contro a Y. Renouard La Peste Noire de 1348-1350 «Revue de Paris» 57 (1950), pp. 107-19, oggi in Renouard Etudes d’histoire médiévale Paris 1968, I, pp. 143-55, che vedeva subito dopo la peste grandi mutamenti sociali e soprattutto approfondirsi del divario tra poveri e ricchi, G. Prat Albi et la Peste Noire «Annales du Midi» 64 (1952), pp. 15-25, conclude che nella regione da lui studiata si ebbe un notevole calo della popolazione, ma scarsi mutamenti politico-sociali; ad analoghe conclusioni è giunto P. Wolff Trois études de démographie médiévale en France méridionale, in Studi in onore di Armando Sapori, I, Milano 1957, pp. 493-503. Sulla  disgregazione della società causata dalla peste insiste W. L. Langer The Black Death «Scientific American» 210 (1964), pp. 114-21.
[133] Vedi ora il lavoro di P. Pirillo in questo stesso volume.
[134] Marchionne, p. 230: «le genti spaventate abbandonavano la casa, e fuggivano in un’altra; e chi nella città, e chi si fuggia in villa»; cf. Carpentier Une ville…, pp. 134, 149-50; i veneziani fuggono a Chioggia, Ferrara, Padova, Treviso, Ceneda, Torcello, Murano e altrove (Pastorello Introduzione p. XIV); qui la situazione è particolarmente grave, tanto che si dovette ingiungere - passata la tempesta - agli ufficiali pubblici fuggiti in massa di riassumere il loro posto, parallelamente al divieto di lasciare la città per tutti i veneziani; cf. ancora Giovanni di Winterthur, p. 275-76; Continuatio Novimontensis, p. 676, con la nota triste: «sed quia prius erant infecti, propterea non poterant evadere quin ex eis quam plures morerentur». Anche questo non è fenomeno esclusivo della peste nera: cf. Figliuolo Il terremoto del 1456, 1, p. 11.
[135] Carpentier Une ville…, p. 155, con rimando a Marchionne, p. 232. Anche questo è fenomeno ricorrente in seguito: cf. Figliuolo Il terremoto del 1456, 1, pp. 112-13; sul carattere antropologico di queste manifestazioni si è intrattenuto J. Delumeau La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII), Torino 1979, pp. 209-11.
[136] Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 77. Proprio a partire dalla peste nera si moltiplicheranno i ricorsi alla misericordia della Madre di Dio: cf. Pestblätter des XV. Jahrhunderts, ed. P. Heitz, Strassburg 1901; P. Pedrizet La Vierge de Miséricorde. Etude d’un thème iconographique, Paris 1908; Figliuolo Il terremoto del 1456, 1, p. 176; J.-P. Delumeau Rassicurare e proteggere, Milano 1992, che dedica ampio spazio, per quel che ci riguarda, alle processioni ed al culto di Maria misericordiosa; vedi in particolare p. 284: «Fra le ondate delle pestilenze che si abbatterono sull’Europa a cominciare dal 1348 e la diffusione del culto della Vergine col mantello c’è un rapporto di causa ed effetto che nessuno mette in dubbio…».
[137] Carpentier Une ville…, pp. 155-56; Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 66.
[138] Agnolo, p. 553: «… e a pena e’ pochi preti davano la confessione e sagramenti…»; Marchionne, p. 230: «Medici non si trovavano…»; Battagli, p. 54: «Presbiteri et medici etiam fugiebant infirmos et mortuos pro timore»; Storie Pistoresi, p. 235: «e che non si trovava chi volesse servire nullo malato nè portare morto a sepoltura nè frate nè prete che andare vi volesse» ; cf. Carpentier Une ville…, p. 155.
[139] Marchionne, p. 230: «… quelli che si trovavano, voleano smisurato prezzo in mano innanzi che intrassero nella casa, ed entratovi, tocavono il polso col viso volto adrieto, e da lungi volevono vedere l’urina con cose odorifere al naso»; p. 231: «Li preti e i frati andavano ai ricchi e in tanta moltitudine, ed erano sì pagati di tanto prezzo che tutti arricchieno»; cf. Carpentier Une ville…, p. 155.
[140] Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 32.
[141] Agnolo, p. 553: «… e non si trovava chi li sopellisse se no’ el padre portava el figliuolo, el marito portava la moglie a la fossa senza preti o croce, e molti rimaneano, chè non v’era chi li portasse a la fossa. E Dio promise (sic) però, che nissuno rimanesse in sul letto, nè in casa morto, che non fusse portato a la fossa da qualcuno dicendo: “aiutiamo costoro, chè saremo aiutati noi, e portialli a la fossa, chè saremo portati noi”; e così come per morti molti si metteano e molti ne moriva e molti canpavano e molti facevano per denaro e molti per l’amor di Dio»; p. 555: «e non si trovava chi soppellisse nè per denaro nè per amicizia, e quelli de la casa propria li portava meglio che potea a la fossa senza prete, nè uffitio alcuno, nè si sonava canpana».
[142] Agnolo, p. 555; Battagli, p. 54; Continuatio Novimontensis, p. 676.
[143] Secondo quanto riferisce Gilles li Muisit, cui rimandano Coville Ecrits contemporains…, p. 382, e Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 168.
[144] Agnolo, p. 553: «Pisa si fu per abandonare… … [Piombino] per tanto si fu per abandonare».
[145] Pastorello Introduzione p. XV, che cita la cronaca di S. Salvatore: «Et in ista peste surexerunt latrones infiniti, furantes et depredantes domos».
