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lunedì 31 maggio 2010

Intervista a Mirella Serri, autrice di «I profeti disarmati» di Cristiano Bosco

irella Serri è giornalista, saggista e docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all'Università «La Sapienza» di Roma. Co-autrice del libro Amorosi Assassini, dedicato al fenomeno della violenza sulle donne, è autrice dei saggi Il breve viaggio. Giaime Pintor nella Weimar Nazista (Marsilio, 2002) e I Redenti. Gli Intellettuali che vissero due volte (Corbaccio, 2005), quest'ultimo sul tema dell'antifascismo posticcio e dell'ultima ora di numerosi intellettuali italiani. Con la sua più recente opera, I Profeti Disarmati (Corbaccio, 2008), ha voluto analizzare e documentare la violenza della lotta politica in Italia nel dopoguerra, mettendo in evidenza il tentativo, da parte del Partito Comunista, di conquistare il monopolio dell'antifascismo ai danni delle altre forze - liberali, laici, monarchici, repubblicani, ecc. - che lottarono per contrastare il regime. Pagine di storia - come nel caso dei recenti lavori del giornalista Giampaolo Pansa - spesso trascurate, spesso volutamente per desiderio di alcuni, che meriterebbero maggiore attenzione. Per il suo I Profeti Disarmati, Mirella Serri ha vinto il «Premio Pannunzio Alassio 2009», riconoscimento che viene conferito dal Centro Pannunzio a personalità italiane della cultura, del giornalismo e dell'arte che si siano distinte per il loro spirito libero.
Chi sono i «profeti disarmati» di cui parla il suo libro?
I «profeti disarmati» sono i nostri politici, intellettuali e scrittori che «vestivano all'inglese», ovviamente in senso figurato, cioè che tentavano un laburismo all'italiana. Personalità quali Mario Pannunzio, Luigi Einaudi, Ernesto Rossi, Mario Ferrara, Gaetano Salvemini, i quali tentarono questo esperimento nel nostro Paese, una «terza forza» che non fosse né la Democrazia Cristiana né il Partito Comunista. Un esperimento fallito, culminato con una sconfitta. Tuttavia, spesso anche le sconfitte portano con sè dei risultati. Dall'esperienza di Risorgimento Liberale, che veniva pubblicato clandestinamente, alla loro uscita dal Pli nel 1947, quindi con la nascita de Il Mondo nel 1949, iniziarono a diffondersi i germi di una via italiana al laburismo, i cui risultati sono presenti ancora oggi.
In cosa consisteva la cosiddetta «tecnica della mangusta»?
La «tecnica della mangusta» - denunciata da Mario Pannunzio fin dal 1944-45 - riguardava l'operato e l'atteggiamento del Pci all'interno delle forze componenti l'antifascismo. Desiderio dei comunisti era di divorare l'avversario, inglobarlo, in modo da avere l'egemonia delle forze che componevano l'antifascismo. Ciò ovviamente causò una rottura. Inizialmente Pannunzio tese la mano ai comunisti, nel nome della battaglia comune contro il regime. Ed egli tentò anche una alleanza con il Psi, ma il patto tra quest'ultimo e il Pci, di fatto, la impedì.
Qual è l'intento del Suo libro?
Raccontare una parte di storia dimenticata. Nei libri di storia si parla de Il Mondo, e meno di Risorgimento Liberale. Si tratta anche di una riscoperta di tale giornale. Io stessa l'ho scoperto per puro caso, documentandomi sugli scontri politici del dopoguerra. Quella testata, già all'epoca, ospitava temi di grandissima attualità: il dibattito sulle foibe, il «triangolo rosso», i prigionieri di guerra dell'Urss, le questioni di Istria, Gorizia e Dalmazia. Temi trattati da Risorgimento Liberale nonostante numerosi ostacoli e varie barriere. Lo stesso vale per Il Mondo, unico a ricordare lo tsunami di violenze ed eccidi che colpì l'Italia da Nord a Sud dal 1946 alla fine del '47. Un giornalismo di inchiesta, un atteggiamento vivace volto a combattere gli «illegalismi» dei comunisti e i cosiddetti «gargarismi» togliattiani, che incontrò un netto contrasto, non solo a parole, ma con i fatti.
In un editoriale intitolato «Perché non possiamo non dirci anticomunisti» don Gianni Baget Bozzo scrisse che «il Pci è riuscito a creare un linguaggio politico che è diventato lentamente maggioritario nella cultura italiana». È d'accordo?
É verissimo. Nella cultura italiana il linguaggio politico è rimasto quello utilizzato dal Partito Comunista. Basti pensare a come venivano coniati gli slogan antifascisti da parte di Carlo Muscetta e Concetto Marchesi, la contrapposizione tra «uomini di qualità» e «uomini qualunque» effettuata dal primo e il teorema dei «fascisti mascherati» del secondo, che permetteva di accusare di «fascismo» tutti coloro che non si schieravano con i comunisti, dai socialisti poco accomodanti con il Pci ai democristiani, passando per i repubblicani e i liberali di sinistra. Un lessico che continua ad essere utilizzato attualmente.

