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lunedì 27 dicembre 2010

La BBC ha invitato il Papa a dare un messaggio natalizio al popolo inglese.

La BBC ha invitato il Papa a dare un messaggio natalizio al popolo inglese.


Questa mattina, vigilia di Natale, Papa Benedetto XVI è intervenuto alla seguitissima trasmissione Today, su Radio 4, il canale più “culturale” della BBC, cioè l’emittente di Stato britannica, non esattamente famosa per essere filocristiana e meno ancora filopapalina (qui è possibile leggere ed ascoltare l’intervento)http://www.bbc.co.uk/radio4/features/today/pope-thought-for-the-day/. Non è mai successo prima, si tratta di un avvenimento letteralmente storico. A chiederlo al Papa è stato il direttore della Bbc Mark Thompson, noto liberal, ma colpito dall’udienza e dalle parole del Santo Padre durante il recente viaggio in Inghilterra. «Il Pontefice ha accettato – dice padre Federico Lombardi – proprio perché durante il viaggio apostolico si è sentito accolto positivamente da molti. Ha avvertito che gli inglesi sono rimasti colpiti dal suo messaggio e non vuole che l’interesse cali né che la domanda suscitata nel popolo britannico si smorzi. Per questo parlerà loro in vista del Natale» (frasi riportate su Tempi)http://www.tempi.it/cultura/0010866-benedetto-xvi-sar-il-primo-papa-ad-andare-radio. La trasmissione radiofonica è stata anticipata dalla messa in onda sul canale “d’intrattenimento” BBC One del racconto della Natività in quattro puntate di mezz’ora l’una, scritto e prodotto dal veterano della tivù Tony Jordan e diretto da Coky Diedroyc (di cui abbiamo informato in Ultimissima 17/12/10)http://antiuaar.wordpress.com/2010/12/17/la-bbc-proiettera-la-storia-della-nativita-nei-giorni-antecedenti-al-natale/. Un giro anche rapido sul sito Internet della BBC, continua La Bussola Quotidianahttp://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-la-bbc-scopre-il-papa-e-noi-un-windsor-cattolico-269.htm, mette anche a disposizione una serie di lanci e di articoletti sul cardinal John Henry Newman, anche precedenti di mesi la sua beatificazione, tutto sommato sobri, corretti, onesti.
Ricordiamo che domani, dopo la Santa Messa in diretta dalla Basilica di Santa Maria in Trastevere, e la benedizione Urbi et Orbi di Papa Benedetto XVI (in diretta su Rai 1 alle ore 10.55), ci sarà l’appuntamento annuale con il Concerto di Natale dell’Orchestra Sinfonica della Rai (Rai 1 alle 12.30), trasmesso questa volta dalla Basilica Superiore di S.Francesco di Assisi. Domenica invece consigliamo (Canale 5 alle 23.30) lo “Speciale TG 5-Le case di Maria”, dedicato alla Vergine Maria, con un lungo intervento di Vittorio Messori.

Nuovo sondaggio: il 70% del popolo inglese ritiene un diritto manifestare la fede cristiana.

Nuovo sondaggio: il 70% del popolo inglese ritiene un diritto manifestare la fede cristiana.


Un nuovo sondaggio ha rivelato che la maggior parte dei britannici ritiene che i cristiani dovrebbero essere in grado di manifestare la propria appartenenza religiosa sul posto di lavoro senza affrontare azioni disciplinari dai loro datori di lavoro. Sembrerebbe una cosa ovvia, ma nel Regno Unito ormai nulla è scontato. Su oltre 1.000 adulti intervistati da ComRes, il 72% ha dichiarato che i cristiani dovrebbero essere in grado di rifiutarsi di agire contro coscienza, senza dover per questo essere penalizzati. Per il 73% è un diritto indossare simboli cristiani, come la croce, sul posto di lavoro e ciò dovrebbe essere protetto dalla legge. L’87% ritiene sbagliato licenziare gli operatori sanitari quando accettano di pregare con i pazienti. Queste sono tutte cose avvenute nel Regno Unito. Andrea Minichiello Williams, direttore del “Christian Concern”, ha invitato i politici e i giudici a tenere presente e a prendere nota delle conclusioni del sondaggio e agire di conseguenza, creando delle leggi a protezione dei cristiani. Ha anche aggiunto: «Molto spesso nel dibattito nazionale si lascia ampio spazio ad una piccola minoranza, dai punti di vista estremi, che vorrebbe vedere distrutto il tessuto cristiano della nostra nazione. Questo sondaggio suggerisce che la loro voce non è rappresentativa della stragrande maggioranza del pubblico britannico». I risultati del sondaggio sono apparsi anche su ChristianyTodayhttp://www.christiantoday.com/article/most.britons.think.christians.shouldnt.be.penalised.for.following.conscience.at.work/27230.htm.

Repubblica e gli islamici contro le scuole che vogliono censurare il vero Natale.

Repubblica e gli islamici contro le scuole che vogliono censurare il vero Natale.


Le renne infiocchettate al posto del bue e dell´asinello, Babbo Natale sì, ma niente Gesù Bambino. È la scelta – già contestatissima – della maestre della scuola materna comunale di via delle Forze Armate a Milano, che hanno deciso di rinunciare alla tradizionale festa di Natale aperta alle famiglie e di “censurare” poesie e canzoncine a contenuto religioso. Così inizia un articolo sulla laico quotidiano Repubblicahttp://www.flcgil.it/rassegna-stampa/nazionale/a-scuola-senza-albero-e-presepe-ecco-il-nuovo-natale-multietnico.flc. La spiegazione? «L´asilo è multietnico, molti bambini non sono cristiani e questo tipo di celebrazione rischia di discriminarli». Ma le mamme insorgono («la festa di Natale non faceva male a nessuno») e da Palazzo Marino l´assessore all’Istruzione chiede chiarimenti. I casi di quest’anno sono quelli di Varese, dove la dirigente scolastica di Cardano al Campo ha gentilmente ma fermamente impedito al parroco del paese di entrare nelle scuole per una benedizione natalizia, e di Livorno, dove alla scuola pubblica “Thouar” sono stati banditi tutti i canti a carattere confessionale. Un grave errore- continua il quotidiano di sinistra-, e non solo secondo i cattolici: «Quel che ci serve – spiega Ugo Perone, docente di Filosofia delle religioni all’Università del Piemonte orientale e inventore, negli anni Novanta a Torino, di uno dei primi “calendari multietnici” – è una cultura dell´accoglienza, non la rimozione di aspetti autentici e profondi come il cristianesimo è tuttora in Italia. Non è così che si diventa più tolleranti, serve semmai che nelle scuole tutti conoscano la storia e il significato delle principali ricorrenze religiose di tutte le comunità effettivamente presenti in quella realtà». Ma i primi a non sentire il bisogno di cancellare la festa e le tradizioni cristiane sono, del resto, proprio gli esponenti delle comunità musulmane. «Per noi – spiega Yunus Distefano, portavoce nazionale della Coreis (Comunità religiosa islamica italiana) – il Natale è un’occasione di scambio e di conoscenza reciproca. La mente dei bambini delle scuole è aperta, ed è bene che resti tale, senza creare barriere inutili. Troppo spesso poi si dimentica che anche se per l’Islam Gesù non è il figlio di Dio, egli non è soltanto riconosciuto come profeta, ma come figura religiosa di grande rilevanza. Non siamo noi, insomma, a polemizzare contro il Natale a scuola. Se poi i bambini di origine cristiana impareranno che cos’è il Ramadan, tanto meglio». Mariachiara Giorda, studiosa e docente di Storia delle religioni, aggiunge: «Fino a quando esisterà un calendario istituzionale che prevede la festa comandata ogni domenica, a Natale e a Pasqua, è fondamentale che tutti possano conoscere la realtà storica e religiosa del Paese. Ogni giorno spieghiamo che cos’è il Natale. Poi, a mano a mano che durante l´anno ci sono altre festività come il Ramadan occorre spiegare anche quelle: è un ottimo lavoro di integrazione e educazione interculturale, anche se non si può stare a casa a ogni occorrenza».
Sempre in un altro articolo di Repubblicahttp://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/12/16/una-festa-non-ha-mai-fatto-male.html (che sembra stranamente avere a cuore questa festa cristiana), si ribadisce: «Non si impara, fin da bambini, a stare insieme cancellando il Natale o le rispettive identità. Al contrario. Si può imparare a stare insieme solo conoscendo e rispettando le diversità e affermando la propria. Nelle nostre scuole è giusto ricordare celebrare festeggiare il Natale (e va bene per questo il presepe o l’albero a seconda delle preferenze e delle abitudini). Ma insieme, è bene spiegare ai nostri bambini che esistono altre religioni ed altre feste». Come scrive un umorista italiano, Guido Clericetti: «Ci sono troppi cattolici così rispettosi delle idee degli altri da rinunciare alle proprie».

domenica 19 dicembre 2010

La Bbc proietterà la storia della Natività nei giorni antecedenti al Natale.

La Bbc proietterà la storia della Natività nei giorni antecedenti al Natale.


Un racconto della storia della natività verrà proiettato dalla BBC One nei giorni che precedono il Natale. Non essendo proprio un’emittente capace di emanciparsi dalla moda laicista, la notizia appare di un certo interesse. Scritto e prodotto da Tony Jordan http://en.wikipedia.org/wiki/Tony_Jordan(creatore di “Life on Mars”, “Hustle”, “East Enders”) e diretto da Coky Giedroychttp://en.wikipedia.org/wiki/Coky_Giedroyc, l’adattamento offre un ritratto fresco e rivitalizzante degli eventi che circondano la nascita di Gesù. La Natività andrà in onda in quattro episodi di 30 minuti ciascuna, da lunedi 20 dicembre a giovedi 23 dicembre. Ogni episodio avrà inizio alle 19:00. Durante questo orario solitamente si trasmette il programma One Show, che ha un ascolto medio di circa 5 milioni di telespettatori. Questo è il sito web della serie televisivahttp://www.nativitydrama.info/.

Cattolici in Cina: 150 mila conversioni adulte ogni anno.

Cattolici in Cina: 150 mila conversioni adulte ogni anno.


