"A che cosa serve il Sindacato?" Se l’è chiesto qualche anno fa il Professore Ichino, tramutando la domanda nell’interessantissimo libro in cui spiega(va) che il sistema sindacale italiano, bloccato dai suoi paradossi, genera mostri. Mirando con l’obiettivo al campo della politica economica e sociale, dove pur assiduo e vigoroso è il coinvolgimento sindacale, "a chi serve il Sindacato?".
Per definizione il Sindacato è un organismo di rappresentanza. Sua finalità, infatti, è la tutela degli interessi collettivi degli aderenti. Quindi lavoratori, per tradizione storica; ma pure pensionati (ex lavoratori) e disoccupati (sempre lavoratori sono sebbene in standby). Non un unico e solo interesse dunque: quello dei lavoratori, quello dei pensionati o quello di chi attende di entrare nel mondo del lavoro. Ma una pluralità d’impegni – in parte inconciliabili – nei confronti di più classi di aderenti (i tesserati), dove ha prevalenza, giocoforza, l’interesse specifico della collettività più numerosa. Cosa pesa nell’indirizzare le lotte di rivendicazioni sociali, dunque, sono le tessere di adesione.
Osservando i dati della campagna 2008 (sono quelli definitivi disponibili; i dati del 2009 non ancora sono stati pubblicizzati), la Cgil si dimostra come un Sindacato di pensionati, la Uil come quello di lavoratori e la Cisl a metà, tra lavoratori e pensionati.
Il tesseramento del 2008, infatti, mostra che la Cgil è stata la sigla preferita dai pensionati (con il 52,23%) rispetto a lavoratori attivi (con il 47,42%) e disoccupati (con un misero 0,35%). Su oltre 5,7 milioni di tessere, quasi 3 milioni sono possedute dai pensionati, 2 milioni e settecentomila dai lavoratori e soltanto 20 mila (!) dai giovani in attesa di occupazione. La Uil, invece, si mostra come sigla preferita dai lavoratori (con il 58,55%) con 1,2 milioni di tessere su un totale 2 milioni e 100 mila aderenti. Situazione più equa (tra lavoratori e pensionati, ma non per i disoccupati) è quella della Cisl, contesa tra pensionati (per il 50,13%) e lavoratori (48,83%) e con scarso appeal dei disoccupati (1,04%). Su oltre 4,5 milioni di tessere, 2,2 milioni sono di pensionati e lavoratori e soltanto 46 mila (!) dei giovani in attesa di occupazione.
Il dato comune alle tre principali sigle sindacali è la scarsa rappresentatività dei giovani, se per tali intendiamo le persone in attesa di occupazione o alla ricerca della prima occupazione. Tirando le somme, gli iscritti a Cgil, Cisl e Uil ammontano complessivamente a più di 12 milioni di persone: 6,2 milioni con un posto di lavoro (si definiscono attivi) e 5,7 milioni con una pensione; quello che resta (qualche centinaia di migliaia di persone) sono senza alcuna sicurezza: né pensione e né posto di lavoro.
A chi serve, dunque, il Sindacato? La risposta, adesso, potrebbe essere più scontata. Se si tratta di discutere di riforma delle pensioni è ovvio che i Sindacati avranno maggiore (esclusivo) interesse a difendere i diritti di chi è già pensionato e di chi, ora lavoratore, ben presto accederà alla pensione. A restare orfani di rappresentanza, invece, sono i giovani. Un esempio? L’ultimo protocollo sul Welfare, quello del luglio 2007. In quell’occasione i Sindacati hanno dato il placet a una riforma che favorisce il prepensionamento a 100 mila lavoratori, traslando tutti gli oneri sulle spalle delle giovani generazioni: da un lato rincarando la dose contributiva per i giovani in rodaggio alla ricerca di un’occupazione più stabile (i 5 punti percentuali di aumento dell’aliquota per i parasubordinati); dall’altro allontanando il diritto alla pensione.
Stesso registro, evidentemente, c’è da attendersi quando si cambia musica. Articolo 18? Intoccabile, hanno sempre detto i Sindacati. Rafforzando, così, quel "diritto" alla stabilità (senza eccezioni) del posto soltanto a chi un lavoro già ce l’ha, ma calpestando gli interessi di chi, invece, sgomita per entrare nel mondo del lavoro e per restarci con un’occupazione dignitosa: i giovani. Sempre e solo i giovani.
"A chi serve, dunque, il Sindacato" può essere la provocazione silenziosa delle giovani generazioni. Perché in un sistema qual è il nostro, che nelle scelte di politica economica predilige il confronto e la condivisione delle rappresentanze sociali (la cosiddetta concertazione), i giovani sono una generazione del tutto invisibile. Chi li organizza i bamboccioni? Chi li rappresenta? Chi si fa carico di promuovere e difendere le loro posizioni e i loro diritti nelle scelte del Paese?
Un ruolo del Sindacato, forte e centralizzato, non può che contribuire solo negativamente all’equa distribuzione di diritti e doveri tra le generazioni. E rischia di peggiorare quel regime di apartheid che le giovani generazioni sono costrette a subire oggi, grazie al condizionamento smisurato operato ieri dal Sindacato nelle scelte di politica economica e sociale. La società, vista attraverso gli occhi dei giovani, è una sorta di corporativismo. Più moderno, ma pur sempre un sistema illiberale dove sono le affinità generazionali a guidare e regolamentare le sorti del Paese.
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