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sabato 15 maggio 2010

MISFATTI RISORGIMENTALI

Effedieffe
Senza verità, niente risorgimento
Maurizio Blondet
Per celebrare i 150 anni dell'unità d'Italia, sta spendendo
800 milioni di euro di soldi nostri l'apposito Comitato celebrativo:
presieduto dal venerabile presidente-emerito Carlo Azeglio Ciampi
da Livorno, che probabilmente aggiungera questa sua grassa 'consulenza'
ai 702 mila e passa euro annui che ci estrae dal portafoglio.
Quando si diventa ricchi con la patria, è facile celebrarla.
Noi, del tutto gratuitamente - grazie ad una recente rilettura
di 'L'altro risorgimento' della storica Angela Pellicciari,
Piemme, 2000, sentiamo doveroso contribuire un poco
a quelle auguste memorie.

INTERVENTI UMANITARI -
Quando Londra e Parigi (ossia Palmerston e Napoleone III)
decisero di appoggiare i Savoia nella conquista dei pricipati
italiani, i giornali europei si riempirono di resoconti raccapriccianti
sul malgoverno dello Stato della Chiesa e del Regno delle Due Sicilie:
quei popoli «gemevano» nella miseria, nell'arretratezza,
sotto una feroce repressione reazionaria di regimi stupidi e feroci.
Talchè occorreva «un intervento internazionale» per mettere fine
a governi «contrari agli interessi della popolazione».

La stampa massonica italiana riprese con delizia le truculente notizie
dettate dall'estero. Il 19 marzo 1857 il Corriere Mercantile di Genova
attestò che nelle carceri borboniche si usava «la cuffia del silenzio»,
un aggeggio di tortura applicato al volto dei carcerati per impedire loro
di parlare.
Inutile dire che questo oggetto era sconosciuto a Napoli.
Invece - come raccontò Christophe Moreau, un esperto francese
incaricato dal suo governo di studiare il sistema carcerario
britannico - era in uso nelle prigioni inglesi: «... Uno strumento
composto di varie bende di ferro che serrano la testa del colpevole,
ed è terminato al disotto da una lingua di ferro ricurva
che entra nella bocca fino al palato».

Si scrisse che il Vaticano condannava i colpevoli alla frusta.
Effettivamente, c'erano circa cinque o sei frustati l'anno.
In Gran Bretagna, il gatto a nove code era un sistema corrente
di punizione applicato dai tribunali in 7-800 casi l'anno,
e usato normalmente senza alcun processo contro i marinai
delle navi da guerra.

Secondo i resoconti, nel Sud infuriavano le pene capitali
senza controllo. In realtà, dopo la fallita «rivoluzione» del 1848,
i tribunali napoletani comminarono ai rivoluzionari mazziniani
e filo-francesi 42 condanne a morte.
Re Ferdinando II le commutò tutte, non fu attuata
alcuna esecuzione.

Nel civile regno di Sardegna, modello dei giornali europei,
il 26 marzo 1856, il deputato Brofferio della sinistra insorge
contro l'eccessivo numero di esecuzioni capitali comminate
da quando il governo piemontese è diventato «costituzionale
e liberale»: 113 esecuzioni tra il 1851 e il 1855, mentre
il governo assoluto precedente (1840-44) ne aveva eseguito
solo 39.
Il regno savoiardo costituzionale condannava a morte
otto volte di più della Francia, lamentò Brofferio.

SERVI DI LONDRA -
«Le nazioni (europee) riconoscevano all'Italia il diritto di esistere
come nazione in quanto le affidavano l'altissimo ufficio di liberarle
dal giogo di Roma cattolica (...)»: così il Bollettino del Grande
Oriente Italiano nel 1865.
Per compiacere il regime anglicano ed ottenerne l'appoggio
Cavour soppresse gli ordini religiosi e confiscò i beni ecclesiastici
in Piemonte (il Times inneggiò all'azione).
La superpotenza dell'epoca - la regina Vittoria - forma una «coalition
of the willing» nel 1854 per combattere lo Zar in Crimea, onde
impedire alla Russia l'accesso al Bosforo: Cavour manda
15 mila soldati piemontesi in Crimea, onde ingraziarsi
Vittoria. Moriranno 5 mila, un terzo degli effettivi, in quella guerra
in cui il Piemonte non aveva alcun interesse.
Per pagare questa guerra lontana, Cavour contrae un prestito
con la finanza britannica, che il Regno d'Italia estinguerà
soltanto nel 1902.

Cavour, scrive Angela Pellicciari, era del tutto consapevole
che «l'Italia non si costruisce con l'appoggio della popolazione
italiana, ma con il sostegno internazionale dei governi liberali,
contrari alla fede cattolica della grande maggioranza della popolazione».