[146] Agnolo, p. 555: «quasi a ognuno pareva che di dolore a vedere si diventavano stupefatti»; Discorso historico, pp. 25-26: «et quelle che rimasero, rimasero inferme et sbigottite, et con gran terrore dipartisene delle case che rimasero delle genti loro morte».
[147] M. Villani, I, 3.
[148] W. L. Langer The next assignment «The American Historical Review» 63 (1958), pp. 283-304.
[149] Nota Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 83 che a Firenze nel 1348 i Villani - Giovanni, il nonno, che ne muore, poi il padre [ma è il fratello minore! G. Z.], Matteo, infine il figlio, Filippo - descrivono l’arrivo della peste ed osservano come, durante l’epidemia, gli uomini si gettino con ardore nelle devozioni, ma come le chiese non sembrano loro che luoghi di preghiera, e non dei rifugi protetti dalle epidemie. Sulle devozioni anche Mollat I poveri nel Medioevo, p. 225.
[150] Adopero qui il rapido sunto che del lavoro di Langer ha fatto la Carpentier Une ville…, p. 164.
[151] Carpentier Une ville…, pp. 195-96.
[152] Anonymus Leobiensis Deutsche Fortsetzung, ed. H. Pez, «Scriptores Rerum Austriacarum» 1 (1721), col. 968; Borst Il terremoto del 1348, p. 28.
[153]Continuatio Novimontensis, p. 676.
[154] La Cronaca del Conte Francesco di Montemarte (1231-1399), ed. L. Fumi, RIS n. e. 15/5,1 (1902-20), p. 224; sui fraintendimenti del cronista Carpentier Une ville…, pp. 104-05.
[155] Continuatio Novimontensis, p. 676.
[156] Vedi ora anche il lavoro di G. M. Varanini in questo stesso volume.
[157] Agnolo, p. 553: «E quelli che fugiano di Pisa erano divietati e non poteano entrare in terra alcuna…»; provvedimenti analoghi vennero presi a Firenze, a Pistoia, a Venezia, cf. F. Carabellese La peste del 1348 e le condizioni della sanità pubblica in Toscana Rocca San Casciano 1897, A. Chiappelli Gli ordinamenti sanitari del comune di Pistoia contro la pestilenza del 1348 «Archivio Storico Italiano» s. 4 20 (1887), pp. 3-24; A. Zanelli Di alcune Leggi suntuarie pistoiesi dal XIV al XVI ibid. s. 5 16 (1895), pp. 206-24; M. Brunetti Venezia durante la peste del 1348 «Ateneo Veneto» 22 (1909), 1, pp. 289-311; 2, pp. 5-42, edito anche come estratto a parte, Venezia 1909; Carpentier Une ville…, pp. 132-34. Nel secolo successivo l’Italia sarà, come in tanti altri campi, a questo riguardo all’avanguardia: cf. Cipolla Contro un nemico invisibile…, pp. 14-20.
[158] Continuatio Novimontensis, p. 674.
[159] Agnolo, p. 553: «le case loro furo murate l’uscia e le finestre, chè nissuno v’entrasse»; Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 169.
[160] Coulton The Black Death, p. 26; Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 168.
[161] Senza giungere all’incenerazione gli Ordinamenta sanitatis dell’aprile 1348 a Pistoia ordinano che non si ritirino i morti dalle case che in una bara, regolamentano la profondità delle fosse e proibiscono di introdurre cadaveri in città. Si è sparsa l’idea che la putrefazione dei corpi insepolti può generare la peste, e misure per allontanare i cimiteri si diffondono lentamente. L’interesse delle autorità amministrative per la peste è il fatto capitale, il punto di partenza essenziale di ogni regolamentazione amministrativa ulteriore nel campo dell’igiene pubblica. Prima dell’apparizione della peste, è solo in Italia, sembra, che esistano regolamenti sanitari in qualche grande città: a Firenze gli Statuti sanitari, pubblicati dal 1321 al 1324, si preoccupano di assicurare l’abbondanza del vettovagliamento, sorvegliare la qualità delle carni e altre derrate alimentari per la salute degli abitanti. Già prima della peste in Italia alla fine del XIII o all’inizio del XIV secolo alcune comunità assoldano dei medici con l’incarico di assistere i poveri: Orvieto dispone così di due medici pagati dalla città, e bisogna vedervi i primi passi, al di fuori delle opere di carità della Chiesa, di una assistenza sanitaria civile. Ma la peste nera sconvolge questa organizzazione encora timidamente abbozzata. Fino ad allora mal remunerati (venticinque lire per anno), i medici scomparsi non sono rimpiazzati che a peso d’oro. Sempre ad Orvieto il 24 ottobre 1348, si assolda maestro Matteo fu Angelo dopo averlo lungamente sollecitato e gli si offrono cento lire all’anno. Il 4 giugno 1350, di nuovo si cerca di reclutare due medici ma anche offrendo cinquanta fiorini all’anno, vale a dire duecento lire, nessuno si presenta e ci si deve contentare di incaricare uno studente che non ha ancora terminato gli studi (Carpentier Une ville…, pp. 131, 147 e 192; Biraben Les hommes et la peste…, 2, pp. 102, 125-26). Agli inizi della peste nera molte città italiane adottano simili provvedimenti: Pistoia nell’aprile 1348 pubblica gli Ordinamenta sanitatis tempore mortalitatis, le cui misure sono rafforzate all’inizio di giugno del 1348. Venezia, Milano, Parma ed anche Gloucester in Inghilterra, vietano l’ingresso ai viaggiatori ed agli stranieri provenienti da luoghi infetti. In seguito alcune città sentono il bisogno di una organizzazione amministrativa particolare in tempo d’epidemia (G. Sticker Abhandlungen aus der Seuchengeschichte und Seuchenlehre, I. Die Pest, 1. Die Geschichte der Pest, ; 2. Die Pest als Seuche und als Plage, Giessen 1908-1910, 1, pp. 51-52; Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 102). A Venezia  il 20 marzo 1348 il doge Dandolo fa nominare tre provveditori di sanità, una sorta di consiglio sanitario ristretto, incaricato di proporre tutte le misure da prendere a proposito della peste (V. Bazala Della peste e dei modi di preservarsene nella Repubblica di Ragusa (Dubrovnik), in XIV Congresso internazionale di storia della medicina, Roma, 13-20 settembre 1954, Dubrovnik-Zagreb 1954, p. 16; Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 138), ed a Firenze l’11 aprile seguente i priori scelgono otto saggi che formano una sorta di comitato di salute pubblica investito di poteri quasi dittatoriali; ma questa istituzione non riesce a svolgere alcuna funzione al di fuori delle forme amministrative tradizionali e ad imporsi (Carpentier Une ville…, p. 131; Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 138).
