L’islam ama definirsi la religione del Libro. La religione della parola scritta e certificata. Molto meno amate le immagini, anzi spesso vietate. Il raccontare è sacro, il dipingere o il suonare è spesso considerato blasfemo. Un punto di partenza tutt’altro che libertario ma che dovrebbe garantire il ruolo della letteratura, lo status degli scrittori. Dice infatti il Corano riferendosi a chi ha accesso alla conoscenza: «È per il calamo ciò che scrivono».
E per qualche secolo è stato davvero così. Almeno a giudicare dal fatto che nel X secolo il poeta Al-mutanabbi poteva permettersi versi che suonano più o meno così: «Sono forse roccia? Perché non mi smuove questo vino,/ e nemmeno questi canti?/ Se desidero del limpido vino rubro lo trovo./ Ma l’amata è perduta». Se scrivesse ora gli stessi versi, a più di mille anni di distanza, rischierebbe di avere bruttissimi guai. Per rendersene conto basta sfogliare il saggio appena pubblicato dall’islamista Valentina Colombo: Vietato in nome di Allah. Libri e intellettuali messi al bando nel mondo islamico (Lindau, pagg. 176, euro 17). Sotto l’ombra della mezzaluna gli ultimi trent’anni sono stati un vero incubo per gli intellettuali. Un incubo di cui l’Occidente riesce a rendersi conto solo quando una fatwa colpisce lo scrittore di grido con passaporto britannico, vedasi Salman Rushdie, o quando a morire sotto i colpi di pugnale degli estremisti è Theo van Gogh.
Eppure quella in atto nei Paesi islamici è una vera e propria politica del terrore. A volte a praticarla sono i governi a colpi di processi farsa, di galera e di censure. Altre ci pensano gli estremisti sgozzando gli «apostati» come agnelli. Una mattanza così diffusa e reiterata che è persino difficile fare un censimento dei perseguitati. I nomi che vedete nel grafico di questa pagina, infatti, sono solo alcuni degli esempi più clamorosi del progressivo incupirsi del controllo culturale. Se nel 1955 perché la traduzione in arabo della Divina Commedia venisse pubblicata in Egitto venne chiesto all’editore di omettere i versi dell’Inferno relativi a Maometto (ovviamente senza nemmeno mettere una nota per il lettore), venticinque anni più tardi era diventato un problema anche solo discutere di linguistica.
Nel 1980 uscì sul mercato L’introduzione alla storia della lingua araba di Louis Awadh. L’autore aveva fatto alcune innocue notazioni filologiche in cui rilevava che alcune parole del testo coranico erano legate alla lingua dell’antico Egitto. Abbastanza perché l’università islamica Al-Azhar intervenisse con tutto il peso della sua autorità per richiedere la messa al bando del volume. Il motivo? L’autore avrebbe oltraggiato la sacralità della lingua araba in quanto lingua di Dio. E se la fonetica diventa irreligiosa, figuratevi cosa può capitare a chi osa qualcosa di più. Soprattutto contando che l’Egitto è un Paese, teoricamente, vicino all’Occidente.
Nel 1980 uscì sul mercato L’introduzione alla storia della lingua araba di Louis Awadh. L’autore aveva fatto alcune innocue notazioni filologiche in cui rilevava che alcune parole del testo coranico erano legate alla lingua dell’antico Egitto. Abbastanza perché l’università islamica Al-Azhar intervenisse con tutto il peso della sua autorità per richiedere la messa al bando del volume. Il motivo? L’autore avrebbe oltraggiato la sacralità della lingua araba in quanto lingua di Dio. E se la fonetica diventa irreligiosa, figuratevi cosa può capitare a chi osa qualcosa di più. Soprattutto contando che l’Egitto è un Paese, teoricamente, vicino all’Occidente.
Ecco spiegato come è stato possibile che Mahmud Muhammad Taha, benché ottantaduenne, sia finito impiccato a Khartoum per il suo saggio Il secondo messaggio nell’Islam (correva l’anno 1985). Chiunque provi a mettere in discussione la teocrazia islamica, in Paesi in cui la pressione delle ambasciate occidentali è nulla, rischia subito grosso. E non è detto che per forza si debba ricorrere al boia: se non c’è la possibilità di una condanna a morte ufficiale possono sempre capitare sgradevoli «incidenti». Lo scrittore iraniano Ali Dashti è morto in carcere non si sa esattamente come. In gattabuia era entrato negando i miracoli di Maometto. Del resto doveva aspettarselo: nel 1980, una volta instaurata la teocrazia, Khomeini aveva organizzato il gigantesco rogo di 80mila libri.
E se i nomi degli scrittori citati sin qui vi dicono poco o nulla non stupitevi. I sostenitori dell’islam più ortodosso sanno che è strategico far loro attorno terra bruciata. A casa propria ma possibilmente anche all’estero. Tanto più che non tutti sono degli eroi votati al martirio. A volte per far paura basta meno. Quando non si arriva al dramma ci si imbatte infatti nel grottesco, in episodi surreali. Il teologo egiziano Abu Zayd, fervente musulmano ma favorevole a una certa forma di modernismo, è stato condannato per apostasia. Da allora è stato considerato dai tribunali egiziani come «giuridicamente» morto e quindi è stato chiesto anche l’annullamento d’ufficio del suo matrimonio. Ora vive in Olanda dove insegna a Leida. La vicenda potrebbe scatenare amara ilarità: il fatto che anche adesso gli convenga chiudersi bene la porta alle spalle la sera molto meno. E se lui se ne è andato, a finire nel mirino dei tribunali - in Egitto la sharia è «la fonte principale della legislazione» - sono molti degli intellettuali rimasti: nel 2008 è toccato alla regista Ines al-Dighdi, al poeta Hilmi Salim, al pensatore liberale Sayyid al-Quinmi...
Tutte persone la cui ultima speranza, quando i costi legali o il rischio che qualcuno passi alle vie di fatto diventa troppo alto, resta sempre e solo la fuga o la minaccia pubblica della fuga. Classico l’esempio di quanto ha fatto Ahmad al-Baghdadi, docente di scienze politiche in Kuwait (altro Paese che all’Occidente deve più di qualcosa). È stato condannato a un anno di galera nel 2005 per aver detto che a scuola è meglio se i bambini passano più tempo a studiare musica che a studiare il Corano. Chiedendo asilo politico ha richiamato l’attenzione della comunità internazionale. Ma più il tempo passa e meno l’Occidente è un rifugio. La presenza islamica sempre più alta porta con sé minacce potenziali, e non solo potenziali, per molti di questi «cervelli» costretti alla fuga. La somala Ayaan Hirsi Ali che collaborò con Theo van Gogh e che ha vissuto a lungo sotto scorta si è spostata negli Stati Uniti per sentirsi veramente libera e sicura. In Europa doveva vivere blindata. Nel suo ultimo libro appena tradotto in italiano, Nomade (Rizzoli), ha spiegato come in Europa un certo clima di violenza sia ormai per tutti, ma soprattutto per lei e per le donne in generale, alla «porta accanto».
L’intellighenzia e i media del Vecchio Continente, sempre pronti a gridare alla censura se qualcuno critica (non vieta) l’esposizione di un crocefisso dipinto con lo sperma, a questi allarmi sono però stranamente sordi. Deve scapparci il morto.
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