Pedofilia. Ecco quello che i nemici della Chiesa non dicono

Ormai ci si trova in una sorta di delirio mediatico in cui nessuno sembra saper capire più nulla. L'ultimo esempio, in ordine temporale, lo si può rinvenire nelle reazioni di una parte dell'opinione pubblica a cavallo dei giorni di Pasqua: padre Raniero Cantalamessa aveva reso note le attestazioni di solidarietà di un suo amico ebreo in favore del Papa e della Chiesa, suscitando, inspiegabilmente, lo sdegno di certe comunità ebraiche poiché aveva osato paragonare l'anticristianesimo in genere, e l'anticattolicesimo in specie, all'antisemitismo. D'altro canto la circostanza per cui il Pontefice nella sua omelia della veglia pasquale non abbia fatto riferimento alla vicenda della pedofilia ha suscitato, anche questa volta inspiegabilmente, scalpore e malcontento. Insomma, che la Chiesa si pronunci rappresenta un problema; che la Chiesa taccia rappresenta un problema; tutto ciò che, nel merito, la Chiesa ufficialmente o ufficiosamente dichiara, rappresenta un problema. Tutto questo parapiglia, figlio del più moderno anticlericalismo, cioè diffuso per motivi di natura esclusivamente ideologica, genera una cortina fumogena che cela la verità all'opinione pubblica in merito ad almeno tre punti principali: la diffusione del fenomeno, il celibato, la reazione della Chiesa.
In ordine al primo problema, cioè quanto è diffuso il crimine di pedofilia nella Chiesa, occorre sottolineare vari dati. Alcuni disinformati commentatori, per esempio, hanno parlato di decine di migliaia di preti pedofili solo negli Stati Uniti, generando non solo sdegno, ma, soprattutto, allarmismo nell'opinione pubblica. Scandagliando in profondità, tuttavia, si scopre, per tabulas, che negli USA, per esempio, i sacerdoti non sono più di 110.000, quelli sospettati e denunciati di abusi sessuali nei confronti dei minori sono «soltanto» 4.000 circa e quelli condannati sono circa 958, come rivela uno studio commissionato dalla stessa Conferenza Episcopale degli Stati Uniti al laicissimo John Jay College, cioè la più importante facoltà di criminologia degli States.
Se poi si considera che in alcune culture la pedofilia rappresenta un fenomeno di massa o istituzionalizzato e legalizzato, si comprende quanto ideologica sia la pretesa di attribuire alla Chiesa cattolica l'esclusività del terribile fenomeno criminale. Si pensi, per esempio, a ciò che accade in India (in cui non c'è la Chiesa cattolica, se non come minoranza per lo più oggetto di persecuzione), in cui, come riporta l'associazione Samvada, le soglie di abusi sessuali sui minori sono superiori a quelle di qualunque altra zona del mondo, in accordo con i dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. Si pensi, inoltre, anche ad alcuni paesi di cultura prevalentemente islamica come Mali, Nepal, Mozambico, Uganda, Burkina Faso, Guinea, Liberia, Yemen, Camerun, Eritrea, in cui è lecito sposare bambine di 9 anni. Per esempio, nel settembre del 2008 il teologo islamico Mohamed Ben Abderahman Al Maghrawi ha scatenato vivaci polemiche per aver sostenuto che le bambine possono essere prese in moglie già a 9 anni; del resto - continua il teologo marocchino - «anche il Profeta Maometto sposò una donna di 9 anni. E' la nostra religione. Dobbiamo seguirla nelle sue fonti originarie». Sarebbe molto difficile trovare qualche teologo cattolico, più o meno ratzingeriano, della medesima opinione. Da tutto ciò si deduce che non solo il fenomeno drammatico della pedofilia non riguarda solamente la Chiesa cattolica, ma non si può considerare per essa fisiologico.
Si noterà anche che il celibato messo in discussione da molti «critici» della Chiesa non incide per nulla sul fenomeno, posto che la tragedia degli abusi sessuali sui minori si consuma maggiormente in paesi, culture e religioni che non praticano il celibato. Oltre a ciò, la bassa percentuale di sacerdoti accusati e condannati per pedofilia (circa l'1-2% su scala statunitense, e ancor meno a livello mondiale), lascerebbe dedurre, semmai, il contrario: cioè che dove vige la continenza del celibato sacerdotale, il fenomeno sia «controllato» e assolutamente ridotto.
Soddisfatte così le prime due questioni, occorre riflettere in ordine all'ultimo problema, cioè la presunta inattività della Chiesa contro la pedofilia. Occorre ricordare che la storia della Chiesa si distende su un arco di due lunghi millenni, avendo assistito a crisi morali e teologiche, per intensità e qualità, anche peggiori di quella attuale. Ciò nonostante, la Chiesa, con il tempo, con fatica, spesso con dolore, ha saputo sempre far fronte ai problemi, ai nemici ad essa interni ed esterni, alle proprie difficoltà. Guardando rapidamente, si potrebbe ritenere senza esitazioni che l'intera storia della Chiesa narri la sua capacità di metabolizzare il male, e da questo riuscire a trarne il bene, fuoriuscendo dalle crisi più forte, più rinvigorita e più santa di prima.
A scopo esemplificativo, sia sufficiente ricordare la riforma gelasiana nel V secolo (che introdusse la laica separazione tra Stato e Chiesa); la riforma cluniacense nel X secolo (che, facendo perno sulla spiritualità benedettina, si scagliò contro la simonia ed il concubinaggio degli ecclesiastici); la riforma di Gregorio VII nell'XI secolo (che continuò e portò a compimento quella precedente); la riforma del Concilio di Trento nel XVI secolo (che ridestò l'unità dottrinale, liturgica e spirituale della cattolicità dopo le eresie dell'anglicanesimo, del luteranesimo, del calvinismo e di tutta la frammentata galassia protestante). E infine, nel XX secolo, la riforma del Concilio Vaticano II che, in un mondo sopravvissuto a stento alle guerre mondiali ed agli stermini di massa, e per metà schiavizzato dai regimi dell'ateismo scientifico e del pensiero materialista, annunciò ancora una volta che la pietà cristiana era ancora in vigore e che l'uomo aveva bisogno di sentire la «Buona Novella» per sopravvivere a se stesso recuperando la dimensione spirituale ed umana. La Chiesa, in conclusione, ha sempre fatto fronte ai suoi problemi, ed anche contro la pedofilia si dimostrerà, con il tempo necessario, che si tratta dell'ennesima patologia del tutto superabile.
Vi è, tuttavia, una patologia per certi aspetti ancor più grave della pedofilia, non fosse altro che per la sua maggior diffusione, cioè la mancanza di rispetto e di fiducia che il mondo dei laici mostra nei confronti della Chiesa; sarebbe bene, cioè, che i laici tornassero a conoscere e riconoscere la maternità della Chiesa, cominciando proprio dal pensiero di uno dei padri della cattolicità, Cipriano di Cartagine, che puntualizzò: «Habere non potest Deum Patrem, qui non habet Ecclesiam Matrem».