[162] Storie Pistoresi, pp. 236-38.
[163] Carpentier Une ville…, pp. 132-33. Ad Orvieto ugualmente, fin dal 1347, prima dell’arrivo della peste, le manifestazioni esterne di dolore sono proibite, ed a Venezia una misura identica è presa verso la fine dell’epidemia (ibid., pp. 94, 95, 121, 132, 133; Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 100).
[164] La Carpentier rileva questa preoccupazione ad Orvieto quando, il 18 dicembre 1348, si compila una lista degli orfani e si esamina la regolarità della loro tutela, o, se non è stabilita per testamento o per legge, che vi si provveda ricorrendo al parente più prossimo. Allo stesso modo, il 6 ottobre 1349, si decide di reprimere gli abusi commessi dai tutori sui beni degli orfani (Carpentier Une ville…, pp. 146, 190-91; Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 149). Vedi anche Bowsky The impact of the Black Death…, p. 17, con rimando ad Agnolo, p. 557.
[165] Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 8; in generale - anche troppo… - vedi J. Delumeau Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, Bologna 1987.
[166] B. Guenée Storia e cultura storica nell’occidente medievale Bologna 1991, pp. 255-61. Alla pari della peste anche il terremoto è un segno della punizione divina e richiede espiazione: A. Riera Melis Fuentes y metodología para el estudio de los sísmos en Cataluña, in Estudio dedicados a la memoria del Prof. Dr. Emilio Saéz, I, Barcelona 1987 (= «Anuario de estudios medievales» 17 (1987)), pp. 308-39.
[167] Vedi l’acuta riflessione di Borst Il terremoto del 1348, pp. 52-58, che conclude che «storia è ancora l’imprevedibile e l’insuperato».
[168] Coulton The Black Death, p. 11; Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 8.
[169] Graus Pest, Geißler, Judenmorde, p. 26.
[170] L. Green Chronicle into History. An Essay on the Interpretation of History in Florentine Fourteenth-Century Chronicles Cambridge 1972, passim. Sul dovere umano di giostrare tra «Fortuna» e «Virtus» si esprimeva, com’è noto, Petrarca.
[171] Mollat I poveri nel Medioevo, p. 226: «… furono accusati i poveri… In mancanza di poveri, la vendetta “popolare” se la prese soprattutto con gli Ebrei in Catalogna e nella valle del Reno».
[172] A proposito delle reazioni al terremoto nota Borst Il terremoto del 1348, p. 27: «La civiltà contadina del XIV secolo era sufficientemente illuminata per credere gli uomini capaci di tutto, e sufficientemente aggressiva per rispondere agli eventi funesti con la persecuzione. I mercanti fiorentini ne facevano cauto accenno, il popolino nell’area sismica non aveva peli sulla lingua: colpevoli erano coloro che facevano prestiti in danaro, che bestemmiavano Dio, che frodavano gli uomini e avvelenavano le fontane; colpevoli erano ad esempio gli ebrei. In alcune città ai margini dell’area sismica, tra l’Austria e la Svevia, essi furono bruciati poiché avevano diffuso tra i cristiani la grande pestilenza»; vedi ad es. Continuatio Zwetlensis quarta, p. 685: «Incusati autem Iudei, quod fontes et aquas eciam fluentes quibusdam pulveribus toxicassent, unde in superioribus partibus undique autem iugulati, et in Chremsa adusti sunt una cum domibus eorum»; Heinrich von Diessenhofen Historia ecclesiastica, ed. A. Huber, «Fontes rerum Germanicarum» 4 (1868) (di qui in avanti: Heinrich von Diessenhofen), p. 68, e molti altri; vedi per questo Graus Pest, Geißler, Judenmorde, pp. 168-214, 299-334.
[173] Fritsch Closener dice che il veleno che li uccise era costituito dalle loro ricchezze; Königshoven, a riprova, per converso, che se fossero stati poveri li si sarebbe ritenuti innocenti (S. Guerchberg La controverse sur les prétendues semeurs de la Peste Noire, d’après les traités de peste de l’époque  «Revue des Etudes juives» n. s. 8 (1948), pp. 3-40, che cita a sua volta M. Dubled Aspects économiques de la vie de Strasbourg aux 13e et 14e siècles: baux et rentes «Archives de l’Eglise d’Alsace» n. s. 6 (1955), pp. 23-56; Biraben Les hommes et la peste…, 1, p. 65). Mollat I poveri nel Medioevo, p. 226: «Per il loro tramite, l’obiettivo erano i prestatori, gli usurai, i ricchi».
[174] Breve Chronicon Flandriae, pp. 17-18.