Il cattolicesimo diventa sempre più forte in Cina: circa 150.000 adulti ogni anno abbracciano la fede cattolica. La presenza dell’ateismo governativo, la mancanza di libertà religiosa, la persecuzione costante da parte delle autorità contro sacerdoti e vescovi, il silenzio della stampa e le campagne anti-religiose non sembrano affatto un motivo sufficiente per fermare la diffusione del cattolicesimo. In un’intervista per Aceprensahttp://www.religionenlibertad.com/articulo.asp?idarticulo=10251, Bernardo Cervellera, direttore dell’agenzia Asia News e missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME), ha dichiarato: «Il degrado inevitabile derivato dalla corruzione dell’ideale comunista è uno dei motivi principali per la diffusione del cristianesimo. All’altra estremità troviamo principalmente l’attrattiva che ha il cristianesimo, preferita alla reincarnazione buddista e taoista». La situazione del cattolicesimo in Cina è sempre stata segnata dalla divisione tra la Chiesa “sotterranea” (fedele al Papa) e quella “patriottica” (legata al Partito comunista). Continua Cervellera: «Il più grande fallimento del Partito comunista è stata la politica religiosa. Nonostante i suoi sforzi per eliminare tutte le tracce del cristianesimo nel Paese la popolazione cinese si sente sempre più attratta dalla fede e in particolare dal cattolicesimo». Gli atei comunque rimangono i padroni dei media. Lo si è capito quando l’anno scorso (il 23 novembre 2009) quaranta uomini del governo hanno picchiato alcune suore dell’ordine delle Francescane Missionarie del Sacro Cuore della diocesi di Xian. E’ accaduto perché hanno cercato di fermare la demolizione di una scuola diocesana che il governo aveva venduto illegalmente a una società di costruzioni. Nessun giornale cinese ha riportato la notizia, e sorprendentemente il popolare portale cinese di fede cattolica (www.chinacatholic.org)http://www.chinacatholic.org/, ha subito un black-out per diverse ore. Solo il 30 novembre ha potuto denunciare la vicenda con informazioni dettagliate. Un approfondimento sull’aumento massiccio dei cristiani in Cina è apparso anche su Italia Oggihttp://www.tracce.it/detail.asp?c=1&p=1&id=19181.

Il dott. Zangrillo: «sono assolutamente certo che Eluana Englaro è stata uccisa».

Il dott. Zangrillo: «sono assolutamente certo che Eluana Englaro è stata uccisa».


Durante la trasmissione Matrix dell’8/12/10 il dottor Alberto Zangrillohttp://www.sanraffaele.org/62276.html, direttore dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione Cardio-Toraco-Vascolare presso l’Istituto Scientifico Universitario San Raffaele di Milano, ha preso posizione sull’eutanasia e sul caso Engalro. Si sapeva già che Zangrillo (come tanti altri) non fosse allineato col pensiero radicale, ma le parole che ha pronunciato sono andate aldilà di qualsiasi previsione. Leggiamo su -Libertà e Personahttp://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=2175- che il tema della trasmissione era il cosiddetto “fine vita” e in studio erano anche presenti la radicale Rita Bernardini (quella che ha strumentalizzato il suicidio di Monicelli per far passare l’eutanasia come legge), Paola Binetti, il cronista Pino Ciociola, lo scrittore Cavallari e il senatore del PD Ignazio Marino (il quale si è dichiarato in trasmissione “pro testamento” ma “contro l’eutanasia” e “contro il suicidio assistito”, facendo arrabbiare la sua collega Bernardini). Rispondendo a quest’ultimo, il quale come al solito ha elogiato il ruolo del testamento biologico, il dott. Zangrillo ha risposto che in trent’anni di attività non ha mai staccato una volta il respiratore ad un paziente, nemmeno in casi di malati terminali, per la semplice ragione che esistono altre modalità – per esempio la graduale sospensione della somministrazione di farmaci – per evitare ogni accanimento terapeutico ed accompagnare alla morte natuarale pazienti oramai prossimi al decesso. Zangrillo ha pure spiegato che, sulla base della sua trentennale esperienza medica (e non politica), che il testamento biologico non serve (vedi il filmato linkato più sotto dal minuto 31:50 al 36:00). Il dott. Zangrillo ribadisce il concetto dal minuto 42:30 al 43:50, quando spiega che non c’è alcun bisogno di staccare la spina, poichè si può benissimo evitare l’accanimento terapeutico senza dover arrivare al gesto estremo dell’eutanasia. Si passa poi a parlare del caso Englaro (vedi dal minuto 53:27), e il medico ha spiegato che la scienza non ha ancora stabilito (al contrario di Peppo Englaro e i suoi compagni radicali) se i casi come quello di Eluana siano irreversibili o meno. Ma è stato subito dopo il momento pubblicitario (si veda dal minuto 1:01:50) che il dottore genevose ha finalmente fatto emergere, senza troppi giri di parole ma con la precisione terminologica dello specialista, ciò che tutti in realtà sappiamo: «Eluana Englaro è stata uccisa». Zangrillo ha sottolineato di esserne assolutamente certo e di averne a lungo parlato con i suoi colleghi. E’ stato un atto di ipocrisia, perché sottrarre alimentazione e idratazione significa, di fatto, praticare l’eutanasia, cioè uccidere. C’erano mille modi più semplici per far fuori questa ragazza, ma, grazie al consenso del padre e l’attivismo dei radicali, la si è voluta strumentalizzare per dimostrare l’esistenza del principio di autodeterminazione.
Il filmato integrale della trasmissione (dura quasi due ore) è possibile visionarlo a questo link: www.videomediaset.ithttp://www.video.mediaset.it/video/matrix/full/197025/diritto-di-scelta.html. L’audio della trasmissione invece si può ascoltare su Radio Radicalehttp://www.radioradicale.it/scheda/317070?format=32.

martedì 14 dicembre 2010

Nasce un nuovo centro pro-life a Roma.

Accanto alla Basilica di Sant’Anastasia, nel centro di Roma e a due passi dal Vaticano, è stato costituito il 13 novembre scorso il terzo Centro di Aiuto alla Vita (CAV) della Capitale che il 4 dicembre ha inaugurato la sua sede di piazza S. Anastasia 1. Alla cerimonia di “avvio lavori” del CAV hanno partecipato l’ing. Roberto Bennati, Presidente di Federvita Lazio e Vicepresidente del Movimento per la Vita italiano, don Alberto Pacini, Rettore della Basilica di Sant’Anastasia e il presidente del neo-nato CAV, Anna Spurio Consoli. Rispondendo ad alcune domande di Zenit.it,https://www.zenit.org/article-24805?l=italian la Consoli ha dichiarato: «Negli anni ’70 in Italia i radicali e le sinistre lanciarono una forte offensiva contro la famiglia e la vita, raggiungendo molti dei loro obiettivi, nella cultura e nella legislazione nazionale. D’allora, però, persone di ogni ceto e di ogni provenienza si sono organizzate per contrastare questa crescente cultura della morte. Fra questi, i tanti che hanno dato vita ai CAV, che sono associazioni di volontariato, oggi ne lavorano in Italia circa 300 in Italia, ed hanno salvato almeno 120.000 tra bambini e bambine dall’aborto. Hanno dato vita a grandi opere sociali, di aiuto alle famiglie, alle donne incinte, alla vita, fra cui soprattutto il Progetto Gemma ed il Telefono SOS Vita. L’aiuto che intendiamo offrire è morale (colloqui, condivisione) e materiale (vestiti per la mamma ed il bambino, pannolini, latte in polvere, passeggini, ecc…), finalizzato ad evitare in tutti i modi la tragica “scelta” dell’aborto. Il nostro CAV, non è dipendente dalla Chiesa cattolica o da altra organizzazione religiosa, ma si ispira ai principi dell’etica naturale e cristiana ed ai valori di solidarietà ed umanità nel pieno rispetto della vita umana, fin dal suo concepimento. E’ poi, logicamente, anche un’associazione apartitica e che non persegue fini di lucro: tutte le prestazioni degli aderenti e le cariche sociali sono gratuite. Al CAV, come è scritto nello Statuto, è vietato distribuire, anche in modo indiretto, utili o avanzi di gestione comunque denominati, nonché fondi, riserve o capitale durante la vita dell’associazione stessa, a meno che la destinazione o la distribuzione siano imposte per legge o siano effettuate a favore di altre organizzazioni che perseguano le stesse finalità». I contatti dell’associazione sono: telefono: 347/55.33.452 ed e-mail: cavsanastasia@libero.it. Il sito web del CAV di Roma invece si può raggiungere su www.cavroma.blogspot.comhttp://www.cavroma.blogspot.com/

Nazareth potrebbe diventare “patrimonio dell’umanità”.

Nazareth potrebbe diventare “patrimonio dell’umanità”.

InBenedetto xvi e vita della chiesa, Politica, laicità e libertà religiosa, Storicità cristianesimo e Archeologia biblica su 14 dicembre 2010 a 18:44
Rivolgendosi a Zenit.ithttp://www.zenit.org/article-24843?l=italian, Omar Massalah, musulmano e segretario del Mediterranean Peace Forum ha dichiarato di essere l’autore della proposta di chiedere all’UNESCO la dichiazione di Nazareth come “patrimonio mondiale dell’umanità”. Ha espresso anche la propria intenzione di parlare dell’iniziativa con i Paesi arabi. La proposta è avvenuta durante il primo colloquio internazionale dedicato alla città di origine di Gesù Cristo, sul tema “Nazareth: archeologia, storia e patrimonio culturale”, svoltosi dal 21 al 24 novembre presso l’hotel Al-‘Ayn di Nazareth. Vi hanno partecipato il sindaco di Nazareth, Ramiz Jaraisy, l’ambasciatore di Francia in Israele, Christophe Bigot, e il vicario patriarcale per Israele, monsignor Giacinto-Boulos Marcuzzo. L’iniziativa è stata organizzata dall’Associazione Maria di Nazareth, dal Centro Internazionale Maria di Nazareth e dall’Associazione di Nazareth per la Cultura e il Turismo, con il sostegno della Commissione israeliana per l’UNESCO, del Centro Culturale francese di Nazareth e del Centro Culturale italiano di Haifa.

