Mi voglio soffermare sulla forzatura della ricostruzione giuridica fatta dalla procura di Milano per incastrare Mills e di riflesso Silvio Berlusconi. In realtà, le incongruenze sono due: una attiene al tempo del commesso reato e l’altra all’attribuzione fatta a Mills della qualifica di “pubblico ufficiale”. Questi due punti sono importanti per evidenziare la pervicacia dei magistrati di Milano nell’attribuire a Berlusconi la responsabilità su un reato che non è stato mai provato e che ha visto i due gradi di merito palesemente viziati sotto molti aspetti.
Per quanto riguarda la prima incongruenza, essa attiene al tempo del commesso reato, e cioè al momento in cui il reato si è consumato. Perché è importante questo momento? Semplice, perché è da quel preciso istante che decorrono i termini prescrizionali del reato, oltre i quali l’imputato non può essere più giudicato, perché per il nostro ordinamento giuridico anche la giustizia sostanziale (e non processuale) deve avere tempi certi, altrimenti diventa un’ingiustizia.
Il reato di corruzione in atti giudiziari è previsto all’art. 319 ter del codice penale e prevede una pena dai tre anni agli otto anni. Conseguentemente – ai sensi dell’art. 157 c.p. – la prescrizione è pari al massimo della pena edittale, e cioè otto anni. Orbene, il problema che si sono posti i magistrati della Procura milanese è stato quello di trovare un escamotage per post-datare il reato di corruzione in atti giudiziari, al fine di evitare la prescrizione del medesimo a carico di Silvio Berlusconi, visto che secondo logica il momento consumativo di un simile reato si concretizzerebbe nell’istante precedente alla fatto oggetto della corruzione, e cioè – nel caso in questione – prima della resa testimoniale di Mills, avvenuta tra il 1996 e il 1997. Dinanzi a una simile ricostruzione, il rischio di prescrizione già nei primi anni 2000 era concreta. Ecco che allora la Procura milanese si è inventata un curioso quanto criticabile artifizio giuridico: ha ritenuto che il momento consumativo del reato di corruzione nel caso Mills non sia stato precedente alla resa testimoniale dell’avvocato a favore di Berlusconi, bensì sia stato susseguente, e precisamente nel momento in cui il legale ha utilizzato concretamente il denaro (600.000 dollari, datagli non si sa bene da chi e quando); utilizzo avvenuto agli inizi del 2000.
L’impostazione anzi esposta evidenzia la macroscopica forzatura interpretativa: i reati di corruzione hanno come presupposto che il denaro venga ricevuto o promesso prima del fatto oggetto della corruzione. Nel caso Mills non è stata dimostrata né la consegna del denaro (anzi, non è stato proprio possibile affermare che quel denaro l’avvocato l’abbia ricevuto da Berlusconi: l’unico testimone che avrebbe potuto smentire o confermare – Bernasconi – morì alla fine degli anni ‘90) né tanto meno la sua promessa. L’unico appiglio per la Procura era dunque il momento in cui Mills entrava in pieno possesso delle somme contestate, e cioè nel 2000. Da qui la ricostruzione della corruzione in atti giudiziari susseguente. Un’assurdità giuridica che mina dalle fondamenta la certezza del diritto, perché chiunque a questo punto potrebbe essere imputato di un reato corruttivo nel momento in cui riceve del denaro da un suo testimone, anche anni dopo l’avvenuta testimonianza.