[175] Guerchberg La controverse…, pp. 3-40; Biraben Les hommes et la peste…, 1, p. 65.
[176] Come risulta chiaramente negli Annales Mellicenses, p. 513: «1349… Item Iudei in Swevia et Babaria cremati fuerant, quia convicti quidam profitebantur, se mortalitatem predictam ante christianos pulvere toxicativo generasse».
[177] Graus Pest, Geißler, Judenmorde, 159; fra l’altro conosce anche che simili persecuzioni sono avvenute in Francia (ibid., p. 68).
[178] Ad es. Heinrich von Diessenhofen, pp. 68-69: «Anno predicto [1300] XL octavo mense novembris incepit persecutio Judeorum. Et primo in Alamannia in castro Solodorensi [Solothurn] cremati fuerunt omnes Judei, eos fontes ac rivos intoxicasse...»; vedi ancora per numerosissimi altri casi Graus Pest, Geißler, Judenmorde, p. 161.
[179] Heinrich von Diessenhofen, p. 70: «XIII vero kal. octobris [1349] cremati sunt Judei, qui in castro Kyburg reservati fuerunt numero 330, collecti de Wintertur et Diessenhoven ac aliis oppidis ducis Austrie, qui ipsos defendebat...».
[180] Come è facilmente desumibile da molti dati cronistici, fra cui quelli offerti dall’Oberrheinische Chronik (pp. 64-65), da Gilles li Muisit (p. 224), Heinrich von Diessenhofen (pp. 68-70); vedi per tutto questo Graus Pest, Geißler, Judenmorde, p. 165.
[181] Graus Pest, Geißler, Judenmorde, pp. 156-58: i pogrom degli anni 1348-50 furono i più impressionanti per vastità dell’intero Medioevo, ma non furono isolati: una tabella rileva una successione quasi continua tra il 1298 ed il 1421, mentre un’altra mette in rilievo il ripetersi delle persecuzioni in molte città.
[182] Carpentier Une ville…, p. 206; Biraben Les hommes et la peste…, I, p. 64.
[183] Agnolo, p. 553.
[184]  Breve Chronicon Flandriae, p. 17.
[185] Cortusi, col. 926.
[186] Ibid., col. 927; Lidia Capo nella menzione di Cola (G. Arnaldi - L. Capo I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana nel secolo XIV, in Storia della cultura veneta. Il Trecento Vicenza 1976, pp. 317-18 n. 184 ) vede «… meno espresso, ma probabilmente forte nel cronista, un atteggiamento di critica alla Chiesa, inetta a soddisfare le aspirazioni di una cristianità bisognosa di pace e di coerenza morale».
[187] Ad es. Chronicon Estense, p. 160; Die Oberrheinische Chronik, p. 64. Genericamente G. Villani, supra nota n. 65.
[188] Annales Ensdorfenses, ed. G. H. Pertz, MGH SS 10 (1852), p. 7: «1349. Hoc anno facta est pestilencia magna in toto mundo. Eodem anno surrexerunt homines dicentes se penitere peccata sua, euntes cum vexillis et cum flagellis percucientes se, et perambulabant omnes regiones».
[189] A. Coville Documents su les Flagellants «Histoire littéraire de la Françe» 37 (1937), pp. 390-411; Biraben Les hommes et la peste…, 1, pp. 65-71; F. Graus Pest, Geißler, Judenmorde. Critiche al lavoro del Graus sono però venute da J. D. Morerod, «Zeitschrift für schweizerische Kirchengeschichte» 85 (1991), pp. 289-91, che in particolare rileva come non si esaurisca così la ricerca della colpa della peste; per conto suo segnala i massacri dei lebbrosi in Savoia. Anche Ph. Ziegler The Black Death Phoneix Mill - Sroud - Gloucestershire 1991, titola il capitolo che dedica alla Germania: the Flagellants and the Persecution of the Jews. Heinrich von Herford, p. 283, intende il fenomeno come eminentemente tedesco.
[190] Annales Mellicenses, p. 513: «Et hac de causa ritus quidam penitencie fuit exortus, ut tam divites quam pauperes, antiqui cum iuvenibus et parvulis, de sursum usque ad femora nudati, deorsum vero panno quodam cincti se flagellis acriter verberabant, et cantum quendam decantantes, ecclesias, in quibus penitenciam hanc exercebant, processionaliter intrabant»
[191] Continuatio Zwetlensis quarta, ed. W. Wattenbach, MGH SS 9 (1851 (=1983)), p. 685: «Anno 1349 circa circumcisionem Domini usque in pascham viri 40, 60 vel 100 coadunati per ecclesias discurrentes cum flagellis se denudantes usque ad cingulum publicas egerunt penitencias, cantando de passione Domini, quatenus pestilencia que tunc in quibusdam locis prevaluerat cessaret». Per la Cronicae S. Petri Erfordiensis moderna Continuatio II, in Monumenta Erphesfurtensia Saec. XII. XIII. XIV, ed. O. Holder-Egger, MGH SS in us. schol. 42 (1899), p. 392, i «tria mala antea vero inaudita» sono nell’ordine le uccisioni di ebrei, i flagellanti e la peste.
[192] Michele da Piazza Historia Sicula, ed. A. Gregorio, «Bibliotheca scriptorum Aragonensium» 1 (1791), pp. 562-66.
[193] O. Capitani Motivi e momenti di storiografia medioevale italiana: secc. V-XIV, in Nuove questioni di Storia medioevale Milano 1964, p. 791.
[194] Vedi da ultimo i dubbi in proposito di Bowsky The impact of the Black Death…, pp. 4-5.