La «dea Ragione» s’illude di poter stabilire dove stanno Bene e Male

Il pluralismo implica scelta; la scelta, a sua volta, implica libertà; e la libertà esige responsabilità. «Non penso, ha scritto Karl Popper, che la tesi del dualismo tra fatti e decisioni sia in alcun modo contraria a una religione fondata sull’idea di responsabilità personale e della libertà di coscienza». Chiedo - e lo chiedo soprattutto agli amici cattolici - è nel torto Popper? È stato Hans Kelsen a scrivere che «la causa della democrazia risulta disperata se si parte dall’idea che sia possibile la conoscenza della verità assoluta, la comprensione di valori assoluti», e che, invece, colui il quale «ritiene inaccessibili alla conoscenza umana la verità assoluta e i valori assoluti, non deve considerare come possibile soltanto la propria opinione, ma anche l’opinione altrui. Perciò il relativismo è quella concezione del mondo che l’idea democratica suppone». Chiedo se Kelsen sia nel torto. E chiedo se sia possibile accettare il pluralismo senza accettare quella forma di relativismo intesa quale non fondabilità razionale dei diversi sistemi etici.
Per un cristiano ciò che è Bene e ciò che è Male lo stabilisce il Vangelo o la ragione umana? Così, per esempio, l’idea di persona sacra e inviolabile sin dal concepimento è un messaggio religioso o un esito di qualche elucubrazione filosofica? E se ciò che è Bene e ciò che è Male lo stabilisse l’umana ragione, non dovremmo allora dare ragione ai sostenitori della «dea Ragione»? Se è la ragione umana a stabilire la natura del bene e del male, il messaggio evangelico non si riduce a essere lo strofinaccio dell'argenteria di Aristotele o di Grozio o magari ancora di Rothbard, il quale ha legittimato l’aborto con argomenti tratti dalla più elevata tradizione giusnaturalistica? Certo, emotivamente, ci sentiamo dalla parte di Antigone, ma che cosa hanno messo gli dei nel cuore degli uomini?
Scrive Blaise Pascal nei suoi Pensieri: «Ho trascorso molto tempo della mia vita credendo che ci fosse una giustizia: e non mi ingannavo dacché ce n’è una sola, secondo Dio piacque di rivelarcela. Ma non la intendevo così, e in ciò sbagliavo: perché credevo che la nostra giustizia fosse per essenza giusta e mi stimavo capace di conoscerla e giudicarne. Sennonché mi sono trovato tante volte senza un retto criterio di giudizio che, alla fine, ho preso a diffidare di me e poi degli altri. Ho veduto tutti i Paesi e gli uomini cambiare; e così, dopo molti cambiamenti di giudizio nei confronti della vera giustizia, mi sono convinto che la nostra natura non è se non continuo mutamento, e da allora non ho più mutato (giudizio). E, se mutassi ancora, confermerei con ciò la mia opinione». Che cos’è, dunque, la giustizia? Pascal muove dalla presunzione che sia possibile venire a capo di questo problema, parte cioè dall’idea che sia possibile sapere in che cosa consista la giustizia e di darne ragioni valide erga omnes. Ben presto, però, dovrà arrendersi: il problema non è razionalmente risolvibile.
La ricerca di un fondamento razionale unico e incontrovertibile è destinata, secondo Pascal, a naufragare. In fondo, tutti i nostri «lumi» potranno solo farci conoscere che noi non troveremo «né la verità né il bene». In breve: «Senza la fede l’uomo non può conoscere né il vero bene né la giustizia». E la fede cristiana - dono
a parte Dei e scelta a parte hominis - è una fede che va predicata, proposta e testimoniata e non imposta. E se Pascal ha ragione, la presunzione di sapere, di conoscere, al di fuori della Rivelazione, che cosa sia il vero Bene, non è forse per un cristiano una presunzione anticristiana, in quanto il messaggio di Cristo conterebbe meno della nostra ragione? Pascal è un «fideista» perché «disprezza» la ragione o piuttosto perché è un «iper-razionalista»?

