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sabato 4 settembre 2010

Ma Gibson è fin troppo buono i Maya erano ancora più feroci

Nell'anno 2000 una spedizione archeologica al Cerro Llullaillaco, sulle Ande, trovò la mummia perfettamente conservata di una bambina che gli scopritori chiamarono Cara de Angel, «viso d'angelo». Era stata sotterrata ancora viva a testa in giù ai piedi dell'altare sacrificale di uno degli innumerevoli e sanguinari dèi degli Incas. Non è altro che uno dei tantissimi ritrovamenti con cui gli archeologi via via confermano quel che i conquistadores spagnoli scrissero nei loro rapporti alla Corte iberica.
Il recente film di Mel Gibson, Apocalypto, non fa che narrare quel che nessuno ha mai descritto finora al cinema: le civiltà precolombiane si basavano sui sacrifici umani praticati in scala industriale. Basti pensare che, solo per consacrare il tempio dedicato al dio Huitzilopochtli, nel 1486, gli Aztechi nella loro capitale, Tenochtitlán, squartarono ben settantamila vittime in una cerimonia che durò giorni e giorni. Possiamo solo immaginare l'orrore e il raccapriccio provati dagli spagnoli quando si ritrovarono a camminare su un tappeto di decine di migliaia di teschi umani (non è un'esagerazione: ai piedi del tempio di cui abbiamo detto ne contarono esattamente centotrentaseimila; il film, accusato di eccessiva violenza, tiene, al contrario, la mano leggera rispetto alla storia).
Ciò spiega come potè un pugno di avventurieri (letterale: Cortés aveva con sé solo una settantina di cavalieri) aver ragione di imperi colossali e perfettamente organizzati che disponevano di milioni di guerrieri. Infatti, con i conquistadores si allearono immediatamente tutte quelle tribù il cui unico scopo, secondo i dominanti Maya, Incas e Aztechi, era quello di fornire carne fresca per gli interminabili sacrifici in cima alle piramidi a gradoni.
Gli Aztechi, per esempio, chiamavano xochi-yayotl, «guerre fiorite» quelle che scatenavano ogni primavera al solo scopo di procurare prigionieri da sacrificare. Tanto per far capire la situazione locale nell'America precolombiana, si ponga mente al fatto che lo stesso Cristoforo Colombo fu accolto con giubilo dagli arawak, eterne vittime dei cannibali caribi. Hernán Cortés, appena sbarcato a Vera Cruz, si vide subito offrire alleanza dai cempoaltechi, dai totonachi, dai tlazcaltechi, dai texcucani, dagli zapotechi e dai taraschi. Tutti popoli stufi di fare da carne da macello agli Aztechi.
Lo stesso accadde a Francisco Pizarro: contro gli Incas ebbe compagni i cañari, i chachapuya, gli huanca e soprattutto gli yana, che oltre a servire da vittime sacrificali erano pure schiavi della «razza superiore» inca. Più gli archeologi procedono con gli scavi e più si apprende sui sacrifici umani, i cui modi erano i più vari. Di solito, il sacerdote apriva il petto alla vittima e le estraeva il cuore ancora palpitante, di cui mangiava una parte. Il cadavere veniva subito scuoiato e il sacerdote ne indossava la pelle. Indi, il corpo veniva fatto rotolare giù dalle scale, in fondo alle quali si scatenava una festosa gazzarra per appropriarsene. Il «fortunato» possessore poteva mangiarselo ritualmente con gli amici. Il rifornimento di vittime era assicurato, come si è detto, dalle guerre all'uopo scatenate e dalle razzie periodiche (come si vede in Apocalypto).
Ma erano particolarmente apprezzati anche i bambini, la cui purezza e innocenza erano vieppiù gradite alla divinità. I modi di uccisione, come abbiamo detto, variavano: sono stati trovati resti di vittime arse vive, altre amputate fino alla morte, altre ancora stritolate sotto pesanti lastroni. Le analisi chimiche sugli stucchi dei templi aztechi hanno scoperto che nella composizione entravano ferro e albume impastati con sangue umano. Quest'ultimo, insieme alla carne, era anche parte di un intingolo molto apprezzato a base di mais, il tlacatlaolli.
Ma non si pensi che l'efferata barbarie di Maya, Incas e Aztechi riguardasse solo le suggestive cerimonie religiose, perché anche la vita quotidiana sotto di loro era un vero e proprio incubo totalitario (è antipatico citarsi, ma è lo scarso spazio a costringerci a rimandare i lettori agli appositi e corposi capitoli del nostro libro I mostri della Ragione-Ares). Di solito, gli intellettuali relativisti glissano sulla realtà dei sacrifici umani e rimangono estasiati davanti alle opere ciclopiche e ai perfetti calendari solari delle civiltà precolombiane.
Anche la loro arte li manda in visibilio. Si potrebbe osservare che pure i nazisti facevano opere ciclopiche, erano perfettamente organizzati e praticavano il genocidio sistematico ma nessuno si sognerebbe di lodarli. Per quanto riguarda l'arte, fu un calibro come Arnold Toynbee a notare che il tema preferito dagli artisti maya, incas e aztechi erano, ossessivamente, gli scuoiamenti, gli squartamenti, le teste mozzate.
Così scriveva Franco Cardini proprio su queste pagine nel 1987: «Spiace davvero di non poter mettere certi studiosi alla prova». E proseguiva dicendo sostanzialmente che, ci fossero stati «certi studiosi»" al posto delle vittime dei Maya, degli Incas e degli Aztechi, forse il loro giudizio sarebbe alquanto diverso. Ebbene, un sano esercizio per cercare di comprendere tutta questa storia è provare a mettersi nei panni degli spagnoli cinquecenteschi quando si trovarono di fronte agli spettacoli che abbiamo succintamente descritto.
È quel che ha fatto Mel Gibson con un film che, la si pensi come si vuole, è davvero grande cinema. Gibson, infatti, non è un «idiota» ma un cattolico professo, uno dei pochissimi del suo ambiente. Come il protagonista del suo The Passion, Jim Caviezel, il quale in un'intervista lamentò che essere cattolici nel giro hollywoodiano è come «andare in giro con un bersaglio sulla schiena con su scritto “sparatemi“». Questo è il vero motivo, temiamo, per cui Gibson si tira addosso, ogni volta, critiche e insulti (ma il botteghino è galantuomo). Noi italiani, invece, per «grande cinema» intendiamo i cosiddetti «film di Natale» o quelli di Nanni Moretti. Contenti noi...

giovedì 2 settembre 2010

La rivincita di Guareschi di Alessandro Gnocchi

Apologeta tra i massimi, cattolico tutto d’un pezzo, emarginato dai progressisti anche cattolici, ritorna l’autore di Don Camillo. Gnocchi e Palmaro, collaboratori de "il Timone", curano la pubblicazione dei racconti di Guareschi. Ed è un successo.

[Da "Il Timone" n. 11, Gennaio/Febbraio 2001]

Poteva sembrare un’impresa azzardata. Eppure, accostare le storie di Giovannino Guareschi al Vangelo si è mostrato molto più semplice di quanto ci si potesse aspettare. Così, "Don Camillo, il Vangelo dei semplici" ha cominciato a camminare e il suo successo, nel giro di un anno, ha chiamato l’uscita di "Qua la mano don Camillo. La teologia secondo Peppone".

Il primo nel 1999, il secondo nel 2000, entrambi editi da Ancora. E, se si vuole, il vero miracolo sta proprio qui. Per la prima volta, il maggior scrittore italiano che parla di temi cattolici, cioè un cattolico scrittore più che uno scrittore cattolico, viene pubblicato da una casa editrice cattolica per entrare nel mondo dei lettori cattolici. Alla fine del gioco di parole, che forse può anche far sorridere, non rimane che piangere. Non resta altro da fare pensando al mondo della sedicente cultura cattolica che, per sessant’anni, non si è accorta di uno scrittore impegnato a raccontare le vicende di un prete e a far parlare il Cristo crocifisso. Pazienza se si fosse trattato di uno sconosciuto. Ma nel caso di Guareschi, risulta davvero complicato ipotizzare la buona fede nell’ignorare i milioni di copie dei suoi libri venduti in tutto il mondo. I due volumi pubblicati da Ancora hanno voluto colmare almeno in piccola parte questo vuoto. Ognuno accosta una serie di racconti tratti da Mondo piccolo a un brano di Vangelo attraverso un commento di uno studioso o di un lettore appassionato di Guareschi. Ormai, l’elenco delle firme comincia a essere lungo. Ma basta ricordare il cardinale Giacomo Biffi, il vescovo di Como Alessandro Maggiolini, Giorgio Torelli, Giovanni Lugaresi, Michele Brambilla. Tutti, alla fine, dicono di essere passati attraverso la stessa esperienza. Quella di misurarsi innanzitutto con la propria fede e con le ragioni del proprio credere.