[195] Carpentier Une ville…, p. 99; Biraben Les hommes et la peste…, 1, 54.
[196] Agnolo, pp. 552-55; cf. Corradi Annali…, p. 490; Carpentier Une ville…, pp. 99-100.
[197] Agnolo, p. 555, rr. 7-18.
[198] Ibid., rr. 19-21.
[199] J. Larner L’Italia nell’età di Dante, Petrarca e Boccaccio Bologna 1982, p. 443: «Per coloro che la dovettero subire quella fu una profonda tragedia umana durante la quale ogni signola persona di anno in anno si vide chiamata a dar prova del proprio coraggio e della propria capacità di resistenza».
[200] Bowsky The impact of the Black Death…, p. 17 corregge la punteggiatura, ed il senso, dell’ed. Lisini: 52.000 persone, di cui 36.000 vecchi, 28.000 nei borghi, in totale 80.000 vittime; i superstiti sono 30.000.
[201] Cf. il documento del 17 novembre 1348, riportato ibid., p. 23 e nota 139: «in lapso fatalitatis tempore negligebatur comuniter ab omnibus custodia pecoris et brutorum, cum vix propinquorum infirmorum et deficientium cotidie habebatur custodia et cura».
[202] Agnolo, pp. 555-56.
[203] Mollat I poveri nel Medioevo, p. 227: «Ognuno viveva secondo il suo capriccio dopo la grande pestilenza dell’anno passato».
[204] Agnolo, p. 557.
[205] Ibid., p. 560.
[206] Bowsky The impact of the Black Death…, p. 27 rileva un aumento dei disordini, e rimanda ad Agnolo, p. 556; a p. 29 trova qualche conferma documentaria sui nuovi ricchi, di cui Agnolo, p. 560; lo stesso a p. 30 per i magazzini e le case, di cui Agnolo, p. 557; conclude a p. 34 che la peste non fu la causa della caduta del governo dei Nove, ma favorì i mutamenti demografici, sociali ed economici che rafforzarono l’opposizione all’oligarchia dominante.
[207] A. Frugoni La biblioteca di Giovanni III duca di Napoli (dal Prologus dell’arciprete Leone al Romanzo di Alessandro) «Annali della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari dell’Università di Roma» 9 (1969), p. 161; cf. M. Miglio Et rerum facta est pulcherrima Roma: attualità della tradizione e proposte di innovazione, in Aspetti culturali della società italiana nel periodo del papato avignonese Todi 1981 (Convegni… 19), pp. 348-51.
[208] Guenée Storia e cultura storica….
[209] In particolare Baron La crisi del primo Rinascimento italiano, p. 189, e da ultimo, con una correzione del parere del Baron, E. Artifoni La consapevolezza di un nuovo assetto  [non aspetto, come si legge a p. 77] politico-sociale nella cronistica italiana d’età avignones: alcuni esempi fiorentini, in Aspetti culturali della società italiana… , pp. 82-92.
[210] G. Aquilecchia nella sua Introduzione a Giovanni Villani Cronica. Con le continuazioni di Matteo e Filippo, scelta, introduzione e note di G. A., Torino 1979, p. XX.
[211] Artifoni La consapevolezza di un nuovo assetto , p. 82.
[212] Aquilecchia Introduzione, p. 291 nota 2.
[213] Green Chronicle into History, pp. 44-85.
[214] Aquilecchia Introduzione, pp. XX-XXII.
[215] Artifoni La consapevolezza di un nuovo assetto , pp. 83-88.
[216] Aquilecchia Introduzione, p. XXI.
[217] Calco di Gn 6, 12: «Cumque vidisset Deus terram esse corruptam (omnis quippe caro corruperat viam suam super terram)…».
[218] Gn 9, 11: «Statuam pactum meum vobiscum, et nequaquam ultra interficietur omnis caro aquis diluvii, neque erit deinceps diluvium dissipans terram…».
[219] Cf. Discorso historico, p. 11; Carpentier Une ville…, p. 82.
[220] Aquilecchia Introduzione, p. 293, rettifica: Antonino, e nota che «il nome Antonio non figura nella ed. giuntina del 1581», ed il Chronicon di Girolamo, da cui probabilmente trae Matteo, - come del resto anche Orosio e l’Historia Romana  di Paolo Diacono-Eutropio - ha proprio Antonino. Ma noto io che la lezione Antonio è molto comune nei cronisti del tempo; vedi ad es. Ricobaldi Ferrariensis Compendium Romanae Historiae, ed. A. T. Hankey, Roma 1984 (FSI 108), IX, 54, p. 593; ma qui è certo (non: «sembra», come dice Aquilecchia) che Matteo si riferisce a Marco Antonino Vero ed a Lucio Aurelio Commodo Severo, e l’epidemia di cui si parla era descritta sommariamente, più che in Girolamo, cui rimanda Aquilecchia, nell’Adversus paganos di Orosio (VII, 15, 5-6); cf. Ricobaldi Ferrariensis Compendium …, IX, 46, p. 588. Certo non da Orosio, però, viene l’indicazione «la quale cominciò in Babilonia d’Egitto», che potrebbe esser frutto di confusione, mentre la frase successiva -«e comprese molte provincie del mondo» - pare proprio un calco dell’orosiano «plurimis infusa provinciis».
[221] Ancora da Orosio VII, 21, 5, più che da Girolamo: Matteo però non mette in diretta relazione il diffondersi del male con la persecuzione dei cristiani, come fa invece Orosio: «Exeritur ultio violati nominis Christiani…».
[222] Ancora da Orosio VII, 22, 1-2.