La politica del terrore: l’islam fa guerra ai libri di Matteo Sacchi

L’islam ama definirsi la religione del Libro. La religione della parola scritta e certificata. Molto meno amate le immagini, anzi spesso vietate. Il raccontare è sacro, il dipingere o il suonare è spesso considerato blasfemo. Un punto di partenza tutt’altro che libertario ma che dovrebbe garantire il ruolo della letteratura, lo status degli scrittori. Dice infatti il Corano riferendosi a chi ha accesso alla conoscenza: «È per il calamo ciò che scrivono».
E per qualche secolo è stato davvero così. Almeno a giudicare dal fatto che nel X secolo il poeta Al-mutanabbi poteva permettersi versi che suonano più o meno così: «Sono forse roccia? Perché non mi smuove questo vino,/ e nemmeno questi canti?/ Se desidero del limpido vino rubro lo trovo./ Ma l’amata è perduta». Se scrivesse ora gli stessi versi, a più di mille anni di distanza, rischierebbe di avere bruttissimi guai. Per rendersene conto basta sfogliare il saggio appena pubblicato dall’islamista Valentina Colombo: Vietato in nome di Allah. Libri e intellettuali messi al bando nel mondo islamico (Lindau, pagg. 176, euro 17). Sotto l’ombra della mezzaluna gli ultimi trent’anni sono stati un vero incubo per gli intellettuali. Un incubo di cui l’Occidente riesce a rendersi conto solo quando una fatwa colpisce lo scrittore di grido con passaporto britannico, vedasi Salman Rushdie, o quando a morire sotto i colpi di pugnale degli estremisti è Theo van Gogh.
Eppure quella in atto nei Paesi islamici è una vera e propria politica del terrore. A volte a praticarla sono i governi a colpi di processi farsa, di galera e di censure. Altre ci pensano gli estremisti sgozzando gli «apostati» come agnelli. Una mattanza così diffusa e reiterata che è persino difficile fare un censimento dei perseguitati. I nomi che vedete nel grafico di questa pagina, infatti, sono solo alcuni degli esempi più clamorosi del progressivo incupirsi del controllo culturale. Se nel 1955 perché la traduzione in arabo della Divina Commedia venisse pubblicata in Egitto venne chiesto all’editore di omettere i versi dell’Inferno relativi a Maometto (ovviamente senza nemmeno mettere una nota per il lettore), venticinque anni più tardi era diventato un problema anche solo discutere di linguistica.
Nel 1980 uscì sul mercato L’introduzione alla storia della lingua araba di Louis Awadh. L’autore aveva fatto alcune innocue notazioni filologiche in cui rilevava che alcune parole del testo coranico erano legate alla lingua dell’antico Egitto. Abbastanza perché l’università islamica Al-Azhar intervenisse con tutto il peso della sua autorità per richiedere la messa al bando del volume. Il motivo? L’autore avrebbe oltraggiato la sacralità della lingua araba in quanto lingua di Dio. E se la fonetica diventa irreligiosa, figuratevi cosa può capitare a chi osa qualcosa di più. Soprattutto contando che l’Egitto è un Paese, teoricamente, vicino all’Occidente.
Ecco spiegato come è stato possibile che Mahmud Muhammad Taha, benché ottantaduenne, sia finito impiccato a Khartoum per il suo saggio Il secondo messaggio nell’Islam (correva l’anno 1985). Chiunque provi a mettere in discussione la teocrazia islamica, in Paesi in cui la pressione delle ambasciate occidentali è nulla, rischia subito grosso. E non è detto che per forza si debba ricorrere al boia: se non c’è la possibilità di una condanna a morte ufficiale possono sempre capitare sgradevoli «incidenti». Lo scrittore iraniano Ali Dashti è morto in carcere non si sa esattamente come. In gattabuia era entrato negando i miracoli di Maometto. Del resto doveva aspettarselo: nel 1980, una volta instaurata la teocrazia, Khomeini aveva organizzato il gigantesco rogo di 80mila libri. 
E se i nomi degli scrittori citati sin qui vi dicono poco o nulla non stupitevi. I sostenitori dell’islam più ortodosso sanno che è strategico far loro attorno terra bruciata. A casa propria ma possibilmente anche all’estero. Tanto più che non tutti sono degli eroi votati al martirio. A volte per far paura basta meno. Quando non si arriva al dramma ci si imbatte infatti nel grottesco, in episodi surreali. Il teologo egiziano Abu Zayd, fervente musulmano ma favorevole a una certa forma di modernismo, è stato condannato per apostasia. Da allora è stato considerato dai tribunali egiziani come «giuridicamente» morto e quindi è stato chiesto anche l’annullamento d’ufficio del suo matrimonio. Ora vive in Olanda dove insegna a Leida. La vicenda potrebbe scatenare amara ilarità: il fatto che anche adesso gli convenga chiudersi bene la porta alle spalle la sera molto meno. E se lui se ne è andato, a finire nel mirino dei tribunali - in Egitto la sharia è «la fonte principale della legislazione» - sono molti degli intellettuali rimasti: nel 2008 è toccato alla regista Ines al-Dighdi, al poeta Hilmi Salim, al pensatore liberale Sayyid al-Quinmi...
Tutte persone la cui ultima speranza, quando i costi legali o il rischio che qualcuno passi alle vie di fatto diventa troppo alto, resta sempre e solo la fuga o la minaccia pubblica della fuga. Classico l’esempio di quanto ha fatto Ahmad al-Baghdadi, docente di scienze politiche in Kuwait (altro Paese che all’Occidente deve più di qualcosa). È stato condannato a un anno di galera nel 2005 per aver detto che a scuola è meglio se i bambini passano più tempo a studiare musica che a studiare il Corano. Chiedendo asilo politico ha richiamato l’attenzione della comunità internazionale. Ma più il tempo passa e meno l’Occidente è un rifugio. La presenza islamica sempre più alta porta con sé minacce potenziali, e non solo potenziali, per molti di questi «cervelli» costretti alla fuga. La somala Ayaan Hirsi Ali che collaborò con Theo van Gogh e che ha vissuto a lungo sotto scorta si è spostata negli Stati Uniti per sentirsi veramente libera e sicura. In Europa doveva vivere blindata. Nel suo ultimo libro appena tradotto in italiano, Nomade (Rizzoli), ha spiegato come in Europa un certo clima di violenza sia ormai per tutti, ma soprattutto per lei e per le donne in generale, alla «porta accanto».
L’intellighenzia e i media del Vecchio Continente, sempre pronti a gridare alla censura se qualcuno critica (non vieta) l’esposizione di un crocefisso dipinto con lo sperma, a questi allarmi sono però stranamente sordi. Deve scapparci il morto.

