L’arresto a Roma con gravi accuse di abusi sessuali anche su bambine di  dieci anni del fondatore del movimento religioso Re Maya, Omar Danilo  Speranza, personaggio controverso e che aveva avuto il suo momento di  gloria come dirigente di una piccola ma attiva organizzazione musulmana  romana, non è un caso isolato, e offre l’occasione per tre ordini di  considerazioni. 
Anzitutto, in un momento in cui la stampa è piena di accuse, vere e  false, nei confronti della Chiesa Cattolica per gli episodi di  pedofilia, il caso Re Maya mette l’opinione pubblica italiana di fronte a  un dato noto agli specialisti ma forse non al grande pubblico: il  rischio di abusi sessuali non è più forte nella Chiesa Cattolica che  altrove. Al contrario, come dimostrano gli studi di Philip Jenkins,  questi abusi nelle organizzazioni religiose diverse dalla Chiesa  Cattolica sono da due a dieci volte più frequenti a seconda del tipo di  organizzazioni. E c’è anche una ragione sociologica per questo: per  quanto i controlli nella Chiesa Cattolica non abbiano sempre funzionato,  almeno dei sistemi di controllo esistono, mentre non è così per una  miriade di gruppi e gruppuscoli che sfuggono facilmente a ogni  sorveglianza. 
In secondo luogo, gruppi come Re Maya richiamano l’attenzione sul fatto  che oggi esiste una seconda generazione di nuovi movimenti religiosi,  quelli che con espressione meno tecnica e meno accettata, per la  difficoltà di definirla, dagli studiosi accademici sono spesso chiamati  “sette”. Le “sette” di prima generazione mantenevano molte  caratteristiche sociali delle religioni tradizionali: avevano una  struttura e dottrine precise e conservavano riferimenti a universi  simbolici e religiosi tratti o dal cristianesimo o dalle religioni  orientali. Nella seconda generazione di “sette”, di cui Re Maya è un  esempio, tutto questo è sparito, sostituito dai soli rapporti personali  con il capo e da vaghi sincretismi dove l’emozione sostituisce la  dottrina. Non tutti i gruppi di seconda generazione sono criminali ma i  rischi di derive pericolose si moltiplicano, perché aumenta la  “dissonanza cognitiva” fra i movimenti e società abituate ad altre forme  di religione. L’aumento di questa dissonanza favorisce la nascita di  ambienti particolarmente chiusi, ghetti auto-costruiti dove la  separatezza dalla società fa ruotare ogni gruppo esclusivamente su se  stesso e sul proprio leader, con il rischio che l’esperienza diventi  soffocante e malsana, o peggio sia sfruttata a proprio profitto da  truffatori e criminali. 
In terzo luogo, la tolleranza e la simpatia di cui personaggi come  Speranza, da anni chiacchierato, sono riusciti a beneficiare nasce  ultimamente dal relativismo, tanto spesso denunciato da Benedetto XVI,  per cui tutte le religioni sono uguali e non ci sono criteri che  permettano di dire che un’esperienza che si presenta come religiosa è  autentica e positiva mentre un’altra è falsa e dannosa. Anche la “lotta  alle sette” è una bandiera che spesso non funziona, perché fa di ogni  erba un fascio e non riesce a distinguere i gruppi effettivamente  criminali da quelli dottrinalmente eterodossi e discutibili ma che non  violano le norme del diritto comune. Questo relativismo e questo sonno  della verità che produce mostri vanno combattuti anzitutto sul piano  educativo e culturale. Allo Stato laico moderno, per definizione non  competente in fatto di religioni, non possiamo chiedere di giocare la  partita della verità religiosa ma soltanto di fare l’arbitro. Come  dimostra il caso Re Maya, è importante però che l’arbitro quando è  necessario fischi.
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