IMMANE DEBITO PUBBLICO -
Cavour ammette alla Camera subalpina il 1 luglio 1850:
«So quant'altri che, continuando nella via che abbiamo seguito
da due anni, noi andremo difilati al fallimento. E che continuando
ad aumentare le gravezze, dopo pochissimi anni saremo nell'impossibilità
di contrarre nuovi prestiti e di soddisfare gli antichi».

Debiti nuovi per pagare debiti vecchi, è qui che comincia
l'Italia che conosciamo. Nel 34 anni che vanno dalla caduta
di Napoleone al 1848, nonostante i danni dell'occupazione francese,
il Regno di Sardegna accumulò 134 milioni di debiti.
Nei solo 12 anni del governo Cavour, dal 1848 al 1860,
il debito pubblico aumenta oltre un miliardo (Stato della Chiesa
e Regno di Napoli hanno lievi avanzi di bilancio) (1).
Ovviamente, i contribuenti piemontesi furono schiacciati
dalla tassazione più esosa d'Italia.
Il Piemonte aveva accumulato un miliardo di lire di debito,
pari a 200 miliardi di euro odierni. La bancarotta di Stato
è imminente, al punto che solo la guerra all'Austria
(e la conquista dei principati italiani) può dare una speranza
di uscirne.
Lo ammette Pier Carlo Boggio, deputato cavourriano nel 1859:

«Ogni anno il bilancio del Piemonte si chiude con un aumento
del passivo... L'esercito da solo assorbe un terzo di tutta l'entrata...
Il Piemonte accrebbe di 500 milioni il suo debito pubblico...
il Piemonte falsò le basi normali del suo bilancio passivo.
Ecco adunque il bivio: o la guerra o la bancarotta.
La politica del Piemonte in questi anni sarà detta savia,
generosa e forte, oppure improvvida, avventata o temeraria,
secondochè avremo guerra o pace».

Vinsero, e solo nelle banche dei Borboni trovarono
(e prelevarono) l'equivalente di 1.500 miliardi di euro.

MILIARDARI DI STATO -
Il conte Camillo Benso di Cavour impose il liberismo assoluto
su modello inglese. Di suo, era il maggiore azionista della «Società
Anonima Molini Anglo-Americani» (sic) di Collegno, il più grande
ente privato granario della penisola.
Nel 1853, col raccolto scarso e la fame che infuria fra gli strati
popolari, mentre i principati «reazionari» vietano l'esportazione
dei grani per nutrire le loro popolazioni, il Piemonte la consente,
così che i produttori locali realizzano forti profitti dalle esportazioni
del prodotto rincarato. Per questo avvengono disordini davanti
all'abitazione di Cavour, stroncati dalla polizia e dalla truppa a fucilate.

Il già citato Angelo Brofferio, deputato della sinistra, accusa:
«Sotto il governo del conte di Cavour ingrassano illecitamente
i monopolisti, i magazzinieri, i borsaiuoli, gli speculatori, mentre
geme e soffre l'universalità dei cittadini sottto il peso delle tasse
e delle imposte». Il deputato fa notare il conflitto d'interesse:
«Il conte di Cavour è magazziniere di grano e di farina...».

Cavour possedeva anche una tenuta a Leri: 900 ettari appartenuti
all'abbaziadi Lucedio, acquistati da suo padre Michele per due lire
durante la prima confisca dei beni ecclesiastici, ossia sotto l'occupazione
napoleonica (2).

LA CASTA -
«Liberata» la Toscana con «spontanea insurrezione», i massoni locali
in attesa delle truppe savoiarde instaurano un governo provvisorio,
una dittatura «popolare».
La presiede il barone Bettino Ricasoli fiorentino. Cavour stesso
dirà di lui al re Vittorio Emanuele: Ricasoli «governava la Toscana
come un pascià turco, non badando nè a leggi nè a legalità.»
Brofferio precisa: «I conti del governo toscano appena abbattuto
[il saggio governo degli Asburgo-Lorena] prevedevano per il 1859
un avanzo di 85 mila. Nelle casse c'erano 6 milioni in contanti.
Il nuovo governo chiudeva il 1859 con un disavanzo di 14 milioni
e 168 mila».
In meno di un anno, dilapidato oltre il doppio
di quel che il dittatore trovò in cassa.
Come?

Ancora Brofferio: «Il pubblico erario era dilapidato per saziare
l'ingordigiadei nuovi favoriti; lussi di sbirri e di spie all'infinito;
espulsioni,arresti, perquisizioni; la guardia nazionale ordinata
a servizio di poliziae non a difesa nazionale.
Nessuna libertà di persona, di domicilio, di stampa;
ogni associazione vietata; uomini senza fede
e senza carattere onorati...».
Erano già i raccomandati...