Le Crociate,una vergogna?

Le Crociate,una vergogna?

martedì 25 maggio 2010

Malaysian op-ed warns "blasphemy" may lead to "apostasy" -- but what does apostasy lead to?

Malaysian op-ed warns "blasphemy" may lead to "apostasy" -- but what does apostasy lead to?
 
In Islamic law, apostasy leads to death -- something this writer conveniently leaves out. But that fact is crucial in understanding the often violent hostility sparked by perceived to insults to Islam, and the threats frequently faced by Muslim skeptics and would-be reformers even on the most minor of levels.
"Blasphemy can lead to apostasy," by Dr. Wan Azhar Wan Ahmed for The Star, May 25:
Though Islamic tradition offers no exact equivalent for the term blasphemy, Muslims without proper knowledge who criticise the religion may fall into infidelity or apostasy.
Blasphemy, derived from the Greek term meaning "speaking evil", is contemptuous or irreverent words or speech about God or things regarded as sacred.
Its synonyms, among others, are abuse, desecration, execration, profanation, repudiation, derogation, denunciation, heresy, insult, impiety, sacrilege, scurrility and reviling.
"To blaspheme" is to speak about the Divine or those sacred things impiously, disrespectfully.
In Islam, words that pierce the Almighty God with insults (sabb), insinuate the Prophet Muhammad, or mock any part of the Revelation constitutes religious crimes.
Though Islamic tradition offers no exact equivalent, these situations are analogous or comparable to blasphemy. The Quranic term that comes fairly close to blasphemy is "words of infidelity" (kalimat al-kufr).
Theologically speaking, blasphemy may overlap with or lead to infidelity, i.e. deliberate rejection of God and Revelation.
To a lesser degree, but equally destructive, expressing religious opinions at variance with the standard established Islamic worldview or creed could easily be looked upon as blasphemous.
And this blasphemy may also be defined as any verbal expression that possibly gives grounds for apostasy (riddah). [...]
From the inception of Islam, the religion has been confronted with a lot of opposition. The Prophet Muhammad himself encountered vehement rejection from the Arab people and leaders of Mecca. They disputed, abused, rejected and ridiculed many Quranic teachings brought by him. They not only mocked his claim as the prophet of God but also accused him of many derogatory names and professions.
To make a long story short, people died.
Based on the Noble Quran and Sunnah, the nature and conditions for blasphemy have been elaborated upon by scholars. They describe it as the expression of denigration, contempt or scorn for God, the Prophets, the Quran, the angels, or the traditional religious sciences based on Revelation.
The list goes to those remarks that offend the qualified and true religious scholars. Insults to the authoritative religious scholarship is tantamount to rejection of religious knowledge itself. It implies that the Revelation is untruthful, implicating the Prophet and ultimately Almighty God.
The aforementioned antagonism has been taking place in Islamic history since the time of the Prophet. It is still happening today and will continue to the future.
What is more unfortunate, is that it is done by Muslims themselves, the confused ones. They question the rationale and even validity of certain religious pronouncements, claiming injustices and discrimination, for example, against gender, as well as violation of human rights on the part of Islam. [...]
Blasphemous Muslims must be aware that they may fall into infidelity or apostasy if they choose to remain obstinate after being told the truth.