Ma questa non è l’unica forzatura illogica dei giudici e dei pm milanesi. Dobbiamo tenere presente che gli artt. 318, 319 e 319 ter c.p. fanno riferimento alla corruzione di un pubblico ufficiale, e cioè di un soggetto che riveste un ruolo pubblico: un giudice, un funzionario, un militare, un sindaco, ecc. Ebbene, nel caso Mills non ci sono pubblici ufficiali che vengono corrotti, perché Mills non è un pubblico ufficiale, è solo un avvocato, per giunta straniero e come tale non iscritto all’albo degli avvocati italiani. Perciò, principio di tassatività vuole che la norma in questione non avrebbe potuto applicarsi al caso Mills, perché manca il soggetto di un reato qualificato tecnicamente come “proprio”. Se delitto pertanto c’è stato, tale delitto era un semplice delitto di falsa testimonianza per Mills e un delitto di intralcio alla giustizia (art. 377 c.p.) per Berlusconi, con pene evidentemente inferiori. Per Berlusconi si sarebbe parlato di una pena nel massimo pari a tre anni (con tutto quel che ne sarebbe conseguito in fatto di prescrizione del reato).
Già da questi aspetti processuali (e in parte sostanziali), emerge con evidenza la contraddittorietà e l’illogicità di questo processo. E questo – beninteso – al di là del merito, e dunque delle prove sulla dazione dei denari, sull’attività corruttiva e sul collegamento tra Mills e Berlusconi che non è affatto emerso, ma che è stato semplicemente dedotto senza tanti complimenti e con scarsa raffinatezza giuridica attraverso un’attività processuale che lascia davvero perplessi, sia per quanto riguarda l’evidente incompatibilità del presidente del Collegio (Gandus) con il processo in questione, sia per quanto concerne le singole attività che ivi si sono svolte: ricordiamo che le testimonianze a discarico furono tutte o quasi respinte, mentre quelle a carico furono tutte accolte.
La Corte di Cassazione ha in parte rimesso ordine: ha annullato la sentenza della Corte d’Appello perché il processo non avrebbe mai dovuto celebrarsi. In tal senso, il Procuratore Generale, pur rilevando la intervenuta prescrizione, ha ritenuto comunque sussistente il reato di corruzione, ravvisando che il momento consumativo avrebbe dovuto essere spostato indietro nel tempo di qualche mese e accogliendo – ed è qui che ancora esistono notevoli perplessità – comunque la tesi del reato di corruzione susseguente in atti giudiziari; soprattutto però quella di reato di corruzione ai sensi del 319 ter per soggetti diversi da un pubblico ufficiale, non previsto dal nostro ordinamento penale.
Va da sé che ora attendiamo la motivazione dei giudici di legittimità per avere lumi in proposito.
Per quanto riguarda la prima incongruenza, essa attiene al tempo del commesso reato, e cioè al momento in cui il reato si è consumato. Perché è importante questo momento? Semplice, perché è da quel preciso istante che decorrono i termini prescrizionali del reato, oltre i quali l’imputato non può essere più giudicato, perché per il nostro ordinamento giuridico anche la giustizia sostanziale (e non processuale) deve avere tempi certi, altrimenti diventa un’ingiustizia.
Il reato di corruzione in atti giudiziari è previsto all’art. 319 ter del codice penale e prevede una pena dai tre anni agli otto anni. Conseguentemente – ai sensi dell’art. 157 c.p. – la prescrizione è pari al massimo della pena edittale, e cioè otto anni. Orbene, il problema che si sono posti i magistrati della Procura milanese è stato quello di trovare un escamotage per post-datare il reato di corruzione in atti giudiziari, al fine di evitare la prescrizione del medesimo a carico di Silvio Berlusconi, visto che secondo logica il momento consumativo di un simile reato si concretizzerebbe nell’istante precedente alla fatto oggetto della corruzione, e cioè – nel caso in questione – prima della resa testimoniale di Mills, avvenuta tra il 1996 e il 1997. Dinanzi a una simile ricostruzione, il rischio di prescrizione già nei primi anni 2000 era concreta. Ecco che allora la Procura milanese si è inventata un curioso quanto criticabile artifizio giuridico: ha ritenuto che il momento consumativo del reato di corruzione nel caso Mills non sia stato precedente alla resa testimoniale dell’avvocato a favore di Berlusconi, bensì sia stato susseguente, e precisamente nel momento in cui il legale ha utilizzato concretamente il denaro (600.000 dollari, datagli non si sa bene da chi e quando); utilizzo avvenuto agli inizi del 2000.