SERVIZI DEVIATI -
Una infinità di piazze e strade d'Italia sono dedicate a Ricasoli,
Cavour, Carlo Farini, Mazzini, Daniele Manin («dittatore»
provvisorio di Venezia, alla Ricasoli) e ad altri terroristi.
In questa lista di venerati padri del Risorgimento manca vistosamente
un attivissimo eroe: Filippo Curletti, funzionario di polizia politica
(la futura Digos), protetto di Cavour e suo strumento.
Su suo incarico, Curletti organizzò infaticabilmente spontanee
sollevazioni popolari nei principati italiani, onde Vittorio Emanuele
potesse dire di «non essere insensibile al grido di dolore»
che si levava dagli italiani oppressi dall'oscurantismo,
e giustificasse l'intervento dell'armata piemontese.
Curletti organizzò sollevazioni ad Ancona, Perugia, Fano,
Senigallia, arruolando per la bisogna delinquenti comuni ed evasi.

Come ci riusciva?
Lo si scoprì dopo la morte di Cavour, quando Curletti perse
il suo protettore e fu processato. Origine del processo
fu un pentito - il primo pentito della storia italiana -
Vincenzo Cibolla, capo della «banda della Cocca»,
una gang di delinquenti che terrorizzò Torino negli anni '50.
Catturato, Cibolla rivela che il primo informatore della banda,
nonchè socio nella spartizione del bottino di furti e rapine,
era il funzionario di polizia Curletti.
La banda della Cocca era il prototipo della Banda della Magliana
o delle cosche mafiose che, spesso, hanno dato una mano con attentati
e omicidi ai servizi deviati (cosiddetti) nella strategia della tensione.

Condannato a vent'anni in contumacia (era riparato in Svizzera)
Curletti pubblica un suo memoriale esplosivo. Raccontando come
il Farini, allora dittatore provvisorio di Parma, gli chiese di organizzare
l'eccidio del colonnello Anviti (l'ex capo della Polizia di Maria Luigia
d'Asburgo-Lorena), come linciaggio «popolare».

«Noi non possiamo toccarlo senza che sorgano clamori -
disse Farini a Curletti - Sarebbe mestieri che la popolazione
si addossasse l'affare. Voi mi avete compreso». Curletti chiosa:
«Io partii, e si sa quel che avvenne».

Il colonnello Anviti, riconosciuto dal «popolo», fu trascinato,
fra botte e coltellate e canti patriotticci, «al Caffè degli Svizzeri»
di Parma, dove «fu collocato sopra un tavolo e gli fu tagliata la testa
mentre non era ancor tutto spento».
«Alla testa insanguinata si è voluto far trangugiare una tazza di caffè,
le si è posto un sigaro in bocca e in questo modo fu portato sulla colonna
che sorge sui uno dei quadrati della nostra piazza grande», scrisse
il giornale «La Civiltà Cattolica». Il cadavere scempiato
fu trascinato nelle strade per quattro ore (3).

Chi erano i patrioti che compirono quest'atto di giustizia popolare?
«Un centinaio di precauzionali invecchiati nel vizio e organizzati
al delitto», che il dittatore Farini (padre della patria) «fu sollecito
a scarcerare dal forte di Castelfranco».

MAZZETTE E TANGENTI -
Curletti è uno dei pagatori che - sotto il comando dell'ammiraglio
Persano - corrompono con denaro gli alti ufficiali dell'esercito
borbonico, onde preparare il successo dei «Mille».
Carlo Persano è un pessimo comandante navale (si farà
sconfiggere a Lissa, nel 1860, dalla inferiore flotta austriaca)
ma un ottimo sovversivo, in appoggio alla "epica" spedizione
garibaldina dei Mille nel Sud.
Nell'agosto 1860 scrive a Cavour «Ho dovuto, eccellenza,
soministrare altro denaro. Ventimila ducati al Devincenzi,
duemila al console Fasciotti, quattromila al comitato...».
In compenso, dice, «possiamo ormai far conto sulla maggior
parte dell'officialità della Regia Marina napoletana».

Difatti.
Ottocento «straccioni» (dice Ippolito Nievo, che era
uno di loro) occupano Palermo senza colpo ferire.
E penetrano nel regno di Napoli come coltelli nel burro.
Massimo D'Azeglio scrive a un nipote il 29 settembre 1860:
«Quando si vede un'armata di 100 mila uomini vinta colla
perdita di 8 morti e 18 storpiati, chi vuol capire, capisca».