[223] A suo modo più modesto l’autore del Liber regiminum Padue, p. 368, faceva il confronto con le piaghe d’Egitto ed altre “minori”: «Hac clade multae fuerunt destitutae civitates; in castris non audiebantur nisi voces querulae, dolores et ploratus, adeo quod clades, quae fuit tempore Pharaonis, David et Ezechiae, poterat respectu huius pro nihilo reputari».
[224] Vedi supra testo corrispondente alla nota 183.
[225] Già J. BurckhardtLa civiltà del Rinascimento in Italia Firenze 1968, p. 478, aveva notato che: «I cronisti fiorentini si mostrano fieramente avversi, anche se sono costretti a menzionare quel delirio [scil. il ricorso all’astrologia], perché s’innesta nelle tradizioni patrie. Giovanni Villani ripeté più d’una volta: «nessuna costellazione può sottoporre alla necessità il libero volere dell’uomo, né il consiglio di Dio»; Matteo Villani biasima l’astrologia come un vizio che i Fiorentini avrebbero ereditato dai loro antenati gentili, i Romani».
[226] G. Villani, XII, lxxxiv, pp. 485-86: «Ma nnoi dovemo credere e avere per certo, che Idio promette le dette pestilenze e ll’altre a’ popoli, e città e paesi per pulizione de’ peccati, e non solamente per corsi di stelle, ma talora, siccome signore dell’universo e del corso del celesto, come gli piace; e quando vuole, fa accordare il corso delle stelle al suo giudicio».
[227] Decameron Introduzione 8. Branca Boccaccio medievale…, p. 34 richiama anche Introduzione 25: «Alcuni erano di più crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere contro alle pistilenze migliore né così buona come il fuggir loro davanti: e da questo argomento mossi, non curando d’alcuna cosa se non di sé, assai e uomini e donne abbandonarono la propria città, le proprie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui o almeno il lor contado, quasi l’ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pistolenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa intendesse, o quasi avvisando niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta», per concludere che il Boccaccio è per una spiegazione provvidenziale. A noi pare che si debba distinguere tra le cause prossime, tra cui può rientrare la congiunzione astrale, e la causa ultima, che risale sempre alla volontà divina; della prima si dice in Introduzione 8; della seconda in Introduzione 25; in ogni caso il primo passo non può essere dimenticato. Notiamo qui di, passaggio - a proposito di Introduzione 25 - che il rimedio suggerito dal buon senso di lasciare la città per luoghi più salubri è marchiato anche dal Villani come vano tentativo, «biasimato da’ discreti», di sottrarsi alla mano di Dio.
[228] Sulla provenienza dall’India concordano altre testimonianze di area francese; cf. Biraben Les hommes et la peste…, 1, p. 50.
[229] Agnolo, p. 555.
[230] Vedi supra testo corrispondente alle note 52-63.
[231] «Tra gl’infedeli cominciò questa inumanità crudele, che le madri e’ padri abbandonavano i fligliuoli, e i figluoli le madri e’ padri, e l’uno fratello l’altro e gli altri congiunti: cosa crudele e maravigliosa e molto strana alla umana natura, detestata tra i fedeli cristiani, nei quali, seguendo le nazioni barbare, questa crudeltà si trovò».
[232] Del tutto opposto il giudizio del Breve Chronicon Flandriae, p. 16: «Et ideo innumerabilis multitudo hominum mortua est carnali affectione devota, ac etiam pietate et caritate nota, que si non visitasset ad tempus, forte evasisset».
[233] Vedi da ultimo G. Zanella Machiavelli prima di Machiavelli Ferrara 1985, pp. 96-102.
[234] R. Romano Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento Torino 1971, pp. 21-22; J. Day Crisi e congiunture nei secoli XIV-XV, in La Storia, I, p. 250; più sotto (pp. 250-51) mette in parallelo «i lamenti di Matteo Villani sugli effetti scandalosi della peste nera a Firenze» con analoghe posizioni assunte dal poeta John Gower e da William Langland.
[235] Mollat I poveri nel Medioevo, p. 226; ma cf. Capitani, che nell’Introduzione, p. XXXIII, richiama la necessità di spiegare il passo «nell’ottica culturale del cronista». Nota che la peste segna, nell’economia stessa del volume del Mollat, un momento basilare, «catastrofico» (Capitani, p. XXX), assunto ad inaugurare l’ultima parte, la quarta, del libro; così lo studioso francese riprende ed aggiorna Matteo Villani.
[236] Burckhardt La civiltà del Rinascimento in Italia, pp. 76-77.
[237] Ad es., e con la medesima meraviglia, da Jean de Venette, pp. 215-16: «Et quod iterum mirabile fuit: nam cum omnis abundantia omnium bonorum esset, cuncta tamen cariora in duplo fuerunt, tam de rebus utensilibus quam de victualibus, ac etiam de mercimoniis et mercenariis, et agricolis et servis; exceptis aliquibus hereditatibus et domibus quae superfluae remanserant his diebus»; cf. Graus Pest, Geißler, Judenmorde, p. 16.
[238] R. Fossier Crisi di crescita in Europa (1250-1430), in Storia del Medioevo, a cura di R. Fossier, III. Il tempo delle crisi 1250-1520, Torino 1987, pp. 79-80: «Lo schema di una crisi agraria «classica» è ben noto: un raccolto mediocre (che ipoteca il successivo) comporta un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari; tale aumento intacca le disponibilità finanziarie degli acquirenti, rurali o urbani, che sono costretti a ridurre altri acquisti, provocando il ristagno e la paralisi dell’artigianato o del commercio; a tale livello, di conseguenza - ma anche in campagna -, i salari, in mancanza di lavoro, rimangono bassi e limitano le possibilità di acquisto del lavoratore. Ma lo schema in questione, tipico del periodo «moderno», non funziona per i secoli XIV e XV. Ho detto in precedenza che i salari non diminuivano o addirittura aumentavano a causa del forte decremento demografico… La «forbice» dei prezzi e dei salari, almeno in campagna, non assume dunque l’aspetto di una curva-prezzi in ascesa e di una curva-salari decrescente, ma esattamente il contrario. Ovunque sia stato possibile delinearla, la tendenza è indiscutibile». Sembra una esegesi del passo di Matteo.