Cosa resta del Darwinismo 5 parte!

http://www.youtube.com/watch?v=kN640Orz1fQ&feature=related

Cristo "New Age" e Cristo "cristiano" di Antonio de Santi

Il pericolo della “moda” incombe sempre sugli ingenui (e a volte non solo su loro…). Il caso della diffusione della spiritualità “New Age” ne è esempio lampante. Iniziamo a fare giusta luce sull’ennesimo degli inganni contro la vera fede che da sempre vengono perpetrati ai danni dei fedeli più deboli e disorientati.

di Antonio de Santi
La New Age, nota anche come religiosità del postmoderno, è una tendenza culturale e filosofica, fattasi largo verso la fine degli anni ’60 in Europa e negli Stati Uniti, che considera il divino come principio base della realtà. Per divino essa intende ogni realtà esistente, sia Dio che uomo, sia pianta che animale, sia pure roccia; si tratta cioè di una credenza panteistica.

Panteismo “ecumenico”
Talvolta essa parla di un rinnovamento del mondo veicolato dallo spostamento degli astri (Era dell’Acquario); talvolta invece parla di non ben precisate energie cosmiche, che produrrebbero un cambiamento radicale nell’universo. In ogni caso il cosmo è il regista del mutamento, il vero protagonista della Nuova Era ed è capace di asservire l’uomo in modo da condizionare il suo essere e il suo operare.
Inizialmente la New Age si serviva di testi biblici riletti in chiave esoterica; con il tempo si è servita soprattutto di elementi induisti, buddisti e taoisti, come fa oggi.
Essa si interessa di tutti i campi della realtà visti come espressione dell’unico principio divino: tra di essi spiccano soprattutto la psicologia, le tecniche di meditazione e le medicine alternative.

Strumentalizzazione del Cristianesimo
La New Age ha alcune immagini di Gesù Cristo molto divergenti dal Cristianesimo. Per essa c’è una differenza profonda fra Gesù, che è soltanto un uomo e Cristo, che è divino. Questa entità divina, Cristo, è discesa più volte sulla terra, ogni volta che l’umanità è stata in crisi e al mutare delle varie Ere astronomiche, denominate in base ai segni dello zodiaco. Si è servita di Gesù, per diffondere la sua Energia.
La New Age parla anche di Trinità, ma con essa intende talvolta tre modi di parlare della stessa energia divina. Talvolta invece parla di Cristo come figlio di Dio Padre e di Dea Madre. Lo Spirito Santo è visto come una discesa del divino alla maniera di Cristo e, a volte, è detto appunto “Dea Madre”.
Gesù Cristo è indicato anche come “avatar”, discesa del divino sulla terra e mentre alcuni autori enfatizzano il fatto che egli è un dio che discende, per altri è piuttosto un uomo che si spiritualizza dopo molte reincarnazioni e in modo tale da diventare un soggetto adatto ad ospitare e trasmettere l’energia divina. A questo scopo, egli attraversa vari livelli di iniziazione fino a poter ospitare il principio divino “Cristo”, che finisce per riassorbirlo in Sé.

A differenza del cristianesimo, il Cristo New Age non ci salva con la morte in croce e la sua resurrezione. Egli è un redentore nel senso di uno che insegna che siamo divini, non di uno che dà la propria carne per la nostra salvezza.

Lo “scandalo della Croce”
La croce e la sofferenza scandalizzano la New Age, che presenta un Dio solo buono, dolce e capace di perdonare; mai giusto ed esigente, in modo che il peccatore si converta e viva.
L’inferno, per la New Age, non esiste e nemmeno la responsabilità morale e la libertà dell’agire è più teorica che reale. Al posto del Cristo sofferente, si dà importanza al Cristo re, che tornerà ad inaugurare la Nuova Era, dando una nuova religione alle genti.

Il “famoso” Acquario…
La fine del mondo, in realtà, è la fine dell’Era violenta e sanguinosa dei Pesci, in cui ha vissuto Gesù di Nazaret, che lascia il passo all’Era dell’Acquario. L’Acquario è rappresentato come una corrente senza argini, come regno della libertà e della fraternità assoluta fra gli uomini. In esso non c’è posto per le chiese organizzate in modo gerarchico, come quella cattolica.
Talora l’Acquario viene rappresentato anche con Ganimede, il bellissimo uomo della mitologia greca divenuto alla fine dio, il quale, con un berretto ripieno di ogni bene (cornucopia), riversa nel mondo ogni sorta di benessere e di ricchezza.
La terra, secondo la New Age, non finirà, ma cambierà, perché il paradiso è sulla terra. Il paradiso non sarà lo stare con Dio e con Cristo, ma il perdere la nostra identità, mescolandoci nella Coscienza cosmica che tutto ingloba ed omologa.

La solita gnosi che si ripete da secoli
Per riassumere, possiamo dire che siamo di fronte ad una riedizione della gnosi e delle antiche eresie, che dà molto rilievo alla figura di Gesù come maestro iniziato ai misteri della sapienza ed è capace di indicare all’umanità una via di salvezza di tipo fondamentalmente mentale.
Manca ogni riferimento al Gesù salvatore morto e risorto per l’umanità, nella concretezza della sua carne sofferente. La storicità di Gesù Cristo si dissolve a vantaggio della sua simbolicità. Egli diviene così il simbolo del futuro di tutta l’umanità, destinata ad essere riassorbita nel divino indistinto.
Gesù è uomo. Cristo è Dio. Non una umano-divinità, ma una divinità che ingloba l’uomo, lo riconosce come momento negativo e transitorio della storia del cosmo e lo rende strumento per trasmettere l’energia divina nell’universo. Il processo è scritto negli astri: non un Dio libero che libera l’uomo in Cristo, ma un percorso obbligato, in cui non c’è spazio per la libertà e per la responsabilità morale, neppure del divino.

Il Gesù Cristo cristiano è molto diverso dal Cristo New Age.
In particolare il Gesù cristiano è assieme vero Dio e vero uomo. Ci dona la Vita Eterna, ma non ci toglie la nostra individualità originale. Ci insegna che saremo come Dio, pur rimanendo anche uomini. Fa abitare in noi il suo corpo spirituale e lo Spirito Santo ma è Lui che ci salva, non i nostri pensieri.
È un Dio a cui diamo del Tu, non un divino impersonale. È un Dio che ci chiama alle nostre responsabilità, non un meccanismo astrale che decide di renderci buoni in virtù di una energia elettromagnetica che si confonde con lo spirituale.
È un Dio immensamente vicino a noi da uomo e immensamente superiore a noi come Dio, non una Coscienza cosmica nella quale veniamo ricompresi. È un Dio che ci vuole amanti del bene e nemici del male, non una forza che approva ogni nostro gesto. È un Dio che ci fa risorgere subito dopo morti e non ci fa vagare per milioni di vite, alla ricerca della nostra purificazione mediante la reincarnazione.

La New Age, in fondo, ci presenta  un dio a immagine di ciò che l’uomo sente come bisogno immediato, a somiglianza di se stesso. La Chiesa, invece, si sforza di presentare un uomo a immagine e somiglianza di Dio.

Bugie neodarwiniste e verità ... infinite di Francesco Agnoli

Bugie neodarwiniste e verità ... infinite

Nell’ambito del revival darwiniano di questi tempi, spopola, invitato dovunque, Telmo Pievani, un filosofo della scienza di Milano che fa del darwinismo ateo il suo cavallo di battaglia. Una battaglia però la sua senza “né capo né coda”…

di Francesco Agnoli
Telmo Pievani è autore di un recente testo intitolato Creazione senza Dio, edito da Einaudi, che già nel titolo dice della confusione filosofica della sua posizione. Infatti il darwinismo, per nulla dimostrato, non è assolutamente sufficiente di per sé per portare a conclusioni ateistiche, come Pievani e il più celebre Richard Dawkins vorrebbero.
Confusionismo darwinistico
Darwin stesso ebbe idee molto contrastanti, parlando a volte di Creatore, e a volte nascondendosi dietro il termine “agnostico”, creato dal suo amico Thomas Huxley, il quale ebbe spesso a ripetere che le idee evoluzioniste non comportavano alcuna conseguenza in campo religioso.
Infatti, come è ovvio, anche se tutto derivasse dall’ascidia originaria di cui parla Darwin nell’Origine dell’uomo, occorrerebbe poi trovare la causa dell’ascidia stessa, non potendosi risalire all’infinito nella catena di cause finite.
La realtà è che nella scienza sperimentale è impossibile arrivare a toccare l’origine delle origini, il prima di tutti i prima, il perché di tutti i perché. Anche il celebre paleontologo evoluzionista e non credente S. Jay Gould accusava di fanatismo scientifico coloro che avessero voluto utilizzare la scienza per dimostrare l’indimostrabile e per attaccare il terreno della religiosità.
E prima di lui, Wallace, l’uomo che teorizzò l’evoluzionismo moderno contemporaneamente a Darwin, affermò sempre di essere un credente e di ritenere l’uomo una creatura speciale, dotata di anima immortale, e non un semplice animale.
“Il linguaggio di Dio”
La realtà è che il regno della libertà, dello spirito, della volontà e delle idee non è sottoponibile ad alcuna misurazione sperimentale, e quindi anche a nessuna definizione scientifica. È l’uomo, nella sua complessità, a sfuggire a semplicistiche determinazioni, a formule chimiche o fisiche che lo racchiuderebbero, come ha sempre affermato ad esempio il premio Nobel Sir John Eccles.
Questo è tanto vero che i grandi scienziati credenti, nella storia, sono infinitamente più numerosi di quelli atei. Penso a Copernico, Keplero, Galilei, Newton, Lavoisier, Mendel, Pasteur, Maxwell, Planck… per arrivare oggi a Jerome Lejeune, lo scopritore della prima malattia genetica, ad Antonino Zichichi, o a Francis Collins, celeberrimo direttore del Progetto Genoma, il più importante progetto di studio sul DNA, fresco autore del Libro Il linguaggio di Dio, pubblicato anche in Italia da Sperlink & Kupfer.

In questo libro Collins, una delle più alte autorità al mondo in materia di DNA, difende appunto la credibilità e la razionalità delle fede, partendo da considerazioni a loro modo scientifiche: l’evidente esistenza, nell’uomo, di qualcosa che va al di là del suo codice genetico e della sua materialità, e che si esprime nel senso morale, nella libertà e nell’amore, caratteristiche propriamente ed esclusivamente umane.
Nel suo libro sopra citato, invece, Pievani, che scienziato non è, vorrebbe presentarci il darwinismo come «qualcosa di più che una teoria scientifica»: come un sistema filosofico, capace da solo, come scrive nelle prime pagine, di dimostrare le «origini completamente materiali del nostro corpo e della nostra mente», determinando così la caduta dei fondamenti «non soltanto della fede ma anche della morale».