Garibaldi stesso dice chi sono i suoi patriottici guerrieri
in camicia rossa: «tutti generalmente di origine pessima
e per lo più ladra... con radici nel letamaio della violenza
e del delitto».

Infatti, il governo garibaldino che soppianta il re di Napoli
è così descritto da Boggio: «Lo sperpero del denaro pubblico
è incredibile... somme favolose scompaiono colla rapidità
con cui furono agguantate dalle casse borboniche...
Si sciupano milioni, mentre ai soldati vostri (scrive Boggi
a Garibaldi) si nega persino il pane. I soldati, lasciati privi
del necessario, sono costretti a procurarselo come possono,
d'onde i soprusi, gli sperperi, le violenze che irritano le popolazioni».

SONO COSTRETTI -
Anche il capo della Digos Curletti, spedito a Napoli "liberata",
attesta: «Trovai Napoli nel più incredibile disordine.
L'esercito rigurgitava di donne: milady White e l'ammiraglia Emilia
ne erano le eroine.
Le notti scorrevano nell'orgia.
Garibaldi non era più riconoscibile; quando non soddisfava
la sua smania di popolarità facendosi acclamare nelle strade,
passava il tempo fra milady e Alessandro Dumas...».

Già allora, veline e puttane, nani e ballerine. Nel governo
garibaldino, il ministro Franceso Crispi minaccia il ministro
Cordova puntandogli una pistola al petto.
E così via.

Garibaldi si monta la testa, e sogna di formare una repubblica
mazziniana, tradendo il Piemonte monarchico. Il già citato Boggio
lo invita a meditare: da chi ebbe «i cannoni e le munizioni da guerra?
E le somme ingenti di denaro? Perchè, Generale, entraste in Napoli
senza colpo ferire?».
E gli ricorda che non è lui ad aver fatto in modo
che «i capi delle truppe» disperdessero «le loro truppe».

E Pietro Borreli, massone, scriverà sulla Deutsche
Rundschau nell'ottobre 1882: Garibaldi?:

«Una nullità intellettuale. Gli iniziati sanno che tutta
la rivoluzione in Sicilia fu fatta da Cavour, i cui emissari militari,
vestiti da merciaiuoli girovaghi, percorrevano l'isola e compravano
a prezzo d'oro le persone più influenti».

Lo stesso apparato che propagandò Garibaldi come il purissimo eroe
dei due mondi, lo derideva come nullità e incapace, e diffondeva la voce
che, se il biondo eroe s'era lasciato crescere la bionda chioma a coprirsi
le orecchie, era perchè gliele avevano tagliate in Sudamerica
per un furto di cavalli.

CAPITALISTI SENZA CAPITALE -
L'Eroe capì l'antifona, e pronununciò il suo «obbedisco».
Se ne andò a Caprera, lasciando il Sud a Vittorio Emanuele.
Ma non senza prima aver ceduto l'appalto delle Ferrovie Meridionali
a Pier Augusto Adami e ad Adriano Lemmi, entrambi finanzieri ebrei
di Livorno, nonchè cognati, che avevano pagato parte dei conti
del Biondo Nizzardo. Una concessione in cui lo Stato avrebbe
dovuto accollarsi tutte le perdite di gestione.

Il deputato Poerio disse in parlamento: tale contratto «vincola
per lunghi anni l'avvenire di quelle provincie (meridionali),
le sottopone all'onere immenso di 650 milioni di lire, ed assicura
inoltre alla casa concessionaria l'utile netto del 17% senza sborsare
un obolo del proprio».

Come poi faranno gli Agnelli, i Pirelli, i Bastogi, capitalisti
mantenuti col capitale di Mediobanca. Adriano Lemmi diverrà poi
Gran Maestro della Massoneria[lo fu pure Garibaldi...] nonchè
padrone del monopolio dei tabacchi.

BROGLI ELETTORALI -
Nonostante le rivolte che scoppiano dovunque, le fucilazioni
e le repressioni ferocissime (4), i «popoli del Sud»
(e della Chiesa) pare votino per l'annessione ai Savoia nei plebisciti
che vengono indetti nei territori appena conquistati, nel 1860.
A votare sono quasi 3 milioni di persone, e il 98% si pronuncia
per Vittorio Emanuele. E' un risultato di quelli che oggi si chiamano
bulgari, anzichè savoiardi.
Un pochino strano se si pensa che l'anno dopo, nelle prime elezioni
politiche dell'Italia unita del 1861, dove il diritto di voto è basato
sul censo e possono votare solo il 2 % dei sudditi (ossia 419.938 maschi)
va effettivamente alle urne solo il 57% degli aventi diritto,
ossia 242 mila individui.