Non è facile incontrare qualcuno che, come Guareschi, costringe ad applicare l’intelligenza alla vita di tutti i giorni e, dunque, ai grandi temi della vita, della morte, del destino. E, ancora più difficile, in un Paese ormai neanche più sedicente cattolico, è difficile trovare qualcuno che lo faccia stando con entrambi i piedi nell’ortodossia. A questo proposito vale la pena di segnalare qualche arricciamento di naso in casa cattolica. Alcuni sedicenti intellettuali si stupiscono che i commenti ai racconti fioriscano di riferimenti a San Tommaso, a Sant’Agostino, a Pascal, a Chesterton. L’hanno considerata una provocazione. C’era da aspettarselo e questo non scandalizza. Al più, provoca un fastidioso, ma brevissimo solletico. Colpisce invece che questi signori non abbiano colto il vero aspetto provocatorio dell’operazione. Quello di accostare Guareschi a qualcosa di molto più grande di tutti i teologi messi insieme: il Vangelo. Ma, in fondo, è meglio così. I sedicenti intellettuali continuino pure a pensare di avere l’esclusiva sul cavillare teologicante. Il Vangelo lo lascino ai poveracci che cercano di fare il loro meglio nella vita di tutti i giorni.

Quel buco nero tra Antichità e Rinascimento di Stefano M. Paci

Altro che “secoli bui”: donne a capo di conventi maschili, maggior età a 14 anni, predicatori di crociate che leggono il Corano. Ecco il Medioevo di Régine Pernoud, la storica francese già direttrice degli archivi nazionali di Parigi i cui libri hanno tirature da bestseller.

[Da «30Giorni», anno III, n. 1, gennaio 1985, pp. 56-59]

Voleva diventare bibliotecaria e si e iscritta alla scuola di Chartres. Lì, ha alzato gli occhi e ha incontrato il Medioevo. Non è più diventata bibliotecaria ma direttrice del Museo della Storia di Francia. Dirige attualmente il Centro Giovanna d’Arco a Orleans. Quando non ê intenta alla stesura dei suoi volumi con i quali ha dato una nuova fisionomia al Medioevo, tiene conferenze in giro per il mondo. Affollatissime, e non solo da specialisti. I suoi libri hanno tirature da bestsellers. Strano, per una studiosa. Ma lei è Régine Pernoud.

È stata amica di Henry Matisse («Ci incontravamo spesso negli ultimi dieci anni della sua vita. L’ho visto dipingere la cappella di Vence. Era straordinariamente attratto dal sacro»). Lo è del cardinale Lustiger («Un uomo eccezionale. I giovani se ne accorgono. Lo chiamano familiarmente ‘Lu’. Peccato che sia forse troppo solo nella Chiesa di Francia»). Lo è del padre Dc Lubac («Penso che sarebbero sufficienti la Bibbia e i suoi libri. Ma forse è meglio non scriverlo»).

Nel suo cuore pare trovar eco, con intelligente curiosità, tutto ciò che rispetta l’uomo. Innanzitutto il Medioevo, la grande passione della sua vita.

Quando parla del Medioevo si infervora. «Anch’io da giovane ero convinta fosse un periodo di ignoranza e sottosviluppo. Per forza. I libri di storia lo liquidano in poche pagine. Noi non sopporteremmo una contabilità che trascuri mille pagine dal registro di bilancio, ma non ci stupiamo di presuntuosi bilanci storici che dimenticano un millennio. Anche studiosi cattolici parlano della Chiesa come se iniziasse nel XVI secolo. Jean Delumeau, nel suo Le christianisme il va à mourir, traccia una sintesi storica che tralascia completamente il Medioevo. Curiosamente, il rinnovamento attuate degli studi medievali viene dagli americani: hanno una visione più completa. Gli europei sono più attenti alle questioni che riguardano l’arte che non al dinamismo dimostrato dalla tecnica nell’XI e XII secolo. Ma questi aspetti sono fondamentali per comprendere le dinamica di una società così complessa». Complessa? Quotidianamente ascoltiamo riflessioni come ‘non siamo più nel Medioevo’ o ‘c’è un ritorno al Medioevo’. «Qualcuno si sorprenderà — aggiunge ironicamente — sapendo che per ben due volte in assise internazionali (a Parigi nel 1974 in sede dell’Ocse e a Dakar nel 1980) ci si è rivolti a medievalisti perché studiassero soluzioni tecniche per l’agricoltura del Terzo Mondo.
Un medievalista ha persino intitolato un suo libro La rivoluzione industriale del Medioevo: una rivoluzione operata senza rinchiudere i bambini nelle fabbriche perché lavorassero per un salario di fame».

Purtroppo per molti il Medioevo è materia privilegiata: si può dire tutto ciò che si vuole nella quasi certezza di non essere smentiti. «È vero: mai nessuno parla della libertà e dell’autonomia che allora veniva data ai giovani — la maggior età per i ragazzi era a 14 anni e per le ragazze a 12 —; o della quantità di manoscritti di medicina e di scienze naturali usciti dai monasteri; o dell’ordine di Fontevrault che aveva due monasteri, uno per uomini e uno per donne, e tra i due si ergeva una chiesa, unico luogo di incontro per monache e monaci. E questo doppio monastero fu posto sotto l’autorità non di un abate, ma di una badessa. Quest’ultima, per volontà del fondatore, doveva essere una vedova, cioè una donna che avesse fatto un’esperienza matrimoniale. Tutto ciò senza provocare nessuno scandalo nella Chiesa. Ebbe anzi un grande successo: venti anni dopo la fondazione, quest’ordine era costituito da 5 mila fra monaci e monache. E, per completare il quadro, aggiungiamo che la prima badessa, Petronilla di Chemillé, aveva allora ventidue anni».

Donne a capo di comunità maschili. Eppure, le lotte di un certo femminismo erano per non ricondurre le donne all’epoca medievale in cui erano vessate e trattate come schiave. E la Chiesa poi, così ostile alle donne. Fortuna che il Concilio di Trento ha loro concesso di possedere l’anima.

«Quante sciocchezze. Eppure ho sentito anche una nota scrittrice sostenere che la Chiesa ha dato l’anima alle donne solo nel XV secolo. E così si sarebbero battezzati, confessati, ammessi all’eucarestia degli esseri sprovvisti di anima! In tal caso, perché non degli animali? Strano che i primi martiri che sono stati onorati come santi siano donne e non uomini: Sant’Agnese, Santa Cecilia, Sant’Agata e tanti altri. Non è sorprendente che ai tempi feudali la regina venisse incoronata come il re, a Reims generalmente (ma a volte anche in altre cattedrali) eppure sempre dalle mani dell’arcivescovo di Reims? In altre parole, si attribuiva all’incoronazione della regina altrettanto valore che a quella del re. Eleonora d’Aquitania e Bianca di Castiglia hanno dominato il loro tempo, e potevano esercitare un potere incontestato non solo qualora il re fosse deceduto, ma anche nel caso fosse assente o malato. Nel Medioevo, anche donne non provenienti da famiglie nobili hanno goduto nella Chiesa, e attraverso la loro funzione in essa, di un potere straordinario. Alcune badesse agivano come autentici signori feudali e il loro potere era rispettato al pari di quello degli altri signori; alcune donne indossavano la croce come i vescovi; sovente amministravano vasti territori che includevano villaggi e parrocchie. Ciò significa che nella stessa vita laica alcune donne, per le loro funzioni religiose, esercitavano un potere che oggi molti uomini potrebbero invidiare».

Sorprende venire a sapere che l’enciclopedia più nota del XII secolo è opera di una religiosa, la badessa Herrada di Landsberg. E che, se Eloisa leggeva in greco e latino, un’altra religiosa, Gertrude di Hefta, era felice nel XIII secolo, di passare dal grado di ‘grammatica’ a quello di ‘teologa’, vale a dire che dopo aver percorso il ciclo di studi preparatori, si apprestava a passare al ciclo superiore come si faceva all’università. Ma le donne che non erano né alte dame né badesse, né tantomeno monache, bensì contadine, o madri di famiglia, o che esercitavano un mestiere?

«Dai documenti che abbiamo — risponde la studiosa — emerge un quadro sorprendente. Le donne votavano come gli uomini nelle assemblee cittadine e in quelle dei comuni rurali.
«Negli atti notarili, inoltre, è molto frequente trovare donne sposate che agiscono per conto proprio, potendo possedere ed amministrare i loro beni, per esempio avviando un negozio o un commercio. Gli atti delle inchieste amministrative ordinate da San Luigi tra il popolo minuto iniziativa senza precedenti e, del resto, senza seguito, ci mostrano una folla di donne esercitanti i più vari mestieri: maestra di scuola, medico, farmacista, gessaiuola, tingitrice, copista, miniaturista, rilegatrice…».

Chissà se coloro che in buona fede auspicano che la donna finalmente esca dal Medioevo si accorgono di desiderare che la donna possa ritrovare la dignità che ebbe al tempo della regina Eleonora e della regina Bianca? La Régine del Medioevo non risparmia neanche gli orrori dell’Inquisizione medievale alla sua passionata rivalutazione.