È evidente che una simile argomentazione non ha nulla di scientifico, ma è una posizione filosofica, su cui si può discutere, ma che non può essere spacciata come oggettivamente vera e dimostrabile. A totale smentita di una simile idea si potrebbe citare il discorso di Louis Pasteur, uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi, di fronte alla Accademia delle Scienze francesi nel 1882, per contrastare l’opinione di alcuni filosofi, August Comte su tutti, che ritenevano la scienza incompatibile con la fede.

Affermava Pasteur: «Quanto a me, ritenendo sinonimi le parole progresso ed invenzione, mi chiedo in nome di quale nuova scoperta, filosofica o scientifica, si possano estirpare dall’animo umano queste grandi preoccupazioni. Mi sembrano di essenza eterna, perché il mistero che avvolge l’Universo e di cui esse sono emanazione è esso stesso eterno per natura».
L’infinito bisogno di Dio
Si narra che l’illustre fisico inglese Farady, nelle lezioni che faceva all’Istituzione reale di Londra, non pronunciasse mai il nome di Dio, sebbene fosse profondamente religioso. Un giorno, eccezionalmente, questo nome gli sfuggì e improvvisamente si manifestò un movimento di simpatica approvazione. Accorgendosene Farady interruppe la lezione con queste parole: «Vi ho sorpreso pronunciando il nome di Dio. Se ciò non mi è ancora accaduto dipende dal fatto che io sono, mentre tengo queste lezioni, un rappresentante della scienza sperimentale. Ma la nozione e il rispetto di Dio arrivano al mio spirito attraverso vie tanto sicure quanto quelle che conducono alla verità dell’ordine fisico.

Il positivismo non pecca solo nel metodo… esso non tiene conto della più importante delle nozioni positive, quella dell’infinito. Al di là di questa volta stellata, che cosa c’è? Nuovi cieli stellati. Sia pure! E al di là ancora? Lo spirito umano, spinto da una forza irresistibile, non smetterà mai di chiedersi: che cosa c’è al di là? Vuole esso fermarsi, sia nel tempo, sia nello spazio?

Poiché il punto dove esso si ferma è solo una grandezza finita, soltanto più grande di tutte quelle che l’hanno preceduta, non appena egli comincia ad esaminarlo ritorna la domanda implacabile senza che egli possa far tacere il grido della sua curiosità. Non serve nulla rispondere: al di là ci sono degli spazi, dei tempi o delle grandezze senza limiti. Nessuno comprende queste parole.

Colui che proclama l’esistenza dell’infinito, e nessuno può sfuggirvi, accumula in questa affermazione più sovrannaturale di quanto non ce ne sia in tutti i miracoli di tutte le religioni… Io vedo ovunque l’inevitabile espressione della nozione dell’infinito nel mondo. Attraverso essa, il soprannaturale è in fondo a tutti i cuori.

L’idea di Dio è una forma dell’idea di infinito. La metafisica non fa che tradurre dentro di noi la nozione dominatrice dell’infinito. Dove sono le fonti genuine della dignità umana, della libertà e della democrazia, se non nella nozione di infinito di fronte alla quale gli uomini sono tutti uguali?».

sabato 4 dicembre 2010

Introvigne su Avvenire sul libro di De Mattei: «Il Concilio? Discutiamone pure ma i suoi documenti vanno accettati» di Massimo Introvigne

Premessa Questa recensione critica, apparsa su Avvenire - un quotidiano, come si può immaginare, non casuale - del 1° dicembre, di un testo di Roberto de Mattei sul Concilio Ecumenico Vaticano II s’inserisce in un più ampio dibattito recente, cui sarà dedicato in buona parte il prossimo numero della rivista di Alleanza Cattolica, Cristianità. Rimandando a tale numero (attendete con pazienza) per una più ampia trattazione – e premesso che non esiste una «opinione di Alleanza Cattolica» sul Concilio (al massimo, Alleanza Cattolica spera di avere capito bene e d’illustrare fedelmente l’opinione del Magistero) – riassumo i termini della questione. (1) Non c’è dubbio che gli anni del postconcilio siano stati anni di crisi per la Chiesa Cattolica. Nella storica intervista Rapporto sulla fede del 1985 il cardinale Joseph Ratzinger, dichiarava: «È incontestabile che gli ultimi vent’anni sono stati decisamente sfavorevoli per la Chiesa Cattolica. I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti […] Ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza. […] Vie sbagliate […] hanno portato a conseguenze indiscutibilmente negative». (2) Non c’è dissenso sul fatto che del Concilio Ecumenico Vaticano II sia a lungo prevalsa un’interpretazione nei termini di quella che Benedetto XVI chiama una sciagurata «ermeneutica della discontinuità e della rottura» che interpreta i testi conciliari non alla luce della Tradizione precedente, ma contro quella stessa Tradizione. Non si è trattato di posizioni estemporanee di qualche teologo, ma di una vera e soffocante egemonia. (3) Non solo dopo ma già durante il Concilio, dai principali media i documenti sono stati presentati quasi sempre secondo l’ermeneutica della rottura. come immancabili sconfitte dei «conservatori» e vittorie dei «progressisti», qualunque fosse effettivamente il loro contenuto. (4) Una volta però che si sono rigorosamente distinti i documenti dalla loro interpretazione e dalla presentazione mediatica, il Magistero insegna che i documenti devono essere anzitutto letti (molti che ne parlano, in effetti, non li hanno mai letti), quindi fedelmente seguiti nei loro insegnamenti essenziali. È vero che il Concilio si è voluto pastorale e non dogmatico, ma – come insegnava il servo di Dio Paolo VI già da subito, nel 1966 – «dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell’autorità del supremo magistero ordinario il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli». Nella lettera del 10 marzo 2009, relativa ai vescovi della Fraternità Sacerdotale San Pio X consacrati da mons. Lefebvre, Benedetto XVI ribadisce che anche dopo la remissione della scomunica del 2009 essi non possono esercitare «in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa» fino a quando non sia chiara la loro «accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi». La posizione non di Alleanza Cattolica ma del Magistero della Chiesa è dunque che, mentre l’interpretazione dei testi del Concilio secondo l’ermeneutica della rottura che tanto male ha fatto alla Chiesa va rifiutata, gli stessi testi letti  alla luce della Tradizione – il che talora a causa di formulazioni, che risentono del linguaggio degli anni 1960, non sempre felici richiede uno sforzo non facile, ma che il Papa ci assicura non essere impossibile – devono essere «accolti docilmente e sinceramente da tutti i fedeli».

«De Mattei e il Concilio, un metodo critico che svaluta i testi»
Massimo Introvigne (Avvenire, 1° dicembre 2010)

Il 22 dicembre 2005, in un discorso ormai famoso alla Curia Romana, Benedetto XVI ha distinto a proposito del Vaticano II un’errata «ermeneutica della discontinuità e della rottura» rispetto al Magistero precedente, e una giusta «ermeneutica del rinnovamento nella continuità». Il 24 luglio 2007, ad Auronzo di Cadore, il Papa ha aggiunto che l’ermeneutica della rottura è praticata sia dal «progressismo sbagliato» sia dall’«anticonciliarismo». Entrambi affermano che il Vaticano II ha rotto con la Tradizione, i progressisti per applaudire questa presunta rottura e gli anticonciliaristi per deplorarla. Ma in verità, per Benedetto XVI, non c’è nessuna rottura.

Per decenni, l’ermeneutica della rottura è stata proposta principalmente dal fronte del «progressismo sbagliato». Di recente sono apparse diverse opere che ripropongono l’ermeneutica della rottura in chiave anticonciliarista e talora cercano di rivalutare la figura, emblematica per questa lettura del Concilio, di mons. Marcel Lefebvre.

Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta dello storico Roberto de Mattei (Lindau, Torino 2010) si presenta, già dal titolo e dalla mole (632 pagine), come un libro molto ambizioso e una vera summa delle tesi anticonciliariste. A differenza di altri autori, che condividono con lui l’accusa al Concilio di avere rotto con la Tradizione, de Mattei manifesta un maggiore distacco nei confronti di mons. Lefebvre, rilevando che del cosiddetto «tradizionalismo» che rifiutava il Concilio il vescovo francese non fu mai «il capo», ma solo «l’espressione più visibile e alimentata dai mass-media».

De Mattei condivide però con i «lefebvriani» la tesi secondo cui l’ermeneutica della continuità auspicata da Benedetto XVI è ultimamente impraticabile. Infatti, per interpretarli alla luce della Tradizione, i documenti conciliari dovrebbero essere separati dall’evento-Concilio, che consta della sua preparazione, delle discussioni in aula – ricostruite da de Mattei in modo minuzioso, usando però molto meno le relazioni delle commissioni –, delle presentazioni contemporanee dei media e delle applicazioni successive.

Questa «artificiale dicotomia fra i testi e l’evento», secondo de Mattei, dal punto di vista dello storico e del sociologo non ha senso. Lo storico romano cita fra i sociologi che hanno applicato al Concilio le teorie dell’evento globale Melissa Wilde e il sottoscritto. Da queste teorie pensa di poter concludere che i documenti fanno parte dell’evento, fuori del quale perdono il loro significato.

Ma la teoria sociologica dell’evento non afferma che sia impossibile la distinzione fra un testo e il suo contesto. Se il testo fosse fagocitato dal contesto, il che applicando il metodo del libro potrebbe essere affermato di qualunque documento che si presenta come autorevole, saremmo di fronte a una sorta di strutturalismo, o a un’applicazione al Magistero di quelle teorie – pure criticate da de Mattei con riferimento alla Bibbia – che riducono la sacra Scrittura alla sua sola redazione e forma, dove ogni brano è smontato e decostruito in un gioco di riferimenti perpetuo in cui nulla ha più autorità.

La buona scienza dovrebbe servire a spiegare i documenti, non a farli a pezzi. De Mattei nega la continuità dei documenti del Concilio con la Tradizione, ribadita dal Papa anche nella recente esortazione Verbum Domini. Ripropone così purtroppo, ancora una volta, quell’ermeneutica della rottura che Benedetto XVI denuncia come dannosa.