Il miracolo lo spiega ancora nel suo memoriale il capo
della paleo-Digos Curletti, vero misconosciuto eroe del Risorgimento:
«Ci eravamo fatti rimettere i registri delle parrocchie per formare
le liste degli elettori. Preparammo tutte le schede (...) Un picciol
numero di elettori si presentarono a prendervi parte; ma, al momento
della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente
in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti (...)
Chiamavamo ciò completare la votazione (..). Per quel che riguarda
Modena, posso parlarne con cognizione di causa, poichè tutto
si fece sotto i miei occhi e sotto la mia direzione.
Le cose non avvennero diversamente a Parma e a Firenze».

Non essendoci scrutatori dell'opposizione (quale? Ogni opposizione
era fuorilegge), essendo i chiamati a votare per lo più analfabeti
e ignari del metodo elettorale e quindi astensionisti in massa,
la cosa potè passare con facilità.
I giornali inglesi inneggiarono al trionfo della democrazia.

ELEZIONI INVALIDATE -
Del resto, già nel Piemonte del 1857 Cavour aveva mostrato
come rispettasse le urne. Votarono allora, col sistema censitario,
solo 69.470 cittadini; il 67% degli aventi diritto, che erano
il 2,4% della popolazione.
Nonostante ciò, a causa delle esazioni fiscali, della miseria
e insicurezza (criminalità altissima) e dei debiti pubblici enormi,
in quel voto addomesticato di soli benestanti, l'opposizione
(cattolica) passò dal 20,4% al 40,2%.
Il governo Cavour rischia di trovarsi di fronte una vera opposizione,
e persino di cadere.

La soluzione è presto trovata: il capo del governo Camillo Benso
invalida l'elezione di 22 deputati dell'opposizione. La votazione,
afferma il 23 dicembre 1857, è il segno che «il partito clericale
sta agendo nell'ombra...per far tornare indietro la società,
per impedire il regolare sviluppo della civiltà moderna».
Colpa dei preti, che nei confessionali hanno indotto a votare
contro la Patria. Cavour: «Si denuncia l'uso dei mezzi spirituali
nella lotta elettorale». Questa è la motivazione per cui le elezioni
sono invalidate: abuso di mezzi spirituali...

IN ATTESA DI GIUDIZIO -
Nell'inverno 1862-63 Lord Henry Lennox, un ammiratore
del Risorgimento, visitò le prigioni di Napoli sotto il governo
piemontese, strapiene di ribelli al regime. Ne riferì alla Camera
dei Comuni. Sulla prigione di Santa Maria:

«... pensavo che i prigionieri fossero stati processati, prima
di essere condannati; mi spiace dirlo, non era così. Un ungherese
di nome Blumenthal, in fluente francese, mi disse che si trovava
da 18 mesi in cella senza essere stato nè processato nè interrogato (...).
Quando lasciai la sua cella, altri prigionieri si affollarono attorno a me
e al mio accompagnatore chiedendoci in italiano: 'Perchè siamo
in prigione? Perchè non ci processano? (...). Il direttore mi rispose
che non sapeva cosa dire: aveva sotto la sua sorveglianza 83 persone
mai processate, delle quali circa la metà non erano nemmeno
state sottoposte a interrogatorio. Erano detenuti senza sapere
di quale delitto fossero accusati (...). Molti di loro erano uomini
dall'aspetto misero, balbettanti, i capelli bianchi, appoggiati a grucce,
poveri disgraziati desiderosi solo di finire i propri giorni in un ospizio».

Visita alla prigione La Concordia:

«...C'erano un vescovo cattolico romano e due preti, tirati giù
dal letto un mese prima, e destinati a trascorrere i propri giorni
in compagnia di criminali incalliti (...). C'era un uomo in prigione
da due anni, un vecchio vicino ai settant'anni, curvo per l'età
e costretto ai pasti carcerari: uno al giorno e solo acqua da bere».

Una prigione a Salerno:

«... Il direttore fu estremamente cortese e, saputo il motivo
della mia visita, si augurò che potesse recare qualche positiva
conseguenza.
Soggiunse che era costretto in quel momento a tenere 1.359 prigionieri
in un carcere che poteva ospitarne 650: tale affollamento aveva
provocato un'epidemia di tifo che aveva ucciso anche un medico
e una guardia».