domenica 23 maggio 2010

Israele minaccia il Libano, le donne in Iran stanno benissimo e Guantanamo è peggio dei gulag arabi La verità raccontata al contrario dai due giornali cugini

Sul MANIFESTO di oggi, 23/05/2010, ci sono due articoli dei quali citiano solo i titoli, con un nostro breve commento. E' domenica e non vogliamo rubare troppo tempo ai nostri lettori.
Il primo titolo è "Nel paese dei Cedri si teme una nuova offensiva israeliana", che riflette l'articolo di Michele Giorgio, ovviamente va letto al contrario, se fosse scritto su di un giornale che informa. Infatti è Israele che teme un attacco da parte di Hezbollah.
Saluta nazista degli Hezbollah

Il secondo titolo è "L'Iran minimalista di Fariba Vafi", nel quale Marina Forti espone tutto lo humour macabro di cui è capace. Secondo lei, intervistando una scrittrice iraniana, le donne di quello sfortunato Paese stanno benissimo, sono libere e hanno un grande successo. Anche qui la verità è il contrario.


L'uccisione di Neda nelle strade di Teheran. Dov'era Fariba Vafi ?

Peccato non ci sia "l'Oscar della menzogna": il quotidiano comunista non se lo lascerebbe certo sfuggire.

Sull'UNITA' invece Robert Fisk scopre l'orrore dei gulag arabi e li descrive in un articolo nel quale giustifica la straordinaria scoperta premettendo una breve descrizione degli errori di Guantanamo. Che l'UNITA' riprende nel titolo che così attenua i contenuti del pezzo: "Guantanamo e le altre. Due storie dai gulag arabi". Infatti Fisk attacca il suo pezzo con una critica a tutte il sistema giudiziario occidentale, quasi a voler in parte giustificare ciò che avviene nel mondo arabo.

Vola Vola - Inno dell'Abruzzo

http://www.youtube.com/watch?v=Z-zH3KJQsHg

sabato 22 maggio 2010

Romanian anti-communist resistance movement

Romanian anti-communist resistance movement

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Map of Romania with main armed resistance areas marked in red
The armed resistance against the communist regime in Romania lasted between 1948 and the early 1960s. Armed resistance was the first and most structured form of resistance against the communist regime. It wasn’t until the overthrow of Nicolae Ceauşescu in late 1989 that details about what was called “anti-communist armed resistance” were made public. It was only then that the public learnt about the several small armed groups, which sometimes termed themselves "haiducs", that had taken refuge in the Carpathian Mountains, where some resisted for ten years against the troops of the Securitate. The last isolated remnants were eliminated in the mountains of Banat in 1962. The Romanian resistance was one of the longest lasting armed movement in the former Soviet bloc. [1]

Contents

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[edit] Preliminaries

In March 1944, the Red Army set foot in Bukovina advancing into Romanian territory. Hundreds of people went into the forests forming anti-Soviet guerrilla groups of 15-20 people[2].
After the Soviet-Romanian Armistice (11-12 September 1944), the Red Army had free run in Romania and the Romanian government did not have authority over Northern Bukovina. In late 1944 and early 1945, some small armed groups were formed in Romania, with a mission of harassing the Red Army in a future Soviet-Western War[2]. After the war, most of these groups dissolved while some others stayed in the mountains until 1948, when they became active. In May 1946, General Aurel Aldea, the former Minister of the Interior of the Sănătescu government, was arrested and charged with "bringing together various subversive organisations under his command". It appears, however, that the "National Resistance Movement", which he coordinated, posed little threat, if any, to the establishment of the communist regime.
After the elections of 1946, a coalescence of anti-communist forces led to a structure reuniting generals, senior officers and politicians preparing and coordinating armed groups under a single command [3]. The central coordinating structure inside Romania reported on this initiative to the Romanian National Council residing in Paris, which in turn informed the Western governments. The project was eventually intercepted by the Romanian authorities, which subsequently carried out massive arrests in spring 1948, comprising up to 80% of those who were implicated in the movement. Thus, the coordinated national resistance was decapitated.