In tema di Vaticano II: Leone XIII, Benedetto XVI e la libertà religiosa di Massimo Introvigne.

 Premessa: Una mia precedente nota relativa al libro di Roberto de Mattei sul Concilio Ecumenico Vaticano II ha sollevato tra i commenti discussioni sul difficile tema della libertà religiosa. Ne abbiamo già parlato su Facebook in tema di «anno di Leone XIII», il Pontefice di cui ricorre quest'anno il bicentenario della nascita. Ma siccome il tema è delicato e importante, parliamone di nuovo. Rimando anche al mio libro La dottrina sociale di Leone XIII (Fede & Cultura, Verona 2010)

Nell’enciclica Libertas di Papa Leone XIII si condanna un «[…] atteggiamento che è profondamente contrario alla virtù religiosa, ossia la cosiddetta libertà di culto. Questa libertà si fonda sul principio che è facoltà di ognuno professare la religione che gli piace, oppure di non professarne alcuna»[1]. Questo insegnamento — ribadito in altri testi dello stesso Pontefice — è coerente con quello del predecessore di Papa Leone XIII, il beato Papa Pio IX (1846-1878), esposto in par­ti­co­la­re nell’enciclica Quanta Cura e nel Sillabo, entrambi del 1864. Si afferma che sarebbe in contrasto, invece, con la dichiarazione Dignitatis humanae, del 1965, del Concilio Ecumenico Vaticano II, la quale riconosce la libertà religiosa come diritto fondamentale della persona fondato sulla stessa natura umana.

Nel discorso del 22 dicembre 2005 alla Curia Romana, fondamentale per tutta la questione del­l’in­terpretazione dei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II, Papa Benedetto XVI ammette una «apparente discontinuità»[2] in tema di libertà religiosa, ma spiega che questa discon­ti­nuità, se e dove vi è, non si riferisce ai princìpi ma alla loro applicazione alle forme storiche con­cre­te, che mutano nel tempo mentre i princìpi non possono mutare. Infatti, «[…] i principi esprimono l’a­spetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugual­mente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare. Così, ad esempio, se la libertà di reli­gione viene considerata come espressione dell’incapacità dell’uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l’uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza. Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall’esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del con­vin­cimento»[3].
Sbagliano dunque secondo Papa Benedetto XVI coloro i quali — per applaudirlo, nel caso dei progressisti, o per rifiutarlo, come fanno gli «anticonciliaristi» — pensano che il Concilio con la Dignitatis humanae abbia voluto proclamare princìpi opposti a quelli del beato Papa Pio IX e di Papa Leone XIII. L’insegnamento di questi Pontefici, secondo cui una libertà di religione con­si­de­rata non come mera «necessità sociale» per la pace e il bene comune in determinati contesti politici ma «elevata a livello metafisico» è del tutto inaccettabile e merita di essere condannata, non è affatto stato modificato dal Concilio, e rimane pienamente valido ancora oggi.

Come precisa la Congregazione per la Dottrina della Fede in una lunga lettera del 1987 a mons. Lefebvre, che aveva sollevato una serie di dubbi sul tema — una lettera privata che non è e­spres­sione di Magistero ma è autorevole per la fonte da cui proviene —, la Dignitatis humanae in diversi passaggi si riferisce non a qualunque forma di Stato teoricamente possibile ma allo Stato laico mo­derno. Interpretare diversamente questi passaggi sarebbe contrario ai lavori preparatori richiamati da tale corrispondenza e anche alla logica. Lo Stato laico moderno non è l’unico Stato che la storia ha conosciuto e con cui la Chiesa ha avuto a che fare. Altro è riconoscere l’esistenza di uno speciale rapporto di collaborazione con la Chiesa, e quindi una qualche competenza a occuparsi pure di que­stioni religiose, a un san Luigi IX re di Francia (1214-1270), altro è concedere gli stessi rico­no­scimenti a un Barack Obama. La dichiarazione del Vaticano II non induce a credere che Obama sia preferibile a san Luigi IX, né afferma che lo Stato laico moderno sia preferibile ad altre forme di Stato del passato: «[…] DH [Dignitatis Humanae] non implica neppure una disapprovazione della condotta seguita in passato da alcuni principi cristiani, la cui valutazione storica è complessa»[4].

Proclama già nei suoi passaggi iniziali la Dignitatis humanae che «[…] poiché la libertà religiosa, che gli uomini esigono nell’adempiere il dovere di onorare Dio, riguarda l’immunità della coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina cattolica tradizionale sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo»[5]. Papa Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate ha ribadito che «la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali»[6] Il diritto alla libertà religiosa sancito dalla Dignitatis humanae non è un diritto positivo ma negativo, e si configura tecnicamente come una «immunità». Il fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni, è stato fra i primi a illustrare questo significato negativo, e non positivo, della nozione di libertà religiosa della Dignitatis huma­nae, e la sua natura giuridica d’immunità[7], così certamente preservando i suoi lettori — primi fra tutti i soci di Alleanza Cattolica — da equivoci altrove fin troppo diffusi.

Lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 — che è insieme il catechismo del Concilio Ecumenico Vaticano II e uno strumento interpretativo dei testi conciliari — afferma che «il diritto alla libertà religiosa non è né la licenza morale di aderire all'errore, né un implicito diritto all'errore, bensì un diritto naturale della persona umana alla libertà civile, cioè all'immunità da coercizione esteriore, entro giusti limiti, in materia religiosa, da parte del potere politico»[8].

Nella Relatio de textu emendato presentata ai Padri conciliari si spiegava che «[…] la parola diritto può essere intesa in un duplice significato. Nel primo significato per diritto s’intende la facoltà morale di compiere qualcosa, la facoltà cioè con cui qualcuno ha intrinsecamente la positiva auto­riz­za­zio­ne [...] ad agire. Nella Dichiarazione [Dignitatis Humanae] non è utilizzato in questo senso [...]. Nel secondo significato si dice diritto la facoltà morale di esigere di non essere costretto ad agire, né di essere impedito a farlo. Nel qual senso diritto significa l’immunità nell’agire ed esclude la coercizione sia costringente che impediente. È dunque in questo secondo senso che si intende diritto nella Dichiarazione»[9].

La Congregazione, che cita questo brano, ricorda a mons. Lefebvre che la Commissione Conciliare competente aveva anche precisato che «da nessuna parte si afferma né è lecito affermare (si tratta di cosa evidente) che c’è un diritto di diffondere l’errore. Se poi le persone diffondono l’errore, non è l’esercizio di un diritto, ma il suo abuso»[10]. Commenta la Congregazione: «In effetti il diritto alla libertà religiosa, intesa come immunità civile e sociale dalla coazione in materia religiosa, non im­plica alcun diritto né autorizzazione a diffondere l’errore»[11]. «[…] DH non afferma affatto che la propagazione degli errori sia un bene. Quello che è bene è che esista nella società civile [moderna] un grado di autonomia giuridica in materia religiosa compatibile con l’ordine e la moralità pubblica»[12].

Certamente nella Dignitatis humanae rispetto al beato Papa Pio IX e a Papa Leone XIII vi è una dif­ferenza terminologica. Il Magistero precedente parla di «tolleranza religiosa», il Concilio di «libertà religiosa». La scelta fra i due termini fu oggetto fra i Padri conciliari di lunghe discussioni, con speciale riferimento alle encicliche di Papa Leone XIII Libertas e Immortale Dei e «[…] cercando espli­citamente [una] continuità con il Magistero anteriore»[13]. Nella Relatio de textu priore queste discussioni sono riassunte così: «Ci sono alcuni che dubitano della stessa formula “libertà reli­gio­sa” e pensano che in questa materia non possiamo trattare che della “tolleranza religiosa”»[14].

Alla fine si decise — non senza dubbi — per la formula «libertà religiosa», per due ragioni. Anzi­tutto, la dottrina giuridica non utilizzava più da anni la formula «tolleranza religiosa» come «notio formaliter iuridica»[15], mentre la nozione di «libertà religiosa» nel diritto nazionale di diversi Paesi e in quello internazionale aveva un senso preciso e non necessariamente ideologico: «Se il desti­na­ta­rio del nostro discorso è la società moderna, dobbiamo adottare la sua terminologia»[16]. In secondo luogo, cosa ancora più importante, i Padri conciliari volevano affermare con forza di fronte alle pos­sibili pretese dello Stato laico moderno che il diritto all’immunità dalla coercizione in materia di religione «[…] si fonda nella natura della persona umana, che tutti devono rispettare»[17] a prescindere e prima delle leggi positive, e non si riduce a una semplice «tolleranza» che lo Stato laico moderno avrebbe il diritto di concedere o negare — com’è appunto tipico della nozione di «tolleranza» — a suo libito.

Certamente non è questa la sede per risolvere la questione della corretta interpretazione della dichiarazione Dignitatis humanae, una delle discussioni più complesse fra le tante dove le due diverse ermeneutiche — della continuità con la Tradizione e della rottura — lottano a proposito del Vaticano II. I cenni che ne abbiamo dato sono sufficienti a mostrare qual è la posizione che sul problema di una presunta differenza di princìpi fra la Dignitatis humanae e il Magistero precedente hanno assunto la Congregazione per la Dottrina della Fede e Papa Benedetto XVI. A proposito delle scelte terminologiche del Concilio certo non si è obbligati a credere che siano sempre state le più felici o le migliori possibili. E certamente la presentazione della Dignitatis humanae già nei giorni del Concilio e tanto più dopo il Vaticano II è quasi sempre avvenuta all’insegna di quella che Benedetto XVI chiama «ermeneutica della discontinuità e della rottura», con pochissime eccezioni.

Tuttavia, secondo il Magistero contemporaneo, da Papa Leone XIII al Concilio non sono mutati i princìpi, ma le situazioni storiche cui i princìpi si applicano e che ne determinano le «forme concrete»[18] di espressione. L’ideologia della libertà religiosa, intesa in senso positivo come diritto dell’errore con conseguente «canonizzazione del relativismo»[19], condannata dal beato Papa Pio IX e da Papa Leone XIII, resta altrettanto condannata dal Concilio e da Péapa Benedetto XVI. Una libertà religiosa intesa invece in senso negativo come immunità dall’ingerenza dello Stato laico moderno, di cui i cittadini di questo particolare tipo di Stato debbono godere nella formazione e nell’e­spli­ci­ta­zione delle loro scelte religiose, rappresenta una «forma concreta» nuova nel Magistero della Chiesa a fronte di circostanze storiche mutate. Ma Papa Benedetto XVI ci assicura che — ove sia rettamente interpretata e presentata, il che purtroppo nella confusione postconciliare non è avvenuto spesso — non è in contrasto con il Magistero precedente.