Visita alla prigione della Vicaria:

« Dei 1000 prigionieri, 800 erano confinati in cinque stanze
non divise da porte, ma da sbarre di ferro, cosicchè gli effluvii
emanati da quegli 800 uomini circolavano liberamente da un capo
all'altro (...). Ma torniamo al cortile della prigione. Per fortuna
non capita spesso di vedere quello che ho visto, uno spettacolo
he non dimenticherò mai... Non appena mi videro, i detenuti
si precipitarono verso di me con grida pietose e reiterate,
con gli occhi iniettati di sangue e le braccia protese,
implorando non la libertà, ma il processo; non la clemenza,
ma una sentenza (...).
Ho conversato con detenuti in attesa di giudizio che mi dicevano:
'Se almeno potessimo avere qualche indizio della sentenza
che ci attende, la nostra disperazione non sarebbe così nera.
Alla fine di ogni cammino, per quanto duro, è possibile scorgere
una scintilla di speranza; ora invece c'è solo disperazione».

HOLODMOR MERIDIONALE -
Il francese Charles Garnier raccolse un buon numero di proclami
emessi dai comandanti piemontesi durante la guerra al brigantaggio,
ed affissi nei paesi.
Generale Galatieri, dal suo quartier generale di Teramo,
giugno 1861: «Vengo a difendere l'umanità e il diritto di proprietà,
e sterminare il brigantaggio. Chiunque ospiti un brigante
sarà fucilato senza distinzione di sesso, età, condizione;
le spie faranno la stessa fine.
Chiunque, essendo interrogato, non collabori con la forza pubblica
per scoprire le posizioni e i movimenti dei briganti, vedrà
la sua casa saccheggiata e bruciata».
Proclama del maggiore Fumel, febbaio 1862:

«... Coloro che diano asilo o qualsiasi altro mezzo di sussitenza
ai briganti, o li vedano o sappiano dove han rovato rifugio
e non informino le autorità civili e militari, saranno immediatamente
fucilati. Tutti gli animali dovranno essere condotti nei depositi centrali
con scorta adeguata.

Tutte le capanne (usate dai pastori, ndr) dovranno essere bruciate.
Le torri e le case di campagna disabitate dovranno essere scoperchiate,
e le entrate murate nel termine di tre giorni; dopo lo spirare
di tale termine, esse saranno bruciate senza fallo e gli animali
privi di custodia appropriata saranno uccisi.

E' proibito portare pane o altro genere di provviste
fuori dell'abitato del comune; i trasgressori saranno considerati
complici dei briganti. La caccia viene temporaneamente proibita.

Il sottoscritto non intende riconoscere, date le circostanze,
più di due schieramenti: pro o contro i briganti!
Pertanto classificherà tra i primi gli indifferenti e contro di loro
adotterà misure energiche, perchè in tempo di emergenza
la neutralità è un crimine.

I soldati sbandati che non si presentassero entro quattro giorni,
saranno considerati briganti».

Il colonnello Fantoni, nel proclama emesso da Lucera il 9 febbraio
1862, nel primo articolo, vietava l'accesso, anche a piedi, a tredici
foreste, fra cui quella del Gargano.

«Ogni proprietario terriero, fattore o mezzadro sarà obbligato, subito
dopo la pubblicazione di questo avviso, a ritirare da dette foreste tutti
i lavoratori, pastori, pecorai, eccetera, e con loro le greggi;
dette persone saranno obbligate a distruggere tutte le stalle
e le capanne erette in questi luoghi.

D'ora in avanti nessuno può portar fuori dai distretti circonvicini
alcuna provvista per i contadini, e a questi ultimi non sarà permesso
portare più cibo di quanto sia necessario per un singolo giorno
ad ogni persona della loro famiglia.

Coloro che non obbediranno a questo ordine, che entrerà in vigore
due giorni dopo la pubblicazione, saranno, senza eccezione alcuna
di tempo, di luogo e persona, fucilati».

Prefetto De Ferrari, di Foggia e Capitanata, 1863: «... Tutti
gli animali del territorio saranno immediatamente radunati
in poche località a fine di essere meglio custoditi.
Tutte le piccole fattorie saranno abbandonate, cibo e foraggio
rimossi e gli edifici murati. Nessuno potrà andare nei campi
senza autorizzazione scritta del sindaco e scorta sufficiente».

L'8 luglio, il prefetto Ferrari aggiunge un altro divieto: «I cavalli
possono essere ferrati solo in pubblico e in officine autorizzate; nessun
maniscalco o produttore di ferri e chiodi poteva allontanarsi dal proprio
distretto senza un documento, che indicasse la via che avrebbe percorso,
l'ora della partenza e l'ora del ritorno. Chiunque possedesse ferri
e chiodi per la ferratura doveva farne denuncia alle autorità».

Non erano vane minacce. Il 29 aprile 1862 il deputato Giuseppe
Ferrari disse alla Camera: «Non potete negare che intere famiglie
vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle
provincie, degli uomini assolti dai giudici, che restano in carcere.
Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo
preso con le armi in pugno viene fucilato...
Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue,
non so più come esprimermi».