[edit] Onset of the armed resistance movement

However, starting with the summer of 1948, individuals or small groups went underground into the Carpathians, forming various groups of armed resistance in what was a relatively large movement, gathering several thousand people. The rebels came from all social strata and all areas of the country, spreading everywhere the terrain could shield them. The movement was related to the spate of mass arrests hitting the country after the communist power seizure on the eve of 1948, as well as to the political and economical measures which ruined a sizeable part of the peasantry and the middle class[citation needed].
There were several reasons for people seeking shelter in the mountains. While some went underground to escape imminent arrest, more generally people fled as they abandoned hope for surviving after being economically ruined and risking detention or worse. Significantly, entire families took flight in late 1948 and early 1949. Thus, the British consular official in Cluj, reporting on May 1st, 1949 on the situation of partisans under the leadership of General Dragalina noted that:
“clothing and medicine are short and this is probably true as their numbers have been increased by a considerable proportion of women and children since the March 1st land expropriation. I have been given a figure as high as 20,000 as the number who has joined since the expropriation (…) The increase in the number of women and children will create problems of survival next winter (…) I am told now and again of lorries of army supplies going over to the partisans, sometimes by capture and sometimes by desertion, but I cannot say to what extent…"[3]
Actually, retreating in the mountains from internal of external oppressors was a spontaneous and ancestral strategy of the Romanian peasantry. Significantly, the members of the armed resistance were not called "partisans" by the population, but haiduci[4], the word for the generous bandits that had fought the Austrian occupiers and were considered folk heroes.
A further major component of the armed resistance consisted of individuals and groups motivated by anti-communist convictions and persuaded that only an armed engagement could contain increasing terror and prevent an irrevocable communist takeover. Some of the resistance groups were led by ex-army officers and acted in a more coordinated and planned way. It appears that they put their hope in stirring up a more general armed insurrection, which never came to life. A smaller category of insurgents were Romanian refugees recruited in Europe by the Office of Policy Coordination, trained in France, Italy and Greece and then dropped in the Carpathians. It seems, however, that most of them, not being able to create local contacts imperative for survival, were soon captured.[3]

[edit] Resistance groups

Ion Gavrilă-Ogoranu, a member of the fascist and anti-Semitic Iron Guard[5] who led a resistance group in the Făgăraş Mountains from 1948 to 1956, and remained undetected until 1976, worked out a set of defining traits of the typical Romanian resistance group.[6] According to this author, such a group was rather small, but could number up to 200 men. A resistance group was located in a mountainous/forested area which comprised some communities. It was supported by a significant number of inhabitants (up to several thousands), who provided shelter, food and information.
Resistance groups were the target of systematic and enduring military actions from fully armed regular troops of the Securitate. The strength of the Securitate troops could vary from platoon to battalion up to regiment, including armoured vehicles, artillery and occasionally even aviation. The insurgent groups sustained losses consisting of dead and wounded captured by the Securitate. They also fell victim to treason from supporters or infiltrated persons, which led to losses and captures. Gavrilă-Ogoranu claims that some of the arrested rebels and their supporters were killed during interrogation, while other members of resistance groups were indicted in public or secret trials, and sentenced to death or prison. He estimates that several thousands of convictions were imposed. Death penalties were carried out either secretly, with bodies thrown into unknown common graves, or publicly in order to intimidate the local population. A significant number of detained rebels, who had not been sentenced to death, were killed outside prisons, under unexplained circumstances. In areas where the rebels were active, the population underwent systematic intimidation and terror from the authorities.

[edit] Structure and function

Dispersal, extent and duration of the resistance rendered research after 1990 more difficult in ascertaining structural information on the movement. Evaluating the archives of the Securitate the CNSAS (National Council for the Study of the Securitate Archives) has assessed a provisional figure of 1196 resistance groups acting between 1948 and 1960.[7] The size of the groups varied from small groupings of less than 10 members to intermediate sized groups counting around 40 fighters up to larger detachments of more than 100 men, with the highest distribution density placed around a strength of 15–20 men.[3][6] According to these assumptions, the total number of active resistance fighters may not fall below 10,000 persons, with an estimated figure of at least 40–50,000 supporting persons.[7] The number of killed victims on the insurgents’ side could be established according to both archive data and various memoirs published after 1990. The archives revealed several hundreds of death penalties, yet a much larger number of resisters have been killed either in battle or during different phases of detention.[8] An estimated figure could amount 2,000 lost lives.
The social structure of the insurgent groups was heterogeneous, comprising a considerable part of peasants, many students and intellectuals as well as several army officers [3]. The same heterogeneity characterised the political structure of the resistance. A report of the Securitate from 1951 containing information on 804 arrested resistance members ranking among 17 “mountain bands” reveals following political affiliation: 11% National Peasant Party, 10% Ploughmen's Front, 9% Iron Guard, 5% Communist Party, 2% National Liberal Party. [3]