Il fatto che lo stesso Papa Benedetto XVI abbia notato qui una «apparente discontinuità»[20] confer­ma che chi pone domande e nota l’esistenza di problemi non ha torto. A queste domande si deve però rispondere nel senso dell’«ermeneutica della continuità». Letto non isolatamente, ma alla luce della Tradizione e andando se necessario al di là dell’apparenza, la Congregazione per la Dottrina della Fede scriveva a mons. Lefebvre che in tema di libertà religiosa «[…] l’insegnamento del Vaticano II è perfettamente compatibile con l’insegnamento di Leone XIII»[21].

Note
[1] Leone XIII, Lettera enciclica Libertas, del 20-6-1888.
[2] Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, del 22-12-2005.
[3] Ibidem. 
[4] Congregazione per la Dottrina della Fede, Liberté religieuse. Réponse aux dubia présentés par S.E. Mgr. Lefebvre, del 9-3-1987, disponibile sul sito di documentazione sulla Fraternità Sacerdotale San Pio X La Crise intégriste, p. 19.
[5] Concilio Ecumenico Vaticano II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, del 7-12-1965, n. 1.
[6] Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, cit., n. 55. 
[7] Cfr. il mio La libertà religiosa nel pensiero di Giovanni Cantoni, in PierLuigi Zoccatelli e Ignazio Cantoni (a cura di), A maggior gloria di Dio, anche sociale. Scritti in onore di Giovanni Cantoni nel suo settantesimo compleanno, Canta­galli, Siena 2008, pp. 101-113.
[8] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2108.
[9] Congregazione per la Dottrina della Fede, Liberté religieuse. Réponse aux dubia présentés par S.E. Mgr. Lefebvre, cit., pp. 23-24, che cita Acta Synodalia, vol. III, pars VIII, pp. 461-462.
[10] Congregazione per la Dottrina della Fede, Liberté religieuse. Réponse aux dubia présentés par S.E. Mgr. Lefebvre, cit., p. 9.
[11] Ibid., p. 8.
[12] Ibid., p. 12.
[13] Ibid., p. 15.
[14] Ibid., p. 18.
[15] Ibidem. 
[16] Ibidem. 
[17] Ibidem. 
[18] Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, cit.
[19] Ibidem. 
[20] Ibidem. 
[21] Congregazione per la Dottrina della Fede, Liberté religieuse. Réponse aux dubia présentés par S.E. Mgr. Lefebvre, cit., p. 8.

Suicidio della ragione Scritto da Davide Giacalone

Se la danza, macabra e grottesca, attorno alla bara del suicida Mario Monicelli avesse incontrato un osservatore altrettanto bravo e cinico quanto il morto, oggi si troverebbe ad essere cammeo dei nuovi mostri italiani, intontiti dal conformismo e tramortiti dall’omologazione. Sono laico abbastanza da ritenere la vita faccenda di questo mondo. Ragionevole quanto basta per sapere che il suicidio è parte della vita e che l’omicidio per pietà, che chiamiamo “eutanasia”, si pratica nella penombra del dolore, più che sotto i riflettori della televisione. Da sempre. Sono umano appena il necessario per capire che un novantacinquenne che si butta dal balcone è un disperato, non un coraggioso. Sono stufo oltre il consentito di un’Italia ove la scomparsa delle ideologie comporta l’ideologizzazione di tutto, anche della morte. Sicché non mi trattengo dal dire che un suicidio come quello di Monicelli non si commenta, lo si osserva come fatto compiuto, e se si apre bocca per far uscire il profluvio di sciocchezze che ho sentito, allora non si conti sul cordoglio per garantirsi l’omertà.
Gente come Ettore Scola o Paolo Villaggio hanno voluto rendere omaggio al “coraggio”. Quale coraggio? Monicelli ha vissuto una vita bellissima e straordinaria, dedita a un’arte che gli ha guadagnato (giustamente) ogni privilegio. E’ arrivato ad un’età che molti invidiano e tanti non agguantano. Cosa lo ha spinto a suicidarsi non lo sappiamo e non lo sapremo mai. Può essere che non gli mancava nulla, tranne la voglia di vivere. Può essere che ha immaginato un’uscita dalla scena non propriamente in punta dei piedi. Ma il coraggio ci vuole per scelte diverse, per vite meno celebrate, per sentimenti meno esibiti.
Può essere coraggioso un suicidio? Sì, può esserlo: quando parla ai vivi e dice quel che, altrimenti, non sarebbe stato possibile dire. Un esempio? Sergio Moroni, che si sparò una fucilata in testa perché fosse letta la sua lettera denuncia ai colleghi parlamentari. Ma il presidente d’Aula, quel giorno, non la lesse. Monicelli non ha parlato ai vivi, ha chiuso il discorso con sé stesso.
Si può “rispettare la scelta”, come ha fatto il Presidente della Repubblica? No. Si può prenderne atto, e punto. Ma annunciare ai vivi che la si rispetta, quindi la si onora, significa dimenticare che il nostro codice penale punisce (articolo 580) anche chi “rafforza l’altrui proposito di suicidio”. Se si prende il cadavere del suicida e lo si alza agli altari della gloria terrena, interpretando il suo gesto come compimento d’un trionfo, il tutto per non ammettere l’ovvio, ovvero la disperazione alimentata dalla solitudine, si compie operazione assai pericolosa. Per disintossicarcene sarà bene riprendere in mano “Il mestiere di vivere”, di Cesare Pavese.
Cosa c’entra Monicelli con l’eutanasia, totem sacro o sacrilego attorno al quale hanno ripreso a dimenarsi le polemiche? Era incapace d’intendere? No. Era incapace di volere e agire? No. Viveva, con dolore, in funzione di una macchina? No. Non ne poteva più, voleva farla finita, sentiva l’attrazione del gesto paterno (anche il padre si suicidò), o non so cos’altro, ma non c’entra nulla l’eutanasia.
Alla vista della bara i presenti hanno intonato “Bella Ciao”. Una canzone che non è partigiana manco per niente, ma che come tale la si canta. E passi, tanto, di quegli anni, si coltivano più i miti e le bugie che non la storia. Il fatto è, però, che Monicelli non fu partigiano, pur avendone l’età, ma continuò a fare il mestiere durante il fascismo, come la stragrande maggioranza degli italiani, e, anzi, si mise al vento dei nuovi stabilimenti cinematografici di Tirrenia, voluti da Benito Mussolini. Poi, però, fu comunista. Comunista uguale partigiano. A gente che pensa ancora di queste castronerie cosa gli vuoi dire, se non che la suprecazzola prematurata ha lo scappellamento a destra?
Il colmo della disgrazia, per un cinico dissacratore, è quello d’essere commemorato dalle prefiche del conformismo, con il luccicone a favore di telecamera. Il massimo del gramo destino è avere guidato all’esibizione tanti interpreti del proprio pensiero, per poi vedersi accompagnati all’ultima buca da un codazzo d’esibizionisti senza alcunché da esibire. Il mio omaggio alla memoria va contropelo, perché non è falso.

giovedì 2 dicembre 2010

Il Sessantotto italiano (1968-1977) di Enzo Peserico

1. Il Sessantotto più lungo
Talora una data storica dà il nome non solo al fatto di cui è l'indicatore cronologico ma anche ai suoi protagonisti: è il caso del Sessantotto e dei suoi attori, i sessantottini. Fra quanto accaduto in tutto il mondo nel 1968 e denominato sulla base di tale data, l'analisi è limitata al fenomeno di contestazione più lungo sotto il profilo temporale e più significativo dal punto di vista sociale e politico, il Sessantotto italiano: più lungo perché, mentre l'evento-simbolo del Sessantotto, la rivolta del Maggio francese con gli scontri all'Università della Sorbona, le barricate al Quartiere Latino e il blocco di ogni attività produttiva perde rapidamente consistenza e vitalità, mentre la Primavera di Praga e altri movimenti di rivolta nei paesi del mondo comunista vengono subito stroncati dall'intervento militare dell'URSS, la stagione del Sessantotto italiano dura, con alterne vicende, fino al 1977; più significativo perché la pur imponente contestazione giovanile statunitense - emersa nel 1964 all'Università di Berkeley - manca di un progetto politico definito. In Italia, invece, la contestazione cresce rapidamente e viene presto innervata ed egemonizzata da nuclei e da gruppuscoli animati dall'ideologia socialcomunista, che fonda la lotta violenta al sistema.

2. I prodromi della rivolta
Come ha osservato Eric Voegelin (1901-1985), i fenomeni messianico-rivoluzionari di massa sono preparati da situazioni sociali di profonda inquietudine, che costituiscono il terreno di coltura dell'ideologia, intesa come sistema di miti che promette il raggiungimento della felicità "secolarizzata", cioè totalmente infraterrena, attraverso l'azione politica.
Il fenomeno del Sessantotto italiano si sviluppa a partire da una diffusa situazione di insoddisfazione, soprattutto giovanile, derivante dalla disgregazione dei valori dominanti, progressivamente erosi da un modello di "società opulenta" incapace a sua volta di rispondere ad attese di profilo diverso dall'innalzamento del livello materiale di vita, peraltro ottenuto attraverso un disordinato processo di industrializzazione e di allargamento artificioso dei consumi, che aveva portato rapidamente a una squilibrata espansione delle periferie urbane dell'Italia Settentrionale e allo sradicamento culturale di ampie fasce della popolazione.
In questo humus sociale carico di insoddisfazione e insieme di attesa di un "mondo nuovo", liberato da costrizioni e da ingiustizie, cresce il rifiuto della new wave of life vagheggiata dalla cultura liberal-illuminista predominante in Occidente, e accanto alle ribellioni comportamentali comincia a diffondersi, anche grazie alla paziente e spregiudicata opera di molti "cattivi maestri", l'utopia della Rivoluzione comunista.