[239] Artifoni La consapevolezza di un nuovo assetto, pp. 83, 87-88.
[240] Borst Il terremoto del 1348, p. 19: «Con l’aiuto della storia noi potremmo vivere consapevolmente, come già fanno altri. In Cina e in Giappone moderni geofisici e storici hanno compilato adeguate cronache dei terremoti del loro paese… Conoscenze scientifiche ed esperienze di ogni giorno cooperano nel lontano Oriente a preparare la popolazione non ad uno shock isolato, ma ad una minaccia continua»; p. 53: «Bisognerebbe rispondere alla sfida in modo simile al tardo Medioevo, con la comune premura di molti, con grande respiro e sguardo volto a tutti gli uomini»; p. 58: «Ciò che tremava sotto i loro piedi era la vita, che muove anche i nostri cuori».
[241] Green Chronicle into History, p. 37; vedi anche G. Aquilecchia Villani Giovanni «Enciclopedia Dantesca» 5 (1976), pp. 1013-16.
[242] G. Aquilecchia Aspetti e motivi della prosa trecentesca minore, in Aquilecchia Schede di italianistica Torino 1976, p. 14, rileva le novità stilistiche in M. Villani, che si segnala per «un rispetto notevole per i nessi logici e temporali»; vedi anche Aquilecchia Villani Matteo, «Enciclopedia Dantesca» 5 (1976), pp. 1016-17; è in definitiva l’esatto contrario di quanto vedeva R. Palmarocchi I Villani (Giovanni, Matteo e Filippo Villani). Secolo XIV Torino 1937, pp. 90-91: «Il più grave difetto della Cronica di Matteo è la mancanza di una organica fusione tra ragionamento e racconto. Le sue osservazioni filosofiche sono per lo più esposte nei Proemii ai singoli libri; seguono i fatti, ordinati quasi sempre cronologicamente e, nonostante qualche tentativo mal riuscito di coglierne le linee generali, scelti senza troppo badare al loro valore storico».
[243] Capitani Motivi e momenti di storiografia…, pp. 778-79.
[244] N. Rodolico Introduzione a Marchionne, p. XCIX: «A lui mancava quella preparazione artistica, per la quale conservando le naturali doti di popolano scrittore evitasse i difetti».
[245] Marchionne, p. 230: «E non bastava solo gli uomini e le femmine, ma ancora gli animali sensitivi, cani e gatte, polli, buoi, asini e pecore moriano…»; pp. 231-32: «Tutte le frutta nocive vietarono a entrare nella città, come susine acerbe, mandorle in erba, fave fresche, fichi ed ogni frutta non utile e non sana»; p. 232: «Di questa mortalità arricchirono speziali, medici, pollaiuoli, beccamorti, trecche di malva, ortiche, marcorelle ed altre erbe…».
[246] Marchionne, p. 230.
[247] Ibid., p. 232; corsivi miei.
[248] I propositi dichiarati e lo schema generale facevano dire al Massèra che si tratta di un opera storiograficamente irrilevante, mentre Gherardo Ortalli nota che poi sono gli stessi fatti a mutare sia la struttura programmatica sia il valore della cronaca; cf. A. F. Massèra nella prefazione alla sua ed. della Marca a p. XXXII; G. Ortalli Aspetti e motivi di cronachistica romagnola «Studi Romagnoli» 24 (1973), pp. 384-85 e Repertorio della cronachistica emiliano-romagnola…, pp. 57-61.
[249] Battagli, pp. 54-55.
[250] Battagli, p. 9; cf. Zanella Machiavelli…, pp. 125-26.
[251] Breve Chronicon Flandriae, pp. 14-26.
[252] Vedi ancora per un buon inquadramento A. Coville Gilles li Muisis, abbé de Saint-Martin de Tournai, chroniqueur et moraliste «Histoire littéraire de la Françe» 37 (1937), pp. 250-324.
[253] Ibid., in particolare pp. 281, 283, 304.
[254] Gilles le Muisit, p. 224: «fama tamen fuit quod ubique, in tota Alamannia et in regnis aliis aut combusti sunt, aut decapitati, aut aliis variis modis sunt interfecti. Certum est quod in comitatibus Lotharingie et Bari combusti fuerunt omnes qui ibidem fuerunt reperti». Nota opportunamente Graus Pest, Geißler, Judenmorde, p. 215, che l’alternanaza tra notizie certe e dicerie è corrente in Gilles. Vedi ancora A. Coville Ecrits contemporains sur la peste de 1348 à 1350 «Histoire littéraire de la France,» 37 (1937), p. 293; numerosissimi gli episodi del genere, com’è noto; per una rapida sintesi vedi Biraben Les hommes et la peste…, 1, pp. 57-65; fu, in un bilancio conclusivo, in scala europea, «le plus grand mouvement de violence contre les juifs qu’ait connu l’Europe au Moyen Age» (p. 64).
[255] Annales S. Albini Andegavensis, p. 40: «Et in provincia Turonensi mitius se habuit quam alibi communiter»; vedi anche E. Farge La peste noire en Anjou 1348-1362 «Rev. Anjou» 3/1 (1854), pp. 94-96.