[edit] List of major resistance groups

The territorial structure of the resistance covered the largest part of the country. A list of some of the most important resistance groups and their location: [9][10]
Area Name of the group/group leader (mostly in order Surname - First name)
Maramureş [11] Mihali-Ştrifundă Gavrilă; Popşa Vasile; Zubaşcu Ilie; Ilban Ion; Pop Nicolae; Vasile Dunca; group of Uniate priests
Rodna Mountains Cross and Sword Organization” (Bodiu Leonida)
Bucovina [12][13][14] Constantin Cenuşă, Constantin Cenuţă[2], Vasile Motrescu; Col. Cârlan Vasile; Grigore Sandu; Cămăruţă Vasile; Harsmei Silvestru; Vatamaniuc Gavril; Ion Vatamaniuc[2], Vladimir Macoveiciuc[2], Petru Maruseac[2], Sumanele Negre[2], Tinerii Partizani ai României[2].
Suceava Hazmei Silvestru; “Decebal’s Guards” (Gǎrzile lui Decebal)[15] , Ion and Gheorghe Chiraş[2].
Crişul Alb River and Arad Şirianu Valer; „National Liberation Movement”; Mihuţiu Adrian; Cantemir Gligor;[16] Luluşa Ion;
Bistriţa-Năsăud Haiducii lui Avram Iancu [17][18]
Apuseni Mountains White Army” (Capt. Suciu Alexandru); “National Defence Front – Hajduk Corps” (Maj. Dabija Nicolae – brothers Macavei); [19][20] Dr. Capotă Iosif -Dr. Dejeu Alexandru; Şuşman Teodor;[21] Robu Ioan; Popa Ştefan; Crişan IoanAbăcioaiei Leon; Sandu Maxim; brothers Spaniol; ”Cross and Sword Organization”; Acft. Capt. Ionescu Diamandi
Cluj [22] Paşca Gheorghe; Podea Alexandru; Pop; Maj. Oniga Emil; Deac Cornel
Bacău Corduneanu Vasile; Uturea group (Unguraşu Gheorghe, Baciu Petre)
Banat [23][24][25][26] Col. Uţă Ion; [27] Blănaru Spiru; Vernichescu Aurel; Acft. Cdr. Domăşneanu Petru; Popovici Nicolae; Ionescu Gheorghe; Ambruş Petru; “Great Romania Partisans”; brothers Blaj; Tănase Ion; Isfănuţ Dumitru (Sfârlogea); Doran Nicolae; Vuc Liviu
Hunedoara Caragea Lazăr; Vitan Petru
Sibiu resistance point Fetea
Covasna Vlad Ţepeş Organisation” (Lupşa Victor, Corneliu Gheorghe-Szavras)
Braşov [28] ”Vlad Ţepeş Organisation” [29]
Vrancea [30] Vrancea group (brothers Paragina); Militaru Gheorghe; “Vlad Ţepeş Organisation”; (Lupşa Victor); Acft. Capt. Mândrişteanu
Bârlad Constantin Dan
Northern Făgăraş Mountains [31] Dumitru (Ionele Ion); Făină; Cândea Ion; Carpatin Făgărăşan Group(Gavrilă-Ogoranu Ion)
Southern Făgăraş Mountains [31] Col. Arsenescu Gheorghe; Haiduks of Muscel (brothers Petru and Toma Arnăuţoiu);[32] Apostol
Gorj Capt. Brâncuşi Mihai
Vâlcea Pele Gheorghe; Secu Şerban; Jijie Ion
Craiova Gen. Carlaonţ Ion; Dumitraşcu Marin
Dobrogea [33] [34] Fudulea Gheorghe; brothers Croitoru; Gogu Puiu; Ciolacu Nicolae; Trocan Niculae; Dobroges’s Haiducs
Rather than a planned action, the resistance movement was a spontaneous reaction in response to the wave of terror initiated by the authorities after the seizure of power in early 1948[35]. The spontaneous nature of the movement explains its marked fragmentation and the lack of coordination between the resistance groups. However, acting isolated and on a local basis conferred the groups a multiformity and flexibility which rendered the annihilation of the entire movement more difficult, and ensured a remarkable staying power for some groups. Furthermore, in some areas a notable reproducibility occurred, exterminated groups being replaced by new cores of resistance.
A characteristic trait of the movement was its defensive nature. Indeed, few offensive actions such as sabotages or occupation of localities have been recorded.[35] While the groups did not pose a major material threat to the authorities, their dangerousness for the regime resided in the symbol they represented: as long as the resisters remained free, they created a tangible challenge to the regime’s claim of exercising total control over the country.[36]

[edit] Repression

Braşov monument toanti-communist fighters, 1944–1989
Adriana Georgescu Cosmovici was one of the first people to be arrested for belonging to the resistance movement. In July 1945, the 28-year old woman was arrested in Bucharest, and severely beaten by the secret police investigators.[37] In a statement made in Paris in 1949, she named three investigators as having threatened her with guns, one of them being Alexandru Nicolschi.[37] According to a 1992 article from Cuvântul, Nicolschi ordered the murder of seven prisoners (allegedly the leaders of an anti-communist resistance movement) in transit from Gherlaprison in July 1949.[37]
Elisabeta Rizea and her husband, two peasants opposed to the government's policy of forced collectivization, joined the guerrilla group "Haiducii Muscelului" led by Colonel Gheorghe Arsenescu, providing food and supplies. Caught in 1952, she served 12 years in prison, during which time she was subjected to torture.
On 18 July 1958, Vasile Motrescu was executed. In 1959, 80 people led by Vasile Blǎnaru were judged for "armed insurrection" in the area of Câmpulung Muscel[2].
The implacable chase of the authorities on the resisters as well as the gag order on the existence of the resistance show how concerned the regime was, that the symbol of political insubordination might become contagious.[3] Iron Guard sympathizer Gavrilă-Ogoranu reports the words allegedly addressed to mountain wanderers by a resister in the 1950s: “Tell everyone that there is still a place in the Kingdom of Romania which has not bowed to Communism. As long as our heads are on our shoulders, this corner of the country will be free. Tell the people not to lose faith, for the day will come when the whole of Romania will be free. Pray God for it, so help us God.” [38]

[edit] See also

[edit] Anti-totalitarian resistances in other countries

[edit] References

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  2. ^ a b c d e f g h i j Din istoria rezistenţei anticomuniste in România, Adrian Stǎnescu, Curierul Românesc, Year