3. La rivoluzione "in interiore homine" e quella politica
Il carattere unitario del Sessantotto non va perciò ricercato in fenomeni di superficie, quali le occupazioni universitarie o le manifestazioni studentesche, che continuano a produrre ricostruzioni reducistiche da parte di nostalgici protagonisti - su tutte emblematica per faziosità quella di Mario Capanna nel pamphlet Formidabili quegli anni - bensì in quell'atmosfera di idee e di sentimenti diffusa nel mondo giovanile fino a diventare culturalmente dominante. Si tratta, in altri termini, di una Rivoluzione culturale, che ha espresso due tendenze di fondo. La prima può essere definita rivoluzione "in interiore homine", che mostra il volto del Sessantotto a livello dei comportamenti individuali e collettivi; il tipo che la incarna è il rivoluzionario d'elezione: "La mia vita come rivoluzione". Egli fa la rivoluzione rovesciando lo stile di vita dell'uomo naturale e cristiano, in un processo di progressiva distruzione di ogni legame vitale - con Dio, con gli altri uomini e con sé stesso - fino all'esito coerentemente drammatico dell'autodistruzione attraverso la tossicodipendenza o il suicidio. La seconda tendenza si manifesta nella rivoluzione politica, che mostra il volto del Sessantotto a livello macrosociale: il tipo antropologico che la incarna è il rivoluzionario di professione: "La mia vita per la Rivoluzione". Egli realizza il suo progetto attraverso due vie: la lotta politica - anche violenta - e la lotta politica armata, cioè il terrorismo.
Queste due tendenze percorrono, talvolta intersecandosi e confondendosi, tutta la storia del Sessantotto, per ripresentarsi emblematicamente unite in quel Movimento del '77 che rappresenta il momento ultimo della contestazione giovanile. Ma l'unione ha vita breve: l'ala "desiderante" - che si esprime, per esempio, negli "indiani metropolitani" - svanisce nell'autodistruzione personale, nella droga e nel nichilismo; l'ala violenta, invece, espressa dall'area di Autonomia, sancisce il proprio fallimento andando a ingrossare le file dei gruppi terroristici, nel frattempo decimate dagli arresti e dalle defezioni.
La tendenza che si manifesta nella ribellione politica assume in Italia un ruolo preponderante. Il momento è favorevole: il desiderio di costruire il mondo nuovo e perfetto, liberato dall'ingiustizia e dalle disuguaglianze, trova nella teoria rivoluzionaria di Karl Marx (1818-1883) e di Vladimir Ilijc' Uljanov detto Lenin (1870-1924) il modello utopico del futuro e la "tecnica" politica per costruirlo infallibilmente. L'ideologia si arricchisce nel contempo di miti che, sapientemente propagandati, rafforzano la "fede" nella vittoria della Rivoluzione: la Resistenza, i vietcong, i combattenti nella guerra di "liberazione" del Vietnam meridionale (1953-1975), la guerriglia del Che (Ernesto Guevara de la Serna, 1928-1967), la Cina di Mao Zedong (1893-1976).
In questo clima culturale nascono e si moltiplicano i rivoluzionari di professione: nelle scuole e nelle fabbriche si aggregano e si disgregano in continuazione gruppuscoli rivoluzionari. Se l'eclissi dei valori tradizionali aveva progressivamente prodotto, dalla fine degli anni 1950, fenomeni di disgregazione del corpo sociale e quindi un'atmosfera di profonda insoddisfazione e, insieme, di desiderio di un "mondo nuovo", la nuova aggregazione attorno all'ideologia marxista - seppure ispirata a figure diverse - rifiuta il confronto con la realtà e, secondo un processo che aveva già caratterizzato la Rivoluzione francese, produce teorie e slogan, afferma quanto non può essere dimostrato, esorcizza il dissenso, produce cioè miti da trasporre nella realtà per costringerla ad adeguarsi alle "analisi" distillate nei pensatoi rivoluzionari. Si tratta di un dinamismo artificiale, perché produce esso stesso le affermazioni inverificabili e gli slogan che muovono all'azione gli attivisti; così lo descrive Marco Barbone, ex terrorista pentito, in un'intervista-confessione del 1984: "[...] noi esistevamo e ci rapportavamo in base a discussioni politiche. Era il nostro universo, il microcosmo (cosa che verrà drammaticamente accentuata nelle organizzazioni combattenti), l'orizzonte dell'esistenza". Il pensiero viene "socializzato", con il risultato che la politica diventa il mezzo infallibile per fare giustizia. Il sociologo Sabino S. Acquaviva ricorda le parole rivoltegli da uno studente: "Tu non potrai mai capire la sensazione di dominare il mondo, di fare definitivamente giustizia nel mondo, una piccola e specifica ma definitiva giustizia, colpendo chi si è macchiato di tanti delitti". Identificando etica e politica, il rivoluzionario di professione ha l'obbligo morale di far trionfare i postulati dell'ideologia con qualsiasi mezzo. La mitologia della Resistenza fornisce gli esempi dell'"antifascismo militante" e così, fra la teorizzazione dell'annientamento fisico dell'avversario, l'atto di violenza e, in seguito, l'azione terroristica, non vi è soluzione di continuità: l'ideologia giustifica ogni comportamento e lo eleva ad atto morale. Se qualcuno ha problemi di coscienza, Lenin ha già risposto una volta per tutte nel 1920 ne I compiti delle associazioni giovanili: "Ma esiste una morale comunista? Esiste un'etica comunista? Certo, esiste. [...]
"La nostra etica scaturisce dagli interessi della lotta di classe del proletariato".

4. L'"altro" Sessantotto
Accanto agli attori della contestazione di sinistra il Sessantotto in Italia conosce anche altri protagonisti, dal momento che il fenomeno rivoluzionario, pur diventando preponderante attraverso le sue avanguardie numerose e violente, non esaurisce il mondo giovanile composto altresì, accanto alla larga maggioranza dei passivi, dai contestatori di destra. La destra giovanile, essenzialmente studentesca e aggregata inizialmente attorno alla contestazione al sistema, entra ben presto in antitesi con il progetto egemonico dei movimenti delle sinistre e si caratterizza quindi come reazione anticomunista, individualista e antiegualitaria all'ideologia marxista, venendo così coinvolta, e progressivamente esaurita, in una tragica guerra fra giovani, innescata dalla sistematica demonizzazione del "fascista" e quindi costellata da sanguinosi episodi di violenza. Il comprensibile atteggiamento reazionario del "Sessantotto di destra" ne svela tuttavia l'incapacità di elaborare e di proporre un modello esistenziale e culturale diametralmente opposto al fronte libertario e marxista-leninista, ma anche alternativo a quello offerto dalla cultura dominante, capace quindi di presentarsi come scuola di vita e di nuova civiltà.
Né, d'altra parte, migliore è la sorte del mondo giovanile cattolico coinvolto nel fenomeno. Frastornato dall'"aggiornamento" conciliare e soffocato politicamente dall'egemonia democristiana, esso si lascia sedurre dall'utopia marxista: i suoi quadri dirigenti abbandonano in larga parte la Chiesa e la base finisce in buon numero a ingrossare le file dei rivoluzionari di professione. Pertanto, il movimento cattolico perde nel Sessantotto un'occasione storica: di fronte alla debolezza della cultura liberal-illuminista e all'aggressione intellettuale e politica della rivoluzione socialcomunista rinuncia a prendere l'iniziativa, entra anch'esso "in crisi" e, trascurando la dottrina sociale della Chiesa, accetta l'analisi sociale marxista, assumendo così un atteggiamento di subalternità culturale che continua a produrre effetti desolanti.

5. Il Sessantotto come Rivoluzione culturale
Il Sessantotto si presenta quindi, nel suo aspetto più profondo, come una Rivoluzione culturale, che ha inciso sul costume e sui comportamenti sociali molto più che sulla politica. Certamente il desiderio di un mondo nuovo, ossia l'aspetto utopico della contestazione, è stato sepolto insieme alle numerose vittime degli anni di piombo, e si è capovolto nella tragica disperazione di chi più intensamente ha creduto ai miti dell'ideologia e li ha visti dissolversi fra le "urla dal silenzio" delle vittime dell'esperimento comunista, oppure nel fallimento esistenziale dell'utopia libertaria.
Tuttavia, se l'utopia libertaria e l'ideologia marxista si sono frantumate nel confronto con il reale, la generazione del Sessantotto ha smarrito anche la memoria di quel patrimonio di verità individuali e sociali contenuto nella tradizione cristiana e già sfigurato dai modelli liberali e illuministici della "società opulenta". In questo modo, la secolarizzazione laicista è avanzata rapidamente anche in Italia e ha potuto tenere il campo indisturbata, saldando in un'unica egemonia culturale progressista tanto le tendenze libertarie che quelle socialcomuniste, orfane del mito messianico-rivoluzionario. D'altra parte, il Sessantotto ha mostrato inequivocabilmente l'incapacità della Modernità, con il suo arsenale ideologico, di fornire risposte significative alla sua deriva nichilista, e ha quindi reso evidente, per contrasto, l'esistenza di un'alternativa reale alla dissoluzione personale e sociale: alternativa culturale e politica, questa, né utopistica né relativista, e percorribile attraverso la riscoperta dei valori che caratterizzano l'uomo naturale e cristiano e che fondano la sua civiltà.


Per approfondire: vedi orientamenti sulla storia del Sessantotto, in Michele Brambilla, Dieci anni di illusioni. Storia del sessantotto, Rizzoli, Milano 1994; in Idem, L'eskimo in Redazione. Quando le Brigate Rosse erano "sedicenti", Ares, Milano 1991; e in Adalberto Baldoni e Sandro Provvisionato, La notte più lunga della Repubblica. Sinistra e destra. Ideologie, estremismi, lotta armata (1968-1989), Serarcangeli, Roma 1989; sul Sessantotto come rivoluzione culturale, vedi Sabino S. Acquaviva, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia, Rizzoli, Milano 1979; AA. VV., Dov'è finito il '68? Un bilancio per gli anni 80, Ares, Milano 1979; vedi una sintesi nel mio Gli "anni del desiderio e del piombo", in Quaderni di "Cristianità", anno II, n. 5, estate-inverno 1986, pp. 3-34.

