Certamente uno che sapeva il fatto suo. Evidentemente non di certo un berlusconiano. Chiaramente non suscettibile di sospetti e di faziosità politica. Se il padre della « separazione dei poteri », Montesquieu, scrisse che la magistratura è un potere «così terribile tra gli uomini», aveva piena consapevolezza della insostituibile necessità che essa potesse operare conformemente alla propria natura, cioè per la soluzione delle liti tra privati cittadini o per la punizione dei crimini, ma, proprio per questo, quali spaventosi scenari si profilassero all'orizzonte ogni qual volta la magistratura rischiasse di non funzionare più o abusasse delle proprie facoltà e dei propri poteri.
La disfunzione, per esempio, quando per negligenza non riesce a risolvere le controversie tra privati, comporta il disordine e la violazione della legge (il cittadino cerca di farsi giustizia da sé ), l'abuso, per esempio quando il giudice esce dal seminato e persegue obiettivi politici, comporta la violazione della libertà e l'instaurarsi della tirannia. Scriveva infatti Montesquieu: «Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore».
Le argomentazioni di Montesquieu, allora, non indicano tanto l'indipendenza della magistratura, come molti ritengono, bensì l'indipendenza dalla magistratura; o meglio: solo l'indipendenza dalla magistratura comporta l'indipendenza della magistratura. La seconda è eziologicamente legata alla prima. Non a caso, conclude Montesquieu: «Se fosse unito con il potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore».
Montesquieu, insomma, ribadisce che affinché la libertà non sia minacciata dagli strumenti stessi della società e dello Stato, occorre che siano risolutamente respinte le pretese dei tribunali di interferire nei campi propri del potere politico. Una simile, giusta ed irrinunciabile prospettiva, è stata del tutto perduta dalla dogmatica costituzionale e giudiziaria italiana. L'aderenza di ampie fasce della magistratura al marxismo giuridico (a partire dagli anni '60 e '70 del secolo scorso) che imponeva l'uso politico del sistema giudiziario (si pensi alla teoria «dell'uso alternativo del diritto» così caro a certa dottrina e tanto apprezzato da molte toghe) ha contribuito ad abbandonare la strada della separazione dei poteri così nettamente delineata da Montesquieu, giungendo a legittimare le pretese e le rivendicazioni in ambito politico di una parte della magistratura; la prassi giudiziaria dei «pretori d'assalto», negli anni '70, rappresentò del resto il momento apicale di una simile concezione dello Stato e dell'ordinamento, piegati tutti da esigenze di carattere ideologico e del tutto esterne al diritto ed alla giustizia.
E sebbene il terrificante filone del marxismo giuridico sembrava potesse essere sepolto con la fine dell'Unione Sovietica e la chiusura di Botteghe Oscure, una piccola parte della magistratura non riuscì ad affrancarsi dall'uso politico dei propri poteri. Il caso di Tangentopoli, sebbene abbia contribuito a scoperchiare (anche se solo parzialmente in quanto mai si indagò o solo sulla superficie sulle ingenti somme di denaro che dall'estero, da Mosca, pervenivano al Pci ed ai partiti di sinistra) la corruttela sistematica della Prima repubblica, è esemplare, purtroppo, anche per i casi di uso politico della giustizia.
Questa è la motivazione principale per cui oggi c'è bisogno di una profonda e sistematica riforma del sistema giudiziario. Ecco perché dalle poche notizie che sono circolate sul testo di riforma che il Ministro Alfano presenterà al CdM in settembre emerge come essa contempli giustamente la separazione delle carriere. Del resto, se si è riformato nel 1989 il Codice di Procedura Penale e la stessa struttura del processo penale, ritenendo quella precedente non più efficiente ed adeguata in quanto vecchia di un sessantennio, perché non ritenere che oggi vi sia la stessa esigenza per l'ordinamento giudiziario mai riformato seriamente? Insomma, se le strumentazioni della sala operatoria sono nuove, ma i medici non hanno fatto alcun aggiornamento, non sorge il dubbio che si potrebbero incontrare difficoltà nel corso degli interventi chirurgici? Fuor di metafora: non si è mai pensato che i problemi che affliggono la giustizia italiana (soprattutto i ritardi) potrebbero essere legati anche alla vetustà dell'ordinamento giudiziario che, nonostante recluti ogni anno forze fresche di nuove leve, viene vissuto ed amministrato dai magistrati con una logica obsoleta, ideologica e del tutto inefficiente?
Ecco perchè si dovrebbero separare nettamente le funzioni, come avviene all'estero, distinguendo due autonomi processi di formazione, selezione e carriera tra magistratura inquirente e magistratura giudicante. Del resto, le accuse della palese inefficacia del sistema del Gip (Giudice delle indagini preliminari, introdotto con il nuovo codice di rito del 1989), non potrebbero spiegarsi con il timore che i Gip vivono a stretto contatto con i Pm, negli stessi uffici, giorno e notte, motivo per cui non è bene inimicarseli, ma accogliere pedissequamente tutte le loro richieste (vanificando così il ruolo del Gip medesimo)?
La riforma, inoltre, dovrebbe muoversi sul terreno minato delle correnti interne alla magistratura. Queste dovrebbero essere espressamente vietate dalla legge, poiché sono il riconoscimento evidente che la magistratura può operare secondo logiche politiche, nonostante l'ipocrisia della retorica sull'autonomia e sull'indipendenza. La riprova è data dal Csm, i cui membri sono l'espressione, ciascuno, della volontà di una determinata corrente.
Altro punto su cui si spera un coraggioso intervento riguarda l'Anm, il sindacato delle toghe. Qui si gioca davvero con le parole, approfittando della mancanza di consapevolezza da parte dei più. O la magistratura è un potere (e, come ha scritto Montesquieu, non lo è) come si ripete in continuazione, e allora essa è sullo stesso piano del Legislativo e dell'Esecutivo e quindi non è ammissibile che possa godere di una rappresentanza sindacale, così come è logicamente impossibile che esista un sindacato dei parlamentari o dei ministri o dei sottosegretari; oppure, la magistratura per godere dei benefici di una rappresentanza sindacale, deve essere vista per ciò che è, cioè un ordine, e non un potere, quindi autonoma ed indipendente, ma sempre subordinata all'Esecutivo ed al Legislativo e mai con essi paritetica. L'odierna visione ideologica (si pensi alla battaglia per evitare la riduzione delle retribuzioni in un periodo di crisi in cui tutti i dipendente pubblici affrontano simili sacrifici) che molti magistrati hanno della stessa magistratura, dunque, non consente loro di percepire la contraddizione, mostrandosi privi della capacità di comprendere che non si possono recitare due parti in commedia.
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