«Ciò che rende diversa – riprende Madame Pernoud – un’epoca dall’altra è la differente scala di valori che ne permea la mentalità. In storia è elementare tenerne conto, ossia rispettarla. Altrimenti lo storico si trasforma in giudice.
Sotto tanti aspetti l’Inquisizione fu la reazione difensiva d’una società per cui, a torto o a ragione, la preservazione della fede appariva non meno importante della preservazione della salute fisica ai nostri giorni.
«Di qui la generale riprovazione che l’eresia a quel tempo suscitava: l’eresia rompeva un accordo profondo cui aderiva l’intera società; e tale rottura appariva estremamente grave. In realtà, per il credente e la maggioranza del Medioevo, la Chiesa è perfettamente nel suo diritto quando esercita un potere di giurisdizione, in quanto depositaria e custode della fede. Ed è generale l’accettazione di sanzioni quali la scomunica, l’interdetto, che era una specie di scomunica generale. In un intero territorio per costringere all’obbedienza chi ne era responsabile, veniva sospesa ogni cerimonia religiosa: le campane cessavano di suonare, i sacramenti non venivano più amministrati e tutto questo rendeva la vita letteralmente intollerabile per le popolazioni. Ma di fronte all’eresia catara, che poggiava su un intollerabile dualismo tra un universo materiale, creato da un dio malvagio, e le anime, create da un dio buono, e che si spinge fino a vedere nel suicidio la perfezione suprema, nel 1231 si ricorse all’Inquisizione. Quando fu decisa pareva accettabile come mezzo di difesa, ma, come tutte le soluzioni facili, non era affatto una soluzione. Qui si coglie un esempio lampante dell’ambiguità della storia, in cui contrariamente alla immagine che se ne dà così sovente, è davvero difficile distinguere buoni e cattivi. L’Inquisizione stessa non era priva di un lato positivo nel concreto della vita pratica. Essa sostituiva la procedura d’inchiesta alla procedura d’accusa. Ma soprattutto in un’epoca in cui il popolino non è affatto disposto a scherzare con l’eretico, introduceva una giustizia regolare. In precedenza, non di rado era stata una giustizia laica, addirittura uno scatenamento di popolo, ad infliggere agli eretici le pene peggiori. Contrariamente a ciò che abitualmente si pensa, la Spagna rifiutò l’Inquisizione. Re Ferdinando III, cugino di San Luigi, re di Francia, nel XIII secolo dichiarò: ‘Nel mio regno non vi sono eretici. Io sono il re di tre religioni: la cristiana, l’ebraica e la musulmana’. Queste parole sono scritte in 4 lingue sulla sua tomba e la Chiesa cattolica lo ha proclamato santo. Con tutto ciò resta il fatto che per noi l’istituzione dell’Inquisizione è l’aspetto più inquietante di tutta la storia del Medioevo. Sono stata motto contenta che il Concilio Vaticano II abbia riconosciuto che l’Inquisizione era un facile ricorso al potere temporale per un fine spirituale e che se nel XIII secolo aveva ancora l’aspetto di vigilanza sui cristiani, è nel XV e XVI secolo che se ne abusa, servendosene a fini politici contro ebrei e mori».

Il Rinascimento è la decadenza: non fu il suo amico Matisse a dirlo?

«Proprio lui — La Chiesa medievale era realmente penetrata dal Vangelo. Non era più così nel XVII secolo. Basti vedere il diverso approccio all’evangelizzazione. La Chiesa del V e VI secolo aveva saputo ‘passare ai barbari’ e, dopo che l’abate di Cluny nel 1141 fece tradurre il Talmud e il Corano, fu fatto obbligo a tutti i predicatori di crociate di leggere il Corano. L’evangelizzazione dell’America del Sud, invece, fu fondata sul principio che i selvaggi dovessero prima diventare uomini e poi cristiani, che fosse necessario prima inculcare loro l’umanesimo, poi il cristianesimo. Ma la sola, vera liberazione è il Vangelo, che poi crea l’umanesimo e le altre forme di civilizzazione. Oggi quel principio pare ridicolo. Ma c’è qualcuno che nuovamente afferma ‘prima di fare dei cristiani, bisogna fare dell’uomo un essere libero’, come se il Vangelo non fosse la fonte della liberazione».

Non saranno costoro un po’ troppo simili a quegli intellettuali che passando davanti a Notre Dame — come racconta Regine Pernoud in un suo libro — si recavano ad un convegno dal titolo: ‘Era il Medioevo civilizzato?’. Sorride. «Si potrebbe creare uno slogan: Medioevo: l’unico periodo di sottosviluppo che ha creato cattedrali. Troppo spesso la storia la fanno intellettuali che tentano di farla entrare nello schema già preparato nel loro piccolo cervello».

Madame Pernoud, fuori i nomi. «Le responsabilità sono varie. Per la Sorbona tra Plotino e Cartesio non c’è nulla. Ma le maggiori vanno imputate agli storici di stampo marxista: essi trattano con disprezzo i dati obiettivi poiché mettono in discussione la loro esistenza di storici. Chi, sulla scia di Marx, contrappone ancora feudalità a borghesia — errore intellettualmente necessario se si vuol mantenere ad ogni costo lo schema signori-borghesi-proletari — usa un metodo storico superato da almeno 50 anni. Il materialismo storico legge la storia in funzione del progresso: o si nega che il Medioevo fosse un’epoca di progresso o si nega il marxismo. L’errore capitale del nostro tempo è credere che la storia si faccia nei nostri cervellini, che la si possa costruire su ordinazione».

Stefano M. Paci

Perché il matrimonio è indissolubile? di Gustave Thibon

L’istituto del matrimonio è il custode della fedeltà interiore, la legge cristiana non opprime ma approfondisce e purifica l'amore. Non è l'uomo ad esser fatto per il matrimonio, ma è bensi il matrimonio che è fatto per l’uomo. Una magistrale esposizione dei fondamenti «esistenziali» del matrimonio cristiano, una risposta alle obiezioni più diffuse al principio dell'indissolubilità.

[Da AA.VV., L'amore e il matrimonio, tr. it., Vita e Pensiero, Milano 1955, pp. 85-113]

    Non è nostra intenzione esporre qui in tutti i suoi particolari l’insegnamento della teologia cattolica sulla indissolubilità del matrimonio. Supponendo che esso sia noto ai nostri lettori, ci limiteremo a ricordare i principi fondamentali e porremo in evidenza piuttosto l’aspetto psicologico ed «esistenziale» del problema. Su questo argomento come su molti altri il cattolicesimo, che pure possiede una teologia e una morale complete quanto equilibrate, non ha forse fatto quanto era necessario per giustificare i suoi principi sul terreno dell’esperienza psicologica e per rispondere a coloro che gli rimproverano per l’appunto di non tenere in considerazione l’uomo fatto di corpo e d’anima, né le condizioni concrete della sua esistenza.

Che l’uomo non divida...

    Il principio dell’indissolubilità del matrimonio è contenuto per intero nel seguente passo del Vangelo: «I Farisei andarono da lui per tentarlo e gli dissero: “È lecito all’uomo di ripudiare per qualunque motivo la propria moglie?” Egli rispose: “Non avete letto che il creatore, al principio, creò l’uomo maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascierà il padre e la madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una sola carne. Non divida pertanto l’uomo quel che Dio ha congiunto”» (Mt., XIX, 8-6). E S. Paolo, facendo eco all’insegnamento del Signore, così si esprime: «A coloro che sono sposati ordino (non io, ma il Signore) che la moglie non si separi dal marito. E se è separata rimanga senza maritarsi o si riconcilii col marito. E l’uomo non ripudii la moglie» (I Cor., VII, 10-11).
    Tale esigenza di indissolubilità si fonda su due motivi:

    1 - Sul diritto naturale. — La procreazione, che secondo la teologia tradizionale è il fine principale del matrimonio, non può nella specie umana essere abbandonata al caso di un incontro senza domani come avviene nella specie animale. Perchè il bambino non ha soltanto bisogno di essere messo al mondo e allattato durante i primi mesi di vita; la sua educazione richiede ancora per lungo tempo l’assistenza continua del padre e della madre e il calore e la stabilità di un ambiente familiare fuori del quale egli non puô armonicamente svilupparsi. Ora, la separazione degli sposi, pietre basilari dell’edificio familiare, compromette necessariamente l’educazione dei figli e, di conseguenza, l’equilibrio della società intera.

