Come ogni sedicente moralizzatore, il giornalista Marco Travaglio giudica tutti con severità draconiana, salvo se stesso e i propri amici. Non ha l'ipocrisia di Totò Di Pietro - incarnazione vivente del detto «predica bene e razzola male» - ma si crogiola nell'incoerenza. Se però glielo fai osservare, strologa. È successo giovedì ad Annozero con uno strepitoso battibecco tra quattro giornalisti di lingua pronta. Da un lato, Travaglio e Norma Rangeri, del Manifesto, critici di Guido Bertolaso di casa al Salaria Sporting Center, proprietà di un imprenditore coinvolto nelle intercettazioni sulla Protezione civile. Con spreco di retorica i due hanno sostenuto che la frequentazione era inopportuna, i massaggi ambigui, ecc.
Dall'altra, Maurizio Belpietro, direttore di Libero, e Nicola Porro, nostro vice direttore, che persa la pazienza sono sbottati dicendo a Travaglio: «Anche tu sei andato in giro con gente che poi è stata condannata». Come dire: può capitare a tutti di sbagliare compagnie. Marco, messo all'angolo, si è incappiato di brutto: «Io non distribuivo denaro pubblico», mai fatto nulla di male, ecc. Il sottinteso era che Bertolaso invece ha scialato soldi non suoi. Ossia, in puro stile travagliesco, la sentenza prima giudizio. Ne è nato un alterco e Marco, che di norma fa perdere le staffe agli altri, le ha perse lui. «Prenditi un’aspirina», gli ha suggerito Porro. «Come ti permetti, vergognati. Liberali del cavolo», ha reagito Travaglio. «Sei un cretino», ha replicato Porro divertito e perfidamente felice di vedere Marco paonazzo anziché serafico com’è di solito. «Sei un poveraccio», ha urlato Travaglio minacciando di andarsene. Santoro si è intromesso: «Fermi, zitti e che cavolo!» e ha riportato la calma. Questo il clou della trasmissione.
Domanda: perché Marco si è inviperito all'accenno delle sue frequentazioni? Azzardo due motivi. Il primo è che ha abilmente sollevato un polverone perché la vicenda allusa non fosse rievocata. Il secondo è che ha creato un’industria editoriale - decine di volumi, prefazioni, articoli, conferenze - basata sulle accuse agli altri. Non poteva perciò permettersi di vestire lui l'abito dell'imputato mettendo a rischio un fatturato milionario e un seguito di fanatici che lo considerano santa Colomba vergine. Arrabbiandosi a freddo ha difeso il tesoro di famiglia. Qual è l'aneddoto rimasto sulla punta delle lingue di Belpietro e Porro?
Lo rivelò per primo, un paio di anni fa, Giuseppe D'Avanzo, di Repubblica, che è della stessa pasta torquemadesca di Marco ma suo acceso rivale. Nel 2002, Travaglio si fece consigliare una villeggiatura estiva da un sottufficiale della Dia, Giuseppe Ciuro. Costui, gli fornì il nome di un albergo di lusso e trascorsero insieme la vacanza. Tempo dopo, Ciuro fu condannato a quattro anni e sei mesi per favoreggiamento di Michele Aiello, il «re delle cliniche» poi condannato a 14 anni per mafia. Questa è la frequentazione «sbagliata» allusa da Belpietro e Porro. «Io che ne sapevo?», si è sempre difeso Marco. Già, ma che ne sapeva Bertolaso del titolare del Centro massaggi, convenzionato per di più col ministero dell'Interno? Questi sono i due pesi e due misure di stampo travagliesco. Nella villeggiatura siciliana c'è di più. Marco sostiene di avere pagato lui, e salato, il conto dell'albergo. Ma il difensore di Aiello lo smentisce. «A saldare fu il mio cliente», ha detto il legale.
Se è vero, l'intemerato Travaglio e famiglia si sono goduti gratis le ferie a spese di un mafioso. Insomma, è la solita storia: chi si impanca rischia di spiaccicarsi. Se Marco non vedesse mafiosi e disonesti ovunque, chiunque sarebbe disposto a riconoscere la sua buona fede. Essendo invece uno che pensa di sapere tutto degli altri, non è creduto se poi dice di ignorare ciò che riguarda lui. La possibilità di cadere in trappola o vale per tutti, Bertolaso compreso, o per nessuno, neanche per la vergine Colomba.
Travaglio è fatto così. Sempre in tv, due anni, fa accusò Renato Schifani, presidente del Senato, di essere amico di un mafioso, tale Mandalà. In realtà Schifani lo aveva frequentato nel 1979, successivamente lo perse di vista. Mandalà fu poi accusato di mafia nel 1998. Ma per Marco, il senatore doveva già sapere quello che sarebbe accaduto vent’anni dopo e guardarsi, fin dagli anni giovanili, dal frequentare il futuro mafioso. Un ragionamento a metà strada tra l'imbecillità e la più furiosa malafede. Se tanto mi da tanto, poteva aggiungere che Schifani, prevedendo la sua nomina a presidente del Senato nel 2008, doveva tanto più vagliare le sue amicizie del 1979. Da manicomio.
Poi, però, quando al suo sodale Di Pietro capita una cosa simile, Marco cambia tattica. Un mese fa esce la foto del 1992 di un pranzo di Totò con diversi 007, tra cui l'agente Bruno Contrada. Sette giorni dopo l'istantanea, Contrada fu accusato di mafia. «E io che ne sapevo prima?», si è difeso Di Pietro all'uscita della vecchia foto. «Giusto. Che ne sapeva?», si precipita a dargli manforte Travaglio e sul suo giornale, il Fatto, confeziona articolesse con un’unica tesi: Tonino era all'oscuro di chi fosse Contrada, non ha mica la palla di vetro, ma che si pretende, ecc. Così ci risiamo: il nemico Schifani doveva sapere chi era Mandalà vent'anni prima che fosse accusato; l'amico Di Pietro poteva invece non sapere quello che sarebbe successo all'agente sette giorni dopo. La sagra dell'ipocrisia. Lo dico solo per sottolineare l'attitudine travagliesca a truccare le carte non essendo, quanto a Contrada, affatto convinto delle sue colpe. Questo quarantacinquenne tribuno dalle molteplici attività editoriali basate sulle soffiate delle Procure, le sentenze, le arringhe dei Pm, è un torinese affiliato in origine alle parrocchie.
Alunno dei salesiani, debuttò nel giornalismo sulla rivista diocesana, Il nostro tempo. Era già allora arrabbiato ma di ire opposte alle odierne. Fortemente anticomunista, stava a mezza strada tra Msi e reazionarismo ecclesiale. Era un cattolico tradizionalista, sosteneva la messa in latino, denigrava preti operai e messe rock. La prima scrittura seria sul palcoscenico del giornalismo l’ebbe al Giornale di Montanelli, per intercessione di Giovanni Arpino. Si occupava di sport e tifava per il Cav contro De Benedetti ai tempi della scalata Sme. Seguì Montanelli quando Indro ruppe col Giornale e, in simbiosi con lui, cominciò a odiare il Cav. Poi ha abbracciato il giustizialismo a senso unico. La scelta lo ha fatto ricco e ci è rimasto impiccato.
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