In Piemonte la somministrazione della pillola abortiva RU 486 avverrà, ci assicura la Regione, “seguendo le indicazioni dell’AIFA”, l’Agenzia Italiana del Farmaco e quindi “rispettando la legge”. Peccato però che l’AIFA non abbia diramato linee-guida vincolanti, e che quindi come si rispetti la legge non sia affatto una questione pacifica. Il governo nazionale sostiene che, per rispettare la legge 194 secondo cui si deve abortire soltanto in ospedale, tutto il percorso che va dalla somministrazione della pillola RU486 all’aborto deve svolgersi appunto negli ospedali. La formula del “day hospital” è un modo per eludere l’obbligo di abortire soltanto in ospedale: la pillola sarà sì somministrata in ospedale ma il processo abortivo potrà essere completato a casa propria. In Emila-Romagna è stato esplicitato che, per chi lo desidera, il “day hospital”sarà garantito.
Ora il Piemonte, con la presidente Mercedes Bresso, si accoda all’Emilia Romagna offrendo quel “day hospital” che secondo il ministro Sacconi “non è consentito” e si risolve in un incentivo all’aborto fai da te. Poiché la presidente Bresso si candida alla rielezione, ed è sostenuta anche dall’Udc, a sua difesa si sono levate le voci anche dei discepoli piemontesi di Pier Ferdinando Casini, che denunciano “strumentalizzazioni” e “inquisizioni” ai danni della candidata di centro-sinistra, peraltro da anni in prima linea nella battaglia a favore della pillola abortiva.
Ma perché è così importante rispettare un protocollo che preveda il ricovero della donna dalla somministrazione fino al completamento del percorso abortivo? Non è una questione secondaria né moralistica, né calza evocare a sproposito pratiche inquisitorie. Chi è a favore del “day hospital”, per quanto talora sostenga il contrario, ha a cuore la diffusione di una cultura dell’aborto fai-da-te, trasformato in una privatissima faccenda da sbrigare a casa, banalmente riduttiva: “che sarà mai abortire? È facile come bere un bicchier d’acqua…”.
Il mondo “pro life”, paradossalmente, si appella al rispetto almeno della legge 194 sull’aborto, che pure è una legge ingiusta, perché è persuaso che ci siano responsabilità da condividere, alternative da proporre, aiuti da portare, vicinanza concreta che non ha occasione di applicarsi nella fretta di sette settimane. Sempre che si ritenga davvero un traguardo da raggiungere quello di evitare aborti. Si chiede dunque ai difensori della 194 – fra cui evidentemente non ci annoveriamo – di rispettare almeno quella legge. E il “day hospital” per la “kill pill”, la pillola che uccide, come ha spiegato con ragione il ministro Sacconi, non è compatibile neppure con la legge 194.
Ci sono, poi, molte buone ragioni per considerare l’uso del “day hospital” per la RU486, che ora la presidente Bresso vuole imporre in Piemonte, un vero incentivo all’aborto e un trionfo della “cultura della morte”:
1) Il mifepristone, lo steroide sintetico che è il principio attivo della pillola RU486, ha mostrato di essere un composto chimico che contempla effetti collaterali non trascurabili: 29 morti nelle zone del pianeta dove la sorveglianza farmacologica è alta non sono uno scherzo. Soprattutto quando non si hanno dati attendibili sulle reazioni avverse avvenute là dove l’RU 486 e le prostaglandine sono somministrate in modo massiccio: India e Cina, per esempio, dove vengono anche prodotte su licenza della casa farmaceutica che ne detiene il brevetto. Monitorare attentamente il decorso sintomatologico di una sostanza appena immessa in commercio dovrebbe essere una priorità scientifica del Sistema Sanitario Nazionale. E i luoghi preposti al monitoraggio compiuto dalla scienza medica sono gli ospedali.
2) E' brutale costringere le donne, con l’illusione della “facilità” e il capovolgimento semantico della nozione di privatezza, a monitorare da sole l’espulsione del “prodotto del concepimento”, cioè del bambino che è ucciso con l’aborto, e ad assumere antidolorifici di auto-somministrazione, e a giudicare se le perdite ematiche hanno carattere di emorragia oppure sono nella “norma”. Si presenta come “progresso” la possibilità di chiamare l’ospedale 24 ore su 24, ma non è un servizio innovativo: si chiama guardia medica, da molti decenni, ed è attivo anche per il mal di gola.
3) Non si può costringere qualcuno ad un ricovero coatto (TSO a parte, il trattamento sanitario obbligatorio: ma ci vuole un decreto del sindaco, per motivi seri e documentati di incapacità di giudizio e di autogestione del paziente). Se un medico tranquillizza la paziente (“non c’è problema, vada serena a casa”), quale direttore sanitario gli rimprovererà di risparmiare da tre a quindici giorni di costoso ricovero? La modalità del “day hospital” è troppo evidentemente più vantaggiosa in termini di costi a carico delle strutture pubbliche: difficilmente, una volta introdotta, si rinuncerà a questa possibilità, che diventerà la routine e la norma.
4) La RU 486 sta diventando anche il modo di delegare alle donne tutto il problema aborto, negandone la valenza di responsabilità e di competenza sociale. E dopo trent’anni di aborti chirurgici, anche i chirurghi sono un po’ in crisi: non è indolore aspirare feti e embrioni tre volte a settimana. Per la donna abortire è un trauma, si spera unico (anche se le statistiche ci dicono che è spesso ripetuto), ma far abortire dieci-venti-trenta volte a settimana per il medico è una pratica psicologicamente devastante. Scrivere una ricetta è decisamente più facile. L’aborto chimico è anche una delega di responsabilità del mondo medico. Non abbiamo bisogno di scaricabarili, ma di una cultura della vita.
Chiara Mantovani, di Alleanza Cattolica, membro del Consiglio Direttivo Nazionale di Scienza & Vita
martedì 16 febbraio 2010
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Sembra che a far decidere la Binetti di uscire finalmente dal PD sia stata la candidatura della Bonino alla regione Lazio.
RispondiEliminaBenissimo.
Peccato, però, che l'UDC in Piemonte sostenga la Bresso. Se non è zuppa...