    2 - Sul carattere sacrarnentale del matrimonio — L’unione dell’uomo e della donna è inseparabile quanto quella di Cristo e della Chiesa, suo modello e prototipo. I due «che sono una sola carne» devono tendere con la loro fedeltà alla grazia sacramentale, a divenire una sola anima; e l’uomo non ha ii diritto di separare quello che Dio ha unito.
    Essendo dunque fondata su una esigenza essenziale della natura e sulla consacrazione divina, l’indissolubilità del matrimonio non ammette eccezione alcuna. La Chiesa cattolica non pronuncia sentenza di divorzio; in certi casi ben determinati (difetto di consenso, errore sull’identità della persona, consanguineità ecc.) essa si limita a constatare la nullità del vincolo matrimoniale. Null’altro essa può fare in questo campo, se non dissipare un errore: il sacramento conferito senza le condizioni necessarie alla sua validità non impegna né la Chiesa che lo amministra, né i fedeli che lo ricevono, e in tali casi le autorità religiose, anzichè separare quello che Dio ha unito, sciolgono un legame illusorio; in altri termini restituiscono di diritto ai pseudo-coniugi una libertà che non hanno mai perduta di fatto. Non si può parlare di divorzio nei casi in cui non vi fu vero matrimonio.

Le ragioni profonde dell’indissolubilità del matrimonio.

    È ovvio constatare che l’unione dell’uomo e della donna consacrata dal matrimonio risponde a una duplice finalità.
    Essa permette anzitutto l’armonico e completo sviluppo fisico e morale dei due sposi. Iddio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo». E gli diede una compagna simile a lui.
    L’uomo e la donna sono due esseri complementari; sono fatti per vivere non solo insieme, ma l’uno per l’altro; e il loro reciproco amore, la fusione dei loro destini favorisce in pari tempo la sicurezza materiale e la pienezza spirituale di entrambi. Il matrimonio è ad un tempo la forma più elementare e la base indistruttibile di ogni vita sociale.
    Con la procreazione esso assicura la continuità della specie umana e con l’infiuenza dell’ambiente familiare la sana educazione dei figli: due fini interdipendenti e paralleli. Da un lato la reciproca attrazione che unisce i due sessi ha per normale conseguenza la procreazione. «Non si sposa perchè la terra ha bisogno d’essere popolata, diceva Chesterton, si sposa perchè si è innamorati». Verissimo. Ma il comandamento: «Crescete e moltiplicatevi» è già contenuto in germe nella simpatia amorosa. E, reciprocamente, i nuovi legami che la procreazione crea tra gli sposi forniscono loro nuovi motivi di amarsi e di aiutarsi.
    Sembra tuttavia — almeno fin dove è possibile isolare due elementi così intimamente uniti neil’unità della vita concreta — che la Chiesa abbia voluto mettere l’accento sul primo proclamando l’irrevocabilità del matrimonio. La teologia tradizionale afferma energicamente che la procreazione costituisce il fine primario dell’unione coniugale e che l’amore reciproco degli sposi viene al secondo posto. È notevole il fatto che nessun altro legame affettivo, nessun altro vincolo sociale — qualunque sia il suo grado di profondità e di spiritualità — è sanzionato e coronato da un sacramento. I vincoli che uniscono l’amico all’amico, il principe al suo popolo, ecc. non sono né sacramentali né irrevocabili; è perfino possibile, a rigore, essere sciolti dai voti religiosi, ma non dalle promesse del matrimonio. L’importanza eccezionale che la Chiesa attribuisce al legame coniugale deriva anzitutto dal fatto che lo considera la sorgente immediata della vita naturale e soprannaturale dei coniugi e la base necessaria della società umana. La Scrittura non ci lascia alcun dubbio su questo argomento: «Essi saranno una sola carne». Ora, che cos’è qui la carne se non, nel senso biblico del termine, «una persona rappresentata e rivelata dall’apparenza esteriore della nostra umanità?» (1). Nel linguaggio moderno si direbbe: un solo essere di carne, una sola persona morale.
    Il che non significa una sola anima, un solo spirito. L’unione spirituale è prescritta come un dovere e un ideale; ma la semplice unione contratta con lo scambio dei consensi, anche senza amore, è sufficiente a creare la comunità coniugale e a renderne indissolubile il vincolo. Nemmeno questo vincolo è estraneo alla carne, poichè l’impotenza di uno dei coniugi genera automaticamente incapacità al matrimonio, ed ogni unione non consumata può essere sciolta su parere del Sommo Pontefice, in vista di un maggior bene spirituale.
    Ma ciò che costituisce in fondo la natura tutta particolare del vincolo coniugale è la sua partecipazione all’unione indissolubile di Cristo e della Chiesa; cosicchè una partecipazione imperfetta a tale unione, qual è quella dei pagani, lascia il loro matrimonio legittimo suscettibile di scioglimento (privilegio paolino), mentre la partecipazione totale al mistero nuziale di Cristo, qual è l’unione ratificata e consumata di due cristiani, rende il loro vincolo assolutamente infrangibile finché essi sono in vita.
    È chiaro che in ogni caso la Chiesa non prende in considerazione né l’assenza d’amore né «l’incompatibilità di carattere» per determinare il valore del legame e il suo grado di indissolubilità. E ciò perchè essa considera da un punto di vista assai alto l’individualismo e la sensibilità romantica, vede nel matmimonio ben più e ben altro che lo scambio passionale e sentimentale tra due individui, e la sua sollecitudine si estende, oltre la coppia effimera, all’insieme della Città temporale che è il corpo della Città divina. Unendosi, gli sposi non si impegnano soltanto l’uno verso l’altro, ma anche l’uno e l’altro verso una realtà di cui fanno parte e che li supera: la famiglia innanzi tutto, di cui sono la sorgente e il sostegno, e in seguito la Nazione e la Chiesa, corpi viventi di cui le famiglie sono le cellule.
    Una istituzione di sì fondamentale importanza ha bisogno d’essëre protetta contro le mille vicissitudini dell’istinto e dell’interesse personale. Se gli sposi non hanno il diritto di separarsi, ciò non riguarda tanto la coppia stessa quanto tutto quello che su di essa riposa. Il matrimonio costituisce il fondamento della comunità umana; se quello si spezza, questa si sfascia. La via che gli sposi intraprendono ha un senso unico: è la via stessa della vita temporale; l’unica uscita sta innanzi, e indietreggiare significherebbe urtare pericolosamente altri esseri trascinati dallo stesso imreversibile movimento. Il matrimonio dipende in un primo tempo dall’individuo; ma in un secondo tempo è l’individuo che dipende dal matrimonio. Ciascuno è libero di contrarre il legame secondo i propri gusti e la propria volontà, ma, dopo averlo contratto, non è più libero di infrangerlo.

Compagni per l’eternità?

    Le istituzioni sono per le persone quello che il letto di un flume è per le sue acque. La Chiesa nella sua eterna sapienza e nella sua esperienza millenaria sa che una corrente così impetuosa e intermittente qual è la passione carnale ha bisogno di un letto profondo e solido per non deviare dalla sua meta e non disperdersi in paludi fangose. Quel letto essa lo trova nel matrimonio, considerato nel duplice aspetto di istituzione e di sacramento; e appunto su questo elemento formale e sociale del vincolo coniugale la teologia classica ha posto l’accento.
    Oggi noi assistiamo al sorgere, per reazione, di una specie di mistica del matrimonio, che si preoccupa più della qualità del vincolo personale tra gli sposi che delle sue conseguenze sociali. Si tende sempre più a considerare essenza del matrimonio l’atto d’amore consacrato da Dio, grazie al quale due esseri impegnano e uniscono per sempre i loro destini. Il resto — fedeltà reciproca, procreazione e educazione dei figli, inquadramento sodale, ecc. — scaturisce da questa sorgente come il temporale procede dall’eterno. È il mito dei «compagni per l’eternità... ».
    Essendo l’uomo composto di spirito e di carne, di elementi personali e di elementi sociali, le due concezioni del matrimonio sopraccennate appaiono piuttosto complementari che opposte. È buona cosa presentare agli uornini un ideale altamente spirituale del matrimonio; ma è anche consigliabile, non foss’altro che per prevenire una esaltazione pericolosa seguita da amare delusioni, distinguere nettamente ciò che appartiene all’essenza del matrimonio e ciò che appartiene alla sua perfezione. È indubbiamente desiderabile che il vincolo matrimoniale sia di natura tale da trasformare gli sposi in compagni per l’eternità; ma ciò non toglie che un tale livello spirituale non sia richiesto dal matrimonio a titolo di elemento necessario e costitutivo.
    L’unione coniugale in quanto tale s’instaura nel tempo, e le grazie che le sono inerenti, benché procedano dalla sorgente divina e mirino a procurare la vita eterna, sono date non soltanto nel tempo, ma per il tempo. Indipendentemente da tutte le sovrastrutture spirituali che possono formarsi nella coscienza dei soggetti, l’indissolubilità del matrimonio è essenzialmente legata alla sessualità e alla procreazione in quanto facoltà obiettive assunte dalla grazia di Cristo, che vuol fare dell’umanità redenta ii suo Corpo eterno. Il fine dell’indissolubilità del matrimonio è dunque in relazione con la perpetuità della Chiesa, corpo di Cristo, assai più, o almeno altrettanto, che con la perpetuità dell’individuo. Il fatto che un matrimonio senza amore sia del tutto valido agli occhi della Chiesa (2) ne è già prova sufficiente; e la legittimità delle seconde nozze conferisce maggior evidenza al carattere temporale e sociale dell’indissolubilità del matrimonio. Il vincolo sacramentale infatti è infranto dalla morte di uno dei coniugi, e il superstite prosciolto da qualsiasi obbligo è libero di contrarre una nuova unione. Gli sposi, in quanto tali, sono così poco compagni per l’eternità che il sacramento che li lega è cancellato nell’ora medesima in cui l’individuo lascia la vita temporale per entrare nella vita eterna. Lo afferma esplicitamente lo stesso Vangelo: «In quel giorno i Sadducei andarono da lui e lo interrogarono: Maestro, Mosè ha detto: se uno muore non avendo figlioli, il suo fratello sposi la moglie di lui e dia discendenza al fratello. Ora, c’erano tra noi sette fratelli; il primo era ammogliato e morì, e, non avendo prole, lasciò la moglie al fratello. Lo stesso fu del secondo e del terzo, fino al settimo. Finalmente ultima di tutti morì anche la donna. Alla risurrezione adunque, di quale dei sette sarà ella la moglie, se tutti l’hanno avuta? Ma Gesù rispose loro: Voi siete in errore, poichè non comprendete le Scritture né la potenza di Dio. Perché alla risurrezione né gli uomini prenderanno moglie né le donne marito, ma saranno come gli Angeli di Dio nel cielo» (Mt., XXII, 23-30).