Fu la rovina della sussistenza economica, la messa alla fame;
decine i paesi incendiati, innumerevoli le atrocità, di cui per lo più
è stata soppressa la memoria, che ricordano da vicino lo sterminio
dei contadini in Ucraina, operato da Stalin e Kaganovich.

Di una atrocità si sa, perchè ne discusse la Camera dei Comuni
britannica: a Pontelandolfo in Molise, trenta donne che si erano rifugiate
intorno alla croce eretta nella piazza del mercato, sperando di trovarvi
scampo dagli oltraggi, furono tutte uccise a colpi di baionetta.
Persino Napoleone II, che aveva dato il suo potente appoggio armato
a Cavour per la conquista dell'Italia, il 21 luglio 1863 scriveva
al suo generale Fleury:

«Ho scritto a Torino le mie rimostranze; i dettagli di cui veniamo
a conoscenza sono tali da alienare tutti gli onesti alla causa italiana.
Non solo la miseria e l'anarchia sono al culmine, ma gli atti
più indegni sono considerati normali espedienti: un generale
di cui non ricordo il nome, avendo proibito ai contadini di portare
scorte di cibo quando si recano al lavoro dei campi, ha decretato
che siano fucilati tutti coloro che vengono trovati in possesso
di un pezzo di pane.
I Borboni non hanno mai fatto cose simili.
Napoleone».

Dato che l'Italia è nata così, non ci si può stupire che oggi
sia così. In fondo, può essere consolante: non siamo peggiorati,
eravamo peggiori fin dall'inizio.
Da centocinquant'anni questo merdaio originale, anzichè essere
discusso e servire a un severo esame di coscienza nazionale (4),
viene nascosto, e verniciato in similoro con la ripugnante tronfia
retorica risorgimentale emanata direttamente dalle logge massoniche;
chi obietta e riporta i dati del merdaio viene seppellito dalle accuse
di «integralismo cattolico», «revisionismo» vietato, reazione.

La retorica risorgimentale ci sommergerà con le sue mucillagini
dolciastre e infette anche nelle imminenti Celebrazioni per i 150 anni
dell'Unità d'Italia, per cui sta spendendo 800 milioni di euro
il Comitato celebrativo: presieduto da un livornese come lo erano
i banchieri massoni Adami e Lemmi.

Giornalisti a ciò addetti, e ben istruiti, già si sono portati avanti.
Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo già vagano nei luoghi santi
della retorica massonica, Calatafimi, Teano, eccetera, per sgridare
«noi italiani senza memoria».
Noi abitanti di un Paese «che sembra aver buttato via l'unica epopea
che aveva. Quella del 'Risorgimento'. Il grande romanzo culturale,
militare e sociale».
Si domanda Stella: «E' questa l''Italia redenta, pura di ogni macchia
di servitù e di ogni sozzura d'egoismo e corruzione' che immaginava
Mazzini?».
Stella e Rizzo ci scriveranno un libro di successo assicurato:
noi italiani senza memoria, appunto.

Senza memoria? L'avete voluto voi: rivendichiamo la memoria
censurata. Lo facciamo proprio in quanto italiani: quella menzogna
sanguinosa che cova nel cuore italiano è precisamente la frattura interna
che rende l'Italia corrotta, moralmente malata, incapace di reggersi
nel mondo con dignità, senza spezzarsi ai primi scontri con la storia.

Il 150enario da cui Ciampi guadagna e fa guadagnare i suoi compari,
facciamolo diventare una rivendicazione di verità: verità sul Risorgimento!
Perchè senza verità non ci sarà alcun risorgimento possibile. La verità
sola, e intera, può essere l'inizio della riconciliazione.

"[.] per duemila anni l'Italia ha portato in sé un'idea universale
capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta,
non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un'idea reale,
organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo:
l'idea dell'unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica,
poi la papale.
I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo
in Italia comprendevano che erano i portatori di un 'idea universale,
e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano.
La scienza, l'arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo
significato mondiale.
Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata,
ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci
con l'Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia
del conte di Cavour?
E' sorto un piccolo regno di second'ordine, che ha perduto
qualsiasi pretesa di valore mondiale, un regno che non significa
letteralmente nulla, con un'unità meccanica e non spirituale,
e per di più pieno di debiti non pagati, e soprattutto soddisfatto
del suo essere un regno di second'ordine.
Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!"
Fëdor Michajlovic Dostoevskij