L’impostazione anzi esposta evidenzia la macroscopica forzatura interpretativa: i reati di corruzione hanno come presupposto che il denaro venga ricevuto o promesso prima del fatto oggetto della corruzione. Nel caso Mills non è stata dimostrata né la consegna del denaro (anzi, non è stato proprio possibile affermare che quel denaro l’avvocato l’abbia ricevuto da Berlusconi: l’unico testimone che avrebbe potuto smentire o confermare – Bernasconi – morì alla fine degli anni ‘90) né tanto meno la sua promessa. L’unico appiglio per la Procura era dunque il momento in cui Mills entrava in pieno possesso delle somme contestate, e cioè nel 2000. Da qui la ricostruzione della corruzione in atti giudiziari susseguente. Un’assurdità giuridica che mina dalle fondamenta la certezza del diritto, perché chiunque a questo punto potrebbe essere imputato di un reato corruttivo nel momento in cui riceve del denaro da un suo testimone, anche anni dopo l’avvenuta testimonianza.
Ma questa non è l’unica forzatura illogica dei giudici e dei pm milanesi. Dobbiamo tenere presente che gli artt. 318, 319 e 319 ter c.p. fanno riferimento alla corruzione di un pubblico ufficiale, e cioè di un soggetto che riveste un ruolo pubblico: un giudice, un funzionario, un militare, un sindaco, ecc. Ebbene, nel caso Mills non ci sono pubblici ufficiali che vengono corrotti, perché Mills non è un pubblico ufficiale, è solo un avvocato, per giunta straniero e come tale non iscritto all’albo degli avvocati italiani. Perciò, principio di tassatività vuole che la norma in questione non avrebbe potuto applicarsi al caso Mills, perché manca il soggetto di un reato qualificato tecnicamente come “proprio”. Se delitto pertanto c’è stato, tale delitto era un semplice delitto di falsa testimonianza per Mills e un delitto di intralcio alla giustizia (art. 377 c.p.) per Berlusconi, con pene evidentemente inferiori. Per Berlusconi si sarebbe parlato di una pena nel massimo pari a tre anni (con tutto quel che ne sarebbe conseguito in fatto di prescrizione del reato).
Già da questi aspetti processuali (e in parte sostanziali), emerge con evidenza la contraddittorietà e l’illogicità di questo processo. E questo – beninteso – al di là del merito, e dunque delle prove sulla dazione dei denari, sull’attività corruttiva e sul collegamento tra Mills e Berlusconi che non è affatto emerso, ma che è stato semplicemente dedotto senza tanti complimenti e con scarsa raffinatezza giuridica attraverso un’attività processuale che lascia davvero perplessi, sia per quanto riguarda l’evidente incompatibilità del presidente del Collegio (Gandus) con il processo in questione, sia per quanto concerne le singole attività che ivi si sono svolte: ricordiamo che le testimonianze a discarico furono tutte o quasi respinte, mentre quelle a carico furono tutte accolte.
La Corte di Cassazione ha in parte rimesso ordine: ha annullato la sentenza della Corte d’Appello perché il processo non avrebbe mai dovuto celebrarsi. In tal senso, il Procuratore Generale, pur rilevando la intervenuta prescrizione, ha ritenuto comunque sussistente il reato di corruzione, ravvisando che il momento consumativo avrebbe dovuto essere spostato indietro nel tempo di qualche mese e accogliendo – ed è qui che ancora esistono notevoli perplessità – comunque la tesi del reato di corruzione susseguente in atti giudiziari; soprattutto però quella di reato di corruzione ai sensi del 319 ter per soggetti diversi da un pubblico ufficiale, non previsto dal nostro ordinamento penale.
Va da sé che ora attendiamo la motivazione dei giudici di legittimità per avere lumi in proposito.
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