    Quanto alla legittimità delle seconde nozze la posizione di S. Paolo è più che chiara: «Una donna è legata per tutto ii tempo che ii marito è in vita; ma se il marito muore ella è libera di sposare chi vuole» (I Cor., VII, 39). E ancora: «Voglio che le giovani vedove prendano marito (I Tim., V, 14) e abbiano figli, e dirigano la loro casa».
    Mi accadde di notare più di una volta come questa dottrina che limita al tempo e alla morte l’effetto del sacramento abbia il dono di ferire le anime amanti. Com’è possibile, protestarono taluni sposi, che nulla debba rimanere oltre la tomba di quest’amore in cui sentiamo entrambi vibrare una promessa d’eternità? È qui il caso di ripetere le parole del Vangelo: Ciò che viene dalla carne è carne e ciò che viene dallo spirito è spirito. La Chiesa istituì un sacramento valevole per tutti, ma una cosa è il sacramento propriamente detto e un’altra la qualità d’anima di coloro che lo ricevono. Il matrimonio non conferisce necessariamente l’amore spirituale, ma nemmeno lo esciude: anzi, l’intimità della vita coniugale e la fedeltà alle grazie sacramentali offrono un terreno particolarmente propizio al nascere e al fiorire di un simile amore. «Essi saranno come gli Angeli di Dio nel Cielo», ha detto Cristo. Tutto quello che di angelico, di veramente spirituale noi avremo messo nel nostro amore lo ritrovererno in cielo. La morte distrugge ii matrimonio come vincolo carnale e sociale (ed è forse altra cosa per la maggior parte degli sposi?); ma non distrugge l’amicizia spirituale che unisce due anime immortali. In questo senso soltanto è permesso di parlare di compagni per l’etemità.
    Quanto di immortale vi è nel matrimonio supera ii matrimonio stesso; alla morte l’unione degli sposi, distrutta nei suoi elementi terreni e trasfigurata in quelli spirituali, diviene un aspetto della comunione del santi.

Obbiezioni contro l'indissolubilità del matrimonio

    Se taluni spiriti tormentati da una sete prematura di assoluto rimproverano alla Chiesa di limitare alla vita terrena l’indissolubilità del matrimonio e di permettere le seconde nozze, infinitamente più numerosi sono coloro che l’accusano di un rigore eccessivo per il fatto ch’essa proibisca il divorzio. Queste due critiche provengono da un’unica fonte: la ribellione delle inclinazioni soggettive contro una legge universale. Ignorando che un’istituzione come ii matrimonio è fatta innanzi tutto per tutti, gil uni vorrebbero adeguarla alla misura della loro fedeltà e gli altri alla misura della loro incostanza; ma in entrambi i casi è sempre ii desiderio mdividuale che detta legge. Gli avversari della indissolubilità del matrimonio si appellano in generale agli argomenti seguenti:
    La Chiesa, affermano, dà prova in questa materia dl un rigore inumano; essa disconosce le aspirazioni e i diritti più legittimi dell’individuo. Protraendo sino alla morte unioni concluse senza amore o che l’amore ha abbandonato, essa subordina la reaità all’apparenza, la linfa interiore alla scorza sociale, la persona vivente a una legge morta. Un’unione ha valore solo se l’amore la vivifica; e quando gli intimi legami dell’amore cedono il posto, tra due esseri, aile catene esteriori della legge, non esiste più in realtà il matrimonio. Perchè dunque accanirsi a conservare ciò che è già morto con un’opera di imbaisamazione che procede in senso contrario alle leggi della vita?
    La legge della Chiesa, interdicendo agli sposi separati di ricostruire la loro vita sulla base di un nuovo amore, intralcia o avveiena l’esercizio della più nobile facoltà dell’uomo; perchè o l’individuo accetta la legge e soffoca in germe il nuovo amore, vivendo in un deserto affettivo, oppure viola la legge, e allora il suo amore, tacciato di colpa e interdetto dalla morale e dall’opinione pubblica, trascina necessariamente un’esistenza di vergogna e di stenti.
    È evidente che tanto l’ipocrisia dei falsi amori legali quanto la dissimulazione dei genuini amori illegittimi contribuiscono a creare un’atmosfera di farisaismo eminentemente sfavorevole alla virtù degli individui e all’armonia della società. Quanto ai vantaggi sociali che si sogliono porre in attivo per la indissolubilità del matrimonio, non trovano forse la loro contropartita negativa in quel prevalere dell’astratto sul concreto, della lettera sullo spirito, in quel culto di una virtù vuota di carne e d’anima e ridotta a una scheletrica formalità, la quale, creando nella società un clima di costrizione e di menzogna, prepara automaticamente i contraccolpi distruttori della rivolta e dell’anarchia? Non è forse in relazione a un conformismo troppo gretto che sorsero in ogni tempo le peggiori licenze? E non converrebbe alla Chiesa, che già ammette la separazione dei corpi, lasciar agire in certi casi quella valvola di sicurezza che è il divorzio?
    Concludendo, non si guadagna nulla a voler asservire la vita che è molteplice e mobile al giogo di una legge astratta e rigida, ma si rende bensì sterile la legge e si inaridisce la vita.
    Rispondendo a tali critiche, eviteremo la stoltezza e l’ipocrisia di contestare la parte di verità che esse contengono. L’evoluzione armoniosa dell’amore dell’uomo e della donna richiede il concorso degli elementi più disparati. La vita matrimoniale costituisce infatti il punto di convergenza delle esigenze più diverse, e talvolta più opposte, della natura umana: aspirazione dei due coniugi ad una pienezza carnale e spirituale, procreazione ed educazione dei figli, necessità sociale, ideale morale e religioso, ecc. Bisogna quindi ammettere che in questo campo la migliore soluzione non può essere che una specie di compromesso tra necessità così numerose e così divergenti. La legge del miscuglio e del relativo, che è la legge centrale della creazione, gioca a fondo in quel focolare della vita temporale che è il matrimonio. Perciò il principio che deve guidarci in questo dedalo non è quello della perfezione assoluta, bensì il principio del bene maggiore, per non dire del minor male. Principio che troviamo, tutto sommato, nell’indissolubilità del matrimonio.