[256] Gilles le Muisit, p. 104.
[257] Cf. il passo di Heinrich von Diessenhofen, p. 83, all'anno 1351: «Et quia cleri devocio defecit, laycorum fides excrescat»; sul quale richiama l’attenzione Graus Pest, Geißler, Judenmorde, p. 140.
[258] Gilles le Muisit, pp. 222-23, 226-48; cf. Coville Documents su les Flagellants, pp. 390-94, 398-99; Biraben Les hommes et la peste…, 1, pp. 68-69. Non mancarono le accuse di agire in quel modo «propter commodum et temporale lucrum» (Chronicon comitum Flandrensium, p. 226); vedi anche Coville Documents su les Flagellants, p. 403.
[259] Cf. Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 64; Mollat I poveri nel Medioevo, p. 225.
[260] Graus Pest, Geißler, Judenmorde<, p. 138.
[261] Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 48.
[262] Cf. Mollat I poveri nel Medioevo, p. 227.
[263] Gilles le Muisit, pp. 257-58: «de potentioribus et ditioribus… pauci aut nulli decesserunt… et maxime in vicis forensibus et vicis parvis et strictis plus moriebantur quam in vicis latis et locis amplis».
[264] Cf. Biraben Les hommes et la peste…, 2, p. 100.
[265] Gilles le Muisit, pp. 255-57.
[266] Ch.-V. Langlois La vie en France au moyen âge de la fin du XII e siècle au milieu du XIV e  siècle, Paris 1924-282, 2, p. 331; Graus Pest, Geißler, Judenmorde, p. 135.
[267] Cf Giovanni di Winterthur, pp. 238-39; Heinrich von Herford, pp. 265, 268; in generale Graus Pest, Geißler, Judenmorde, p. 144-45.
[268] Jean le Bel, 1, pp. 224-26; 2, p. 185.
[269] Cf. anche Coville Documents su les Flagellants, p. 398.
[270] Froissart Chroniques, ed. G. T. Diller, Genève 1972, pp. 894-96
[271] Guerchberg La controverse…, pp. 3-40; Biraben Les hommes et la peste…, 1, p. 65.
[272] Das Buch der Natur , pp. 107-13.
[273] Possibile allusione, mi suggerisce Andrea Tabarroni, ad Ockham.
[274] Krüger Krise der Zeit…, pp. 871-77.
[275] Annales Frisacenses. Continuatio, p. 67
[276] Borst Il terremoto del 1348, p. 24.
[277] Mi discosto qui fortemente dal commento del Borst Il terremoto del 1348, p. 20: «Ciò che accadeva stavolta non era previsto dalla Bibbia: la Chiesa di Dio era lesa. Lo scrivente annotava l’inconcepibile, perché anche i lettori delle età successive sapessero che era accaduto e poteva accadere di nuovo», che non mi sembra fondato, perché, pur partendo dalla constatazione di un fodamento biblico nel passo, finisce proprio col negargli validità didattica ed escatologica.
[278] Continuatio Novimontensis, pp. 673-76.
[279] Cf. quanto dice per Trento Giovanni da Parma, p. 51: «multae personae insaniebant».
[280] Ibid., pp. 674-76.
[281] Die Kölner Weltchronik, 1273/88-1376, ed. R. Sprandel, MGH SS n. s. 15 (1991), pp. 88-93.
[282] Con una notazione cronologica singolare, p. 92: «circa annum Domini MCCCL. et duobus annis sequentibus», che l’editore suggerisce di intendere come un errore: i due anni «precedenti», non seguenti.
[283] Cf. supra nota 110.
[284] P. 90: «Que quidem perniciosa et execranda societas velud zizania inter triticum in agrum ecclesie auctore dyabolo, humani generis inimico, seminata ad instar male segetis subito pullulantis sub brevi temporis inicio in tantam convaluit multitudinis ubertatem…».
[285] P. 91: «… in totum evanuit quasi fumus»; «…incensis domibus et habitacionibus ipsorum et thesauris omnibus spoliatis».
[286] Cronicae S. Petri Erfordensis moderna. Continuatio III, in Monumenta Erphesfurtensia.…, pp. 378-82.
[287] Franciscus Pragensis, pp. 449-52.
[288] Nota Borst Il terremoto del 1348, pp. 31-32: «In realtà il regno di Boemia non fu il solo a rispondere alla crisi del 1348 con la territorializzazione e la burocratizzazione della società e della scienza. A questo nuovo ordine doveva appartenere il futuro dell’Europa, ma nel presente del XIV secolo esso non si affermò. Oltre i progetti divergenti dei dotti e dei politici resisteva ancora un’intrepretazione del mondo che li univa, quella religiosa».
[289] Carpentier Une ville…, p. 222: «… malgré le désorganisation qui a paralysé pendant quelques semaines la vie politique d’Orvieto en 1348, l’influence de la peste paraît minime, à longue échéance, sur les événements eux-mêmes. Elles est beaucoup plus déterminante… sur l’atmosphère psychologique dans laquelle ils se sont déroulés»; p. 224: «Sur le plan psychologique, son rôle est même capital: elle fait comprendre aux Orviétans que l’épidémie de 1348 n’a pas été un accident unique et exceptionnel, mais que la menace est toujours présente».
[290] Borst Il terremoto del 1348, pp. 17-20. Cf, per un parallelo, Figluolo Il terremoto del 1456; cf. 1, p. 68: «Il terremoto è un evento locale, casuale e naturale, da non caricare di troppo reconditi significati generali, e che, si sa, verrà presto assorbito e dimenticato».