Sociologia e Vaticano II: «De Mattei e il Concilio, un metodo critico che svaluta i testi di Massimo Introvigne (Avvenire, 1° dicembre 2010)

Il 22 dicembre 2005, in un discorso ormai famoso alla Curia Romana, Benedetto XVI ha distinto a proposito del Vaticano II un’errata «ermeneutica della discontinuità e della rottura» rispetto al Magistero precedente, e una giusta «ermeneutica del rinnovamento nella continuità». Il 24 luglio 2007, ad Auronzo di Cadore, il Papa ha aggiunto che l’ermeneutica della rottura è praticata sia dal «progressismo sbagliato» sia dall’«anticonciliarismo». Entrambi affermano che il Vaticano II ha rotto con la Tradizione, i progressisti per applaudire questa presunta rottura e gli anticonciliaristi per deplorarla. Ma in verità, per Benedetto XVI, non c’è nessuna rottura.
Per decenni, l’ermeneutica della rottura è stata proposta principalmente dal fronte del «progressismo sbagliato». Di recente sono apparse diverse opere che ripropongono l’ermeneutica della rottura in chiave anticonciliarista e talora cercano di rivalutare la figura, emblematica per questa lettura del Concilio, di mons. Marcel Lefebvre.
Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta dello storico Roberto de Mattei (Lindau, Torino 2010) si presenta, già dal titolo e dalla mole (632 pagine), come un libro molto ambizioso e una vera summa delle tesi anticonciliariste. A differenza di altri autori, che condividono con lui l’accusa al Concilio di avere rotto con la Tradizione, de Mattei manifesta un maggiore distacco nei confronti di mons. Lefebvre, rilevando che del cosiddetto «tradizionalismo» che rifiutava il Concilio il vescovo francese non fu mai «il capo», ma solo «l’espressione più visibile e alimentata dai mass-media».
De Mattei condivide però con i «lefebvriani» la tesi secondo cui l’ermeneutica della continuità auspicata da Benedetto XVI è ultimamente impraticabile. Infatti, per interpretarli alla luce della Tradizione, i documenti conciliari dovrebbero essere separati dall’evento-Concilio, che consta della sua preparazione, delle discussioni in aula – ricostruite da de Mattei in modo minuzioso, usando però molto meno le relazioni delle commissioni –, delle presentazioni contemporanee dei media e delle applicazioni successive.
Questa «artificiale dicotomia fra i testi e l’evento», secondo de Mattei, dal punto di vista dello storico e del sociologo non ha senso. Lo storico romano cita fra i sociologi che hanno applicato al Concilio le teorie dell’evento globale Melissa Wilde e il sottoscritto. Da queste teorie pensa di poter concludere che i documenti fanno parte dell’evento, fuori del quale perdono il loro significato.
Ma la teoria sociologica dell’evento non afferma che sia impossibile la distinzione fra un testo e il suo contesto. Se il testo fosse fagocitato dal contesto, il che applicando il metodo del libro potrebbe essere affermato di qualunque documento che si presenta come autorevole, saremmo di fronte a una sorta di strutturalismo, o a un’applicazione al Magistero di quelle teorie – pure criticate da de Mattei con riferimento alla Bibbia – che riducono la sacra Scrittura alla sua sola redazione e forma, dove ogni brano è smontato e decostruito in un gioco di riferimenti perpetuo in cui nulla ha più autorità.
La buona scienza dovrebbe servire a spiegare i documenti, non a farli a pezzi. De Mattei nega la continuità dei documenti del Concilio con la Tradizione, ribadita dal Papa anche nella recente esortazione Verbum Domini. Ripropone così purtroppo, ancora una volta, quell’ermeneutica della rottura che Benedetto XVI denuncia come dannosa.

The Essential (and Exceptional) American by Newt Gingrich

The Essential
(and Exceptional) American
by Newt Gingrich
It has been said that times of great challenge reveal the great character of our nation.

This observation is typically used to highlight the extraordinary sacrifices and heroics of the American people. Time and again, whether we have been tested by war or great tragedy, the American people have revealed their fundamental bravery, compassion and honor.

But the statement can also be said to be true in another sense: Times of great challenge for America often cause us to reexamine our nation's policies and priorities, measuring them against the founding principles of our country.

This year, as part of the American Solutions Real Jobs Tour, I had the opportunity to meet with Tea Party leaders across the country. I was amazed at how many of them were leading reading and discussion groups on the Constitution and learning more about the Founding Fathers. It became clear to me that the energy and drive of the Tea Party movement was not an allergic reaction to the radicalism of the Obama administration, as it is so often dismissed in the mainstream media.

It was, in fact, a response to the huge challenges facing our nation, and evidence of the revival of an old idea: American Exceptionalism.
Clarifying American Exceptionalism

Asserting American Exceptionalism is not a vain exercise in building our national self-esteem by boasting about our country's great wealth and military capability.

It is also not an argument that says America can "go it alone" on the world stage.

Nor is it a belief that America's success is pre-ordained by the Almighty, no matter what we do (which is not to say that the hand of Providence cannot be seen during key points in American history.)

Instead, American Exceptionalism is an idea as old as our country itself. The Founding Fathers understood that the vast resources at our fledging country's disposal coupled with our puritan roots and lack of a feudal past meant that the United States was uniquely positioned to thrive as an exception to the corruption and poverty of other countries.

More importantly, they understood that the new nation was the first to be founded on the self-evident truth that individual rights come directly from God, not the church or a King, and that citizens loan that power to the state. In America, the individual is sovereign, not the government, which was a revolutionary break with previous forms of government in the world.

This relationship was expressed in our founding political document, the Declaration of Independence: "We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness."

Why the Left Hates American Exceptionalism

The Left routinely mocks the idea of American Exceptionalism, with one liberal writer recently dismissing it as an exercise in "toasting our fabulousness."

"Does anyone else think there's something a little insecure about a country that requires its politicians to constantly declare how exceptional it is," writes Matt Miller in the Washington Post. "A populace in need of this much reassurance may be the surest sign of looming national decline."

Even President Obama, a product of Left wing academia, felt the need to reduce America's unique character and role in the world when asked about American Exceptionalism during an overseas trip. "I believe in American Exceptionalism," he said, "just as I suspect that the Brits believe in British Exceptionalism and the Greeks believe in Greek Exceptionalism."

But what the Left fails to understand is that the relationship between God, the citizen, and the state, understood by our founding fathers and expressed in the Declaration, shaped the Constitution (which identifies the source of the new government's power as "We the people..."), our subsequent national policies, and our enduring understanding of American Exceptionalism.
America developed a free market economic system not based on some academic analysis that it is more efficient at creating wealth, but because if the individual is sovereign, the idea of the state trying to organize human activity is abhorrent, a violation of the individual's right to pursue happiness.

Instead, our country believes the proper role of government in the economic sphere is to create a framework that maximizes the ability of citizens to engage in free exchange, such as putting the weight of law behind the enforcement of contracts and by prosecuting fraud. It is not the role of government to try and redistribute wealth, create new entitlements or bail out politically connected special interests.

Similarly, America's great freedom of religious practice did not evolve based on a simple desire to create social harmony. It is a direct consequence of this historic understanding of the relationship between God, the citizen and the state. If "our Creator" is the source of our unalienable rights – including the right to know and worship God – then it is illicit for government to get between the citizen and the worship of God.

The modern distortion of the establishment clause of the First Amendment, which has been used to justify the tearing down of crosses on public land and the harassment of civic organizations like the Boy Scouts of America, is an explicit violation of this natural order.

The Left hates the idea of American Exceptionalism because it sets boundaries on the power of the state. The Left's desire for ever bigger government clashes with the core principles of America's exceptional founding.

That's why the Left is engaged in an unending war in academia and Hollywood to reduce the exceptional nature of America's founding by trashing the integrity of our founding fathers and trying to paint our country's enormous and rapid rise in wealth and power as due to almost anything other than the freedoms we enjoy.

Learn American Exceptionalism from the Most Exceptional Americans

It is in the context of this great debate about American Exceptionalism that I am excited about the release of The Essential American: 25 Documents and Speeches Every American Should Own.

(Download a free chapter here.)

Written by syndicated columnist (and my daughter) Jackie Cushman, The Essential American is a collection and analysis of the 25 most important and significant expressions of American Exceptionalism in our country's history.

The Essential American starts with Patrick Henry's address at the Second Virginia Convention ("Give me liberty, or give me death.") and covers the key writings and statements of the founding generation, including some you may not expect, such as Abigail Adams' letter to her husband ("I am your ever faithful friend.")

The book also covers our nation's greatest crisis, the Civil War, presenting an analysis of what Lincoln's greatest speeches as well as the Emancipation Proclamation say about the unique principles and character of America.

The Essential American also features modern selections, such as Martin Luther King's "I Have a Dream" speech, Ronald Reagan's "A Time For Choosing," and President George W. Bush's Address to the Joint Session of Congress after the attacks of September 11th, showing the common thread that connects today's greatest statements of the unique and special character of America with those of the past.

Communicating Great Things

In Ronald Reagan's farewell address from the Oval Office, he offered a fitting summation of his life of public service. Reagan said, "I wasn't a great communicator, but I communicated great things, and they didn't spring full bloom from my brow, they came from the heart of a great nation."

While just two of the speeches included in the book are from Ronald Reagan, his statement can easily be applied to all 25 speeches and documents contained in The Essential American. Each selection communicates something great and something unique about our country.

Each declares and defines American Exceptionalism in a way that reinforces the core ideals on which this country was founded. And in doing so, each selection shows that a hallmark of great American leaders is an understanding of American Exceptionalism and how it applies to the challenges of their time.

That's why The Essential American: 25 Documents and Speeches Every American Should Own is a perfect book for our time.

America faces enormous challenges at home and abroad. Our economic vitality is threatened
by a massive federal deficit, bloated government, inadequate educational opportunities and a health care system that was already bad and now has been made worse by Obamacare. Our physical security is threatened by the ideology of Radical Islamism inspiring terrorist attacks against our civilization.

I believe America can and will overcome these challenges. But it will not be by turning to bigger government and betraying our core principles and beliefs. Instead, it will be by understanding American Exceptionalism and how to apply those principles today.

The best way to learn about American Exceptionalism is directly from America's most exceptional leaders, and how they applied our founding principles to the challenges of their time.

That's why The Essential Americanhttp://www.amazon.com/gp/product/1596986433?ie=UTF8&tag=newtorg-20&linkCode=as2&camp=1789&creative=9325&creativeASIN=1596986433 is, yes, essential for today.

Your friend,

Newt