La legge e la vita

    «Quei contatti profondi tra sensibilità e intelletto che sono la caratteristica della nostra epoca...» disse qualcuno. Questa specie di sondaggio della sensibilità (nel senso più esteso della parola) compiuto dall’intelletto ha avuto per risultato un approfondimento incontestabile delle nozioni psicologiche. Ma è una conquista che ha il suo prezzo. Il pensiero moderno centrato sull’esistenziale e sul soggettivo tende sempre più a disconoscere tutto quello che nella nostra natura e nel nostro destino non è riducibile all’esperienza vissuta e all’analisi psicologica. Le leggi e le istituzioni, umane o divine, sono le prime vittime di questo atteggiamento mentale. Si dimentica che hanno un’essenza e una dignità proprie, indipendentemente dalle persone che esse governano, e si giudica del loro valore, anzi della loro legittimita, unicamente in base agli effetti e alle risonanze che si possono riscontrare nella psiche e nell’esistenza degli individui. Ma se gli effetti sono invisibili; se l’auscultazione delle anime non permette di percepire le risonanze, l’istituzione si dissolve nel nulla...
    Applicato al matrimonio sacramentale, un metodo siffatto suscita il ragionamento seguente: «Quello che Dio ha unito... Questo sacramento è grande... ». L’essenza ideale del matrimonio è espressa in queste parole; ma nell’esistenza reale che rimane? Dove sono gli effetti di un sì grande sacramento nell’anima di quegli innumerevoli sposi uniti soltanto dall’istinto, dall’interesse e dall’abitudine, che vanno al matrimonio e non né escono più come la ruota resta fedele al solco in cui affonda?
    Conclusione: ove non c’è amore intimamente vissuto non c’è matrimonio. Nietzsche, da quel grande esistenzialista che fu, riassunse questa concezione del matrimonio in un aforisma alquanto drastico: «Dicono che le loro unioni sono state suggellate in cielo. Ma io non voglio saperne di quel Dio dei superflui che viene zoppicando a benedire quello che non ha unito».
    Quello che non ha unito... La parola va lontano soltanto in apparenza: essa non oltrepassa l’uomo e i suoi brividi soggettivi. Quello che Dio non ha unito sul piano dell’esperienza individuale può averlo unito su un altro piano. Ogni istituzione che miri immediatamente all’esistenza delle persone e alla salvaguardia del loro orientamento ultimo, quali per l’appunto ii vincolo comunitario tra i coniugi ed i fedeli, è trascendente alle persone o almeno s’identifica con la loro trascendenza.
    Il pensiero di S. Tomaso su quest’argomento esclude ogni scappatoia. Alla domanda se un matrimonio concluso per un motivo «disonesto» (per es. il desiderio puramente carnale o l’interesse materiale) costituisca un vero matrimonio, egli risponde che una tale unione è del tutto valida, sebbene ii contraente sia in stato di peccato. E a chi gli obbietta che il matrimonio, essendo un bene in sè e i’immagine terrestre dell’unione di Cristo e della Chiesa, non potrebbe legittimamente procedere da una causa impura, egli risponde che una cosa è il matrirnonio e altra è l’intenzione dei contraenti (Sum. Theol. suppl. 48, 2). Non è possibile distinguere più nettamente l’istituzione dalle disposizioni soggettive dell’individuo. Nell’edificio sociale gli individui sono le pietre e le istituzioni il cemento. Ai nostri giorni molte sono le pietre che si lamentano d’essere legate nei cemento senza risentime gli effetti dentro di sè, sentendosi anzi sole nell’edificio; ma non per questo il cemento cessa di esistere e di perseguire i suoi fini. Se poi ogni singola pietra, ribellandosi a quel cemento inumano che unisce l’una all’altra senza impregnarle, rivendica la sua libertà personale, il risultato più evidente di quest’appelio ai «dirtti deil’individuo è il crollo dell’edificio» (ib.) (3).
    Allora voi confessate, ritorcerà trionfalmente l’avversario, che il matrimonio sacramentale non ha senso che come inquadramento sociale e religioso e che esso rimane, per la sua stessa natura, estraneo all’amore. Perchè dunque non andare sino alla fine del vostro pensiero e non riconoscere con i trovatori che matrimonio e amore si escludono reciprocamente, perchè il primo implica l’obbiigo e la costrizione, mentre il secondo è per sua essenza spontaneo e gratuito?
    Prima di entrate nel vivo del dibattito esaminiamo un poco quello che si nasconde troppo spesso sotto il bel nome di amore. Si grida allo scandaio perchè la Chiesa si accontenta del semplice consenso volontario, anche se dettato dai motivi più bassi, per incatenare per sempre due esseri l’uno all’altro.
    A noi invece questa condotta appare assai saggia; e le acquisizioni della moderna psicologia (esplorazione deil’inconscio, critica degii ideali e smascheramento della menzogna interiore, ecc.) la giustificano pienamente. Ma a parte il fatto che la Chiesa non può ingolfarsi nel mare mobile delle disposizioni soggettive e delle cause accidentali per definire la validità di una istituzione fissa e universale, bisognerebbe sapere se è sempre dalla parte dell’«amore» che sta il più alto coefficiente di realtà. L’amore autentico è raro, mentre sono numerose le sue caricature. Già La Rochefoucauld diceva che «l’amore presta il suo nome a un’infinità di commerci in cui non ha parte più di quanta ne abbia ii Doge in ciò che si fa a Venezia». La sincerità non significa gran cosa in questo campo; troppo spesso essa non è che l’arte di mentire spontaneamente a se stesso. Quanti uomini credono d’amare, ma il loro amore è soltanto ardore carnale, esaltazione illusoria e avara bramosia di conquista e di dominio! Un amore di tal genere non è forse ancor più irreale di un’istituzione? La passione è forse meno illusoria della legge, per il fatto d’essere un poco più calda e più inebriante? E qui vorrei fare appello a tutti coloro che non hanno mai opposto barriera alla loro libertà d’amore: la cenere che i fuochi di paglia delle antiche passioni hanno deposto nel fondo della loro anima basterà a dimostrare loro il nulla dell’amore affrancato da ogni legge. Apparenza per apparenza, la norma che assicura la continuità della specie umana e l’equilibrio della società vale almeno quanto la passione che assicura soltanto la felicità egoista ed effimera dell’individuo. D’altra parte, quanto sopra vale unicamente a confutare gli argomenti dell’avversario; perchè non è vero che la legge sia soltanto apparenza, nè che sia contraria all’amore. Tutto quello che possiamo concedere ai nostri avversari è che il sacramento del matrimonio non conferisce l’amore. Come il sacramento della penitenza rende la contrizione efficace ma non la sostituisce, così il sacramento del matrimonio corona e completa il consenso coniugale, ma non lo sostituisce in tutti i suoi elementi. È lo stesso, d’altra parte, per tutte le forme del soprannaturale: Gratia supponit et perfecit naturam. Non basta presentarsi all’altare per trovarvi il consenso reciproco e ancor meno l’amore: la natura non ha bisogno per questo che di se stessa, e la grazia che appartiene a un altro ordine opera su un piano diverso. Diciamo piuttosto che è dovere di ciascun coniuge l’esaminarsi e il decidere in se stesso se ama abbastanza per presentarsi all’altare. Ma ciò posto, l’indissolubilità del matrimonio anzichè opporsi all’amore agisce piuttosto in suo favore.
    Prima del matrimonio, anzitutto. Sapendo che l’impegno che sta per contrarre è irrevocabile, l’individuo è indotto a non avventurarsi alla leggera in quel vicolo cieco che ha il muro di chiusura alle spalle. Come il conquistatore che brucia i suoi vascelli per togliersi prima della battaglia ogni possibilità di ritirata, i fidanzati che acconsentono a legarsi l’uno all’altro fino alla morte attingono a questa «idea-forza» una garanzia preliminare contro tutti gil eventi del destino che minacceranno il loro amore. Per contro, la sola idea del divorzio possibile prende dimora tacitamente nel profondo dell’anima, come un verme deposto da una mosca in un frutto in formazione e che ne divorerà un giorno la sostanza. Si è constatato che in talune circostanze, particolarmente nell’ora delle grandi prove, è sufficiente considerare una cosa come possibile perchè essa divenga necessaria. Questo dato psicologico elementare basta d’altronde a liquidare ii mito del «matrimonio di prova» proposto da taluni riformatori dell'istituto matrimoniale, più intenti a inventare paradossi che a fondarli su motivi validi.