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1) Nel Regno delle Due Sicilie la tassazione era la più lieve
d'Europa (-30% di quella inglese, meno 20% di quella francese).
La tassa ammontava, nel 1859, a 14 franchi a testa.
Nel 1866, sotto il regime italiano, erano salite a 28 franchi a testa.
Fu più che raddoppiata la tassa sul macinato (che colpiva i poveri)
«ed estesa a tutte le granaglie, persino alle castagne»; fu estesa
al resto dell'Italia la minuziosa tassazione savoiarda, come
la tassa sulle finestre, «la gabella sulla macellazione del maiale»
e «il dazio sul minimo consumo» (che colpiva chi comprava
un litro di vino per volta, ma non chi ne comprava 25 litri).
Non solo il Regno di Napoli fu il primo a mettere in esercizio
la prima ferrovia in Italia, ma anche il primo telegrafo,
il primo ponte sospeso, i primi fari diottrici moderni furono
costruiti e installati nel regno dei Borboni, da una classe tecnica
evidentemente competente e moderna.
Il primo battello a vapore varato da un arsenale italiano
fu costruito a Napoli. Il giornalista francese Charles Garnier
fornì prove certe del fatto che, nei primi sei anni dell'unità
italiana, alcune delle più prospere manifatture napoletane furono
deliberatamente distrutte per favorire quelle del Nord
(Patrick K. O'Clery, «La Rivoluzione Italiana», Ares, 2000, pagina 374).
2) La confisca dei beni ecclesiastici provocò la sparizione
di quel poco di previdenza e assistenza sociale vigente,
che era tutta e solo caritativa e cattolica; ne risultò un tragico
peggioramento della miseria delle classi povere, con un conseguente aumento
esponenziale della criminalità.
3) A Venezia e a Roma avvennero episodi simili nel 1848.
A Roma Pellegrino Rossi, ministro del Pontefice, fu circondato
dalla folla e accoltellato alla gola sotto gli occhi della Guardia Civica
rivoluzionaria, poi lasciato agonizzare nel palazzo stesso dov'era
il parlamento rivoluzionario.
A Venezia, istigata da Daniele Manin, una folla feroce s'impossessò
del comandante dell'Arsenale, colonnello Marinovich.
Gli operai afferrarono lo sventurato, lo trascinarono giù
per le scale, lo percossero spietatamente, lo trafissero ripetutamente
con la sua stessa spada e con coltelli.
Il poveretto implorò un prete, ma gli venne negato; fu linciato
e fatto a pezzi. Il governo repubblicano definì l'evento
un giudizio di Dio.
E' evidente che questi orrende macellerie furono atti deliberati,
con lo scopo di spargere il terrore tra i legittimisti e i cattolici,
e dissuaderli da ogni resistenza.
Da noi sono ricorrenti i Piazzali Loreto, atti tipici di vili impotenti.
Nel 1814 gli animosi milanesi avevano già massacrato nello stesso
modo Giuseppe Prina, ministro delle Finanze del Regno d'Italia:
con le punte degli ombrelli, per quattro ore, fino a renderne
il corpo irriconoscibile. La folla era guidata dal patriota
nazionalista Federico Confalonieri.
Si veda Patrick K. O'Clery, citato, Ares, 2000,
pagina 142.
4) Il solo Nino Bixio eseguì oltre 700 condanne a morte
senza processo. Da un giornale dell'epoca, L'Unione:
«Bixio ammazza a rompicollo, all'impazzata... fa moschettare
tutti i (soldati e ufficiali) prigionieri stranieri che gli capitano
tra le unghie, e tira colpi di pistola a quei suoi ufficiali
che osano far motto di disapprovazione».
Esecuzioni per stroncare una possibile classe dirigente legittimista:
purghe staliniane ante litteram.

Per esempio ci si dovrebbe chiedere se le burocrazie pubbliche
inadempienti e disoneste che gravano sulla società non abbiamo
ereditato lo spirito di corpo della burocrazia piemontese:
immediatamente estesa all'Italia appena conquistata, essa
non si visse ovviamente come a servizio della popolazione,
ma con la missione di taglieggiarla e controllarla
come corpo ostile, ponendo quanti più ostacoli alla sua iniziativa
libera, ritenuta pericolosa.
Ancor oggi l'apparato burocratico (la Casta) si comporta
rispetto alla società come un nemico occupante.
La stessa riflessione va fatta per le istituzioni in generale.
I Savoia non crearono un sistema giuridico italiano;
si limitarono ad estendere al resto dell'Italia - appunto
come occupanti - il «diritto» piemontese, tanto che a Napoli
si faticò a tradurre le nuove leggi, scritte in italiano approssimativo,
infarcito di francesismi e termini dialettali subalpini.

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