E in seguito dopo il matrimonio. Il patto nuziale, situando una volta per sempre la sostanza dell’amore al di là delle contingenze, contribuisce necessariamente a decantare, a purificare l’amore; così come una diga non solo contiene il corso del flume, ma rende le sue acque più limpide e più profonde. La necessità di subire e di superare la prova del tempo agisce sull’affetto degli sposi come vaglio che separa la pula dal chicco del frumento; essa lo spoglia a poco a poco dei suoi elementi accidentali e illusori e ne conserva solo il nocciolo incorruttibile, trasformando la passione in vero amore. Ma se all’inizio non v’è amore? insisterà l’avversario. Ripetiamo che il dovere di fedeltà, pur non mutando per nulla l’intima qualità di quel delicato frutto che è l’amore, scongiura ii pericolo delle dispersioni e della rottura del vincolo, e crea il terreno adatto a portarlo a una felice matunità. Perchè l’amore non ci vien dato o rifiutato come un capitale immutabile; al pari di tutte le cose viventi esso è sottoposto a un’evoluzione che cornporta prove, crisi e malattie. Minacciato all’interno dall’abitudine e all’esterno dalle lusinghe del cambiamento, esso può, secondo il modo con cui resiste a tali prove, uscirne più forte o morire. «Tutto quello che non mi fa morire mi rende più forte» diceva Nietzsche. E la Chiesa, imponendo all’amore l’obbligo di non morire, contribuisce per l’appunto a trasformare in fasi purificatrici quelle crisi e quelle malattie che in un clima più molle e apparentemente più umano condurrebbero alla morte. Il principio dell’indissolubilità del matrimonio mette il tempo, pietra di paragone del concreto, al servizio dell’amore.
    Ciò nondimeno vi sono unioni che rappresentano un fallimento totale e irrimediabile sul piano dell’amore.
    Abbiamo conosciuto tutti degli sposi che per un’assoluta incompatibilità di sentimenti non riescono nè riusciranno mai a introdurre il più sottile filo di comprensione e di tenerezza nella catena inesorabile che li lega fino al trapasso. Siamo dunque costretti a confessare che in casi simili l’indissolubilità del matrimonio appare come una istituzione inumana. Perchè quei disgraziati sono costretti a trascinare per tutta la vita le conseguenze di un errore passeggero e spesso involontanio? Perchè l’atto più assurdo del loro passato deve sembrar loro per sempre la via dell’avvenire?
    La risposta è complessa e comporta diversi punti.
    Può accadere innanzi tutto che queste deprecabili unioni comportino motivi validi di nullità (pazzia di uno dei coniugi, difetto di consenso, ecc.). In questi casi il problema è risolto.
    Ma se tali unioni psicologicamente catastrofiche adempiono alle condizioni formali di un autentico matrimonio, la risposta è chiara quanto crudele: la Chiesa domanda a questi «male amati» e male uniti una rinuncia assoluta sul piano dell’amore e della felicità umana. A che cosa ii sacrifica? Semplicemente al bene comune che, quando la conciliazione è impossibile, dev’essere sempre preferito al bene dell’individuo. Il principio del matrimonio indissolubile è come una porta presa d’assalto dalla tempesta delle passioni e degli interessi personali: proviamo a socchiuderla, e l’uragano la scardinerà e irromperà all’interno. Le vittime del matrimonio meritano tutta la compassione possibile, ma non che si facciano delle eccezioni in loro favore; perchè di eccezione in eccezione (tutte le situazioni umane non sono forse eccezionali, vale a dire uniche e irriducibili?) si distrugge la regola che è la trave maestra dell’ediflcio sociale. D’altro canto, la necessità di un sacrificio individuale in vista del bene generale non è solo peculiare del matrimonio: altre istituzioni, altre realtà sociali impongono agli individui la medesima rinuncia. Se si reputa scandaloso che due sposi disamorati immolino la loro felicità personale all’istituto universale che protegge la felicità degli altri, che si dirà del soldato che la Patria invita a morire per la salvezza di quel bene nazionale a cui egli non parteciperà più? Contraddizioni simili fanno parte del destino dell’uomo, e bisognò arrivare alla nostra epoca di morbosa iperestesia dell’io e di ugualitarismo grossolano, che considera la felicità dell’ individuo un diritto «assoluto», per trovarvi materia di indignazione e di scandalo.
    E d’altra parte, sono forse esclusi definitivamente dal festino dell’amore e della gioia quegli sposi sfortunati? La stessa barriera che interdice loro la felicità umana li invita pure a cercare più in alto una felicità più pura. Quando una strada terrestre è chiusa nell’una e nell’altra direzione rimane una sola via d’uscita; il cielo. Vi furon tempi in cui le semplici istituzioni umane erano sufficienti a suscitare l’entusiasmo e la fedeltà: si poteva, ad esempio, servire sino alla morte un Principe che non si amava per pura fedeltà all’istituto monarchico; più che la persona, si vedeva in lui il rappresentante di una tradizione tutelare, l’anello di una catena che univa il passato all’avvenire. Ma se la monarchia non si esaurisce nella persona del Principe, a maggior ragione il vincolo coniugale non si esaurisce nella persona degli sposi; come istituzione umana esso ricollega le generazioni passate a quelle future e come sacramento si conclude nell’eternità. Quello che Dio ha unito: nei casi estremi è sulla parola Dio che dobbiamo mettere l’accento e cercare in cielo quell’unione che in terra non ci fu concessa. Oltre la persona del coniuge che non possiamo amare rimane la persona di Dio che è amore; e ciò che fallisce nel tempo può sempre fiorire nell’eternità.     Per ciò che riguarda l’accusa di ipocrisia, che si suol pronunciare contro quegli sposi che rimangono uniti senza amore e la cui virtù si limita a «salvare le apparenze», faremo una duplice messa a punto. Innanzi tutto le apparenze hanno il loro valore: da una parte esse costituiscono l’armatura della società, e dall’altra assicurano, press’a poco nella stessa guisa della carta-moneta, la continuità e l’armonia delle relazioni esterioni tra gli uomini. Pascal, ben più saggio degli attuali apostoli della sincerità ad ogni costo, aveva già osservato che senza il rispetto di quelle che sono le convenzioni e le «regole del giuoco» nessuna vita sociale sarebbe possibile. In secondo luogo, converrebbe definire chiaramente quello che si intende dire con le parole ipocrisia e sincerità. Essere sinceri significa manifestare all’esterno ciò che abbiamo dentro di noi. E sta bene. Ma allora, dovunque esista dualismo e conflitto, dovunque l’uomo sia chiamato a scegliere tra un desiderio e un dovere vi è, in un certo senso, ipocrisia. Tacceremo di insincerità ii viaggiatore assetato che, passando sotto l’albero altrui, si astiene per onestà dal cogliere il frutto che la sua sete reclama? Oppure il soldato che va all’assalto quando desidererebbe con tutte le sue forze fuggire e vivere? Lo stesso si dica degli sposi senza amore che rimangono fedeli ai doveri del matrimonio. Se tutto ciò che rappresenta una vittoria su se stessi è ipocrisia, che cos’è allora la sincerità? Forse che per essere d’accordo con se stessi bisognerà seguire ogni impulso e tradurre in atto ogni desiderio? Ma l’incostanza e il tradimento che derivano necessariamente da questo principio sono anch’essi menzogne, e altrettanto profonde e infinitamente più deleterie della fedeltà formale. Finchè l’uomo non avrà raggiunto una perfetta unità interiore, sara condannato all’ipocrisia nel senso etimologico della parola (ipo = al di sotto), cioè a dissimulare, a respingere nella oscurità e nel silenzio una parte di sé. Solo il bruto e il santo ignorano il conflitto interiore e impegnano interamente se stessi nell’azione, sottraendosi così alla ipocrisia: l’uno con la materialità perchè non è che istinto; l’altro con la spiritualità perchè non è che amore. Riassumendo, l’indissolubilità del matrimonio presenta più vantaggi che inconvenienti, qualunque sia il punto di vista dal quale la si esamina. Dove l’unione è psicologicamente concreta, cioè fondata sull’amore, essa protegge e approfondisce l’amore. Dove l’unione è psicologicamente irreale, cioè priva di amore, essa salva almeno la realtà sociale del matrimonio. In tal modo, se non può sempre realizzare ii meglio, essa evita almeno ii peggio.

Il problema del libero amore

    Esiste tuttavia un caso in cui il principio dell’indissolubilità del matrimonio sembra erigersi a nemico dell’amore: è il caso degli sposi male assortiti, ai quali la Chiesa interdice di contrarre una nuova unione e che espelle dal proprio seno sotto l’infamante epiteto di «peccatori pubblici» se osano sfidare la sua proibizione. E non è dunque una barbara istituzione quella che respinge nella «clandestinità» - con tutto ciò che un tale stato comporta di degradazione e di sofferenza — gli affetti più genuini che potrebbero, in un regime meno rigoroso, liberamente espandersi?
    L’obbiezione ha la sua forza; ma noi crediamo di poter rispondere, senza cadere nel paradosso, che anche su questo punto il rigore della Chiesa giova all’amore sincero nella misura in cui esso condanna il falso amore.
    Spieghiamoci meglio. Non siamo così ingenui da pretendere che l’amore possa esistere solo nel matrimonio; innanzi tutto, l’amore che conduce alle nozze incomincia prima delle nozze (non ci si ama perchè si deve sposare, ma si sposa perchè ci si ama); in secondo luogo, anche fuori del matrimonio si può incontrare un amore autentico. Nessuno oserà contestare ad esempio che il peccato di Eloisa ed Abelardo non racchiuda maggior pienezza di umanità che non certe unioni legittime, cementate unicamente dalla comunità di interessi materiali o dalla forza inerte dell’abitudine. Ma le grandi passioni, e più ancora i grandi amori, sono assai rari (4). Sarebbe troppo facile, sull’esempio di quanto fece Plisnier in un celebre romanzo, denunciare la vacuità di taluni matrimoni, dove sotto un velo di rispettabilità sociale brulicano le passioni più abbiette o sonnecchia la mediocrità più incurabile. Ma perchè non esporre la seconda anta del dittico? È vero che il grande amore è raro nell’unione matrimoniale; ma fuori di essa è forse più frequente? Considerino i detrattori del matrimonio la qualità della maggior parte delle unioni libere; vi troveranno senza fatica tutti i difetti dei cattivi matrimoni, con in più la rivolta contro l’ordine sociale e la legge religiosa. La Chiesa ha tutte le ragioni di difendere l’unità della famiglia e l’ordine della società contro gil assalti distruttori delle passioni individuali, che soggettivamente non valgono di più dei peggiori matrimoni e obbiettivarnente corrodono le basi stessi del bene comune. Il matrimonio non esclude, ahimè, né la cieca violenza dell’istinto né la voracità dell’egoismo, ma almeno assegna loro un’orbita e dei limiti; mentre la passione anarchica che nasconde sotto la maschera dell’amore le pretese divoratrici di una came e di un io senza freni non merita davvero indulgenza alcuna.
    Quanto al grande amore illegittimo, l’amore che si impone con tutto il peso della necessità e che impegna l’anima sino in fondo, la morale cattolica gli offre una doppia via d’uscita: o superare la legge sacrificando il lato carnale e terreno dell’amore ed innalzando questo sino alla regione ideale, dove il sentimento non ha altra legge che se stesso; oppure violare francamente la legge con tutte le responsabilità, tutti i rischi e tutte le pene che implica un simile atteggiamento. I doveri normali del matrimonio (procreazione dei figli, fedeltà reciproca degli sposi) non esauriscono a priori e in tutti i casi la polarità sessuale dell’essere umano, la quale impregna pure le più alte regioni dell’anima e si manifesta nel nostro essere immortale. L’uomo e la donna possono dunque incontrare anche fuori del matrimonio il loro vero compagno per l’eternità. L’amore soffia dove vuole: Beatrice non fu moglie di Dante, nè Hölderlin sposò Diotima... Un amore di questo genere, la morale più esigente non può pretendere di soffocarlo in germe, bensì di situarlo in alto, al di sopra del tempo e della carne, affinchè esso, non più minaccia all’ordine e al bene protetti dalla legge, non abbia a soffrire dei rigori di questa. Attenti, però, a non lasciarci trasportare dall’immaginazione romantica; sottolineiamo ancora una volta il carattere affatto eccezionale di codeste grandi passioni trasfigurate.
    Fuori del matrimonio la donna è più di frequente Dalila che Beatrice, e l’essere nel quale crediamo di trovare «l’eterno femminino che ci attira verso l’alto» corre il rischio d’ essene in realta soltanto l’Eva sedotta dal Serpente che ci trascina con sè nella sua caduta...
    Quanto all’unione libera propriamente detta — quella in cui gli amanti non temono di violare la legge — non neghiamo che non possa presentare, accanto a un grave disordine morale, un amore di qualità superiore. Ebbene: anche su questo terreno, che è proprio quello dell’avversario, noi osiamo affermare che le esigenze della legge cristiana contribuiscono ancora a nobilitare la qualità dell’amore. Facciamo pure per un poco senza timore la parte dell’avvocato del diavolo; sarà sempre per la causa di Dio che lavoreremo, perchè tutto quel che di buono può rimanere nel diavolo procede sempre da Dio.
    È giusto che chi viola la legge subisca le conseguenze della sua ribellione. Non arrivererno a far nostro il proverbio spagnolo: «Fa ciò che vuoi, paga lo scotto, e Dio sara contento»; ma è nostra convinzione che chi accetta tutte le conseguenze della propria colpa porti gia in sé un germe di liberazione e di perdono. Siate piuttosto caldi o freddi... Se il figliol prodigo, dopo aver abbandonato la casa paterna, avesse investito il suo capitale in valori di tutto riposo e si fosse dedicato a moderati piaceri, non sarebbe certamente mai ritornato tra le braccia del padre. Esiste qualcosa che è peggiore del peccato: il desiderio fraudolento di guadagnare due partite giocando un unico gioco; il voler accumulare il piacere della colpa e i vantaggi della virtù, l’ebbrezza dell’anarchia e i benefici dell’ordine.
    In un giuoco siffatto si disperde quanto di nobile e di profondo può esistere anche nel peccato. Ed è appunto per questo che l’intransigenza della Chiesa serve indirettamente l’amore libero, non certamente in quanto è libero, ma in quanto è amore. Essa lo limita nel numero e lo approfondisce nella qualità: duplice vantaggio. Inoltre, imponendo ai candidati al peccato forti barriere da superare e aspre sofferenze da sopportare, essa opera una selezione tra le passioni anarchiche ed eleva il livello di quelle che resistono alla prova. Non dobbiamo dimenticare infatti che, qualunque sia l’epoca o l’ambiente, la qualità del peccato dipende dalla qualità della virtù: solo il buon vino dà un buon aceto. La purezza e la solidità dell’istituto matrimoniale purificano e consolidano di conseguenza l’amore libero: è in funzione degli ostacoli che le oppone una morale vigorosa che la passione anarchica conserva una certa forza e una certa grandezza. Il valore umano e l’energia dl chi riesce a infrangere un sistema difensivo si misurano alla solidita di questo sistema: non occorre nè forza nè coraggio per sfondare una porta aperta. Tant’è vero che le grandi passioni illegittime fiorirono in epoche in cui il principio dell’indissolubilita del matrimonio non soffriva eccezione alcuna: sia nella leggenda, come quella di Tristano e Isotta; sia nella storia, come quella di Abelardo ed Eloisa. Ma dove il libero amore è praticato senza restrizioni, dove adulterio e divorzio non sono oggetto di alcuna sanzione da parte della legge o dell’opinione pubblica, chi ha mai incontrato quei patetici avventurieri dell’amore, degni di attirare gli sguardi e di far scorrere le lagrime delle generazioni a venire? Dove non c’è rischio non c’è più avventura, e l’amore illegittimo cade nella piattitudine nella misura stessa in cui si sottrae alla tragedia. Quando Tristano e Isotta, invece di errare nella foresta inospite sostenuti soltanto dall’amore, consumano borghesemente l’adulterio senza pericolo nè castigo non c’ispirano più interesse alcuno. La facilità corrompe ogni cosa, compreso il disordine; e la peggior disgrazia che possa capitare al peccato è precisamente quella d’esser messo alla porta di tutti. Quando non vi son più frutti proibiti rimangono soltanto frutti marci.
    Concludiamo: vi è nel libero amore l’elemento amore e l’elemento libertà (e sarà meglio dire anarchia). Il primo è il frutto e il secondo è il verme. La legge della Chiesa, imponendo limiti e sanzioni a questa libertà divoratrice, protegge la sostanza del frutto contro le devastazioni del verme.

Se il seme non muore...

    Vi furon tempi in cui le istituzioni guidavano gli individui; l’uomo spontaneamente faceva loro credito, e modellava il proprio destino sullo stampo che gli offrivano le leggi e i costumi.
    Nella nostra «età riflessa», invece, sono gli individui che guidano le istituzioni: l’uomo le accetta soltanto nella misura in cui, rivestite di una specie di consacrazione interiore, esse rispondono a un bisogno soggettivo, a una elezione personale.
    Un tale atteggiamento ha il suo lato negativo e il suo lato positivo. Esso costituisce un pericolo gravissimo per la stabilità delle istituzioni, ma tende in pari tempo a eliminare il conformismo sociale e religioso. Nelle epoche in cui il disordine dilaga nel costume, l’obbedienza alla legge diventa espressione di amore e di libertà.
    Si suol gemere sulla durezza del matrimonio indissolubile; ma è la legge che è troppo dura per l’uomo, o è l’uomo che è troppo molle per la legge? Per colui che non sa amare ogni legame è una catena; ma chi sa vivere in sè un amore immortale non ha timore di legarsi sino alla morte. È appunto a questo approfondimento e a questa purificazione dell’amore che la legge cristiana ci invita. Considerato da questo punto di vista, l’istituto del matrimonio appare il custode della fedeltà interiore. Come non è fatto per il Sabba, l’uomo non è fatto nemmeno per il matrimonio; ma è bensi il matrimonio che è fatto per l’uomo. Ma l’uomo è più che l’individuo: egli non realizza il suo vero destino che superando con l’amore e il sacrificio i limiti dell’io carnale e decaduto. Tale è il senso della parabola evangelica: se il seme non muore... Muore, ma in pari tempo accede alla vera vita quando, rinunciando alla sua durezza, alla sua egoistica solitudine, incomincia ad affondare le radici nella terra e ad alzare lo stelo verso il cielo: perfetta immagine del matrimonio con le sue propaggini nel tempo e la sua consacrazione divina... A questo livello l’esigenza di indissolubilità si confonde col voto più intimo della persona umana, perchè l’uno e l’altra ci stimolano egualmente a quel superamento di noi stessi che è l’essenza dell’ amore e l’aurora dell’eterna liberazione.

(1) Bonsirven, Le divorce et le Nouveau Testament, Parigi-Bruxelles, 1948, p. 30.

(2) Cfr. S. Tomaso, Summa Theologica, supplemento 48-2.

(3) Il paragone è parzialmente inadeguato. Nell’edificio umano le pietre possono e devono essere impregnate dal cemento che le lega; in altre parole l’istituzione può e deve essere vissuta nell’interno dell’anima. Ma essa rimane valida anche senza di ciò.

(4) Non è giusto, d’altronde, opporre queste grandi passioni al matrimonio. L’amore extra-coniugale, quando è veramente amore, tende al matrimonio, cioè alla fusione irrevocabile di due esseri e di due destini; è una specie di matrimonio in potenza che l’ostilitâ delle circostanze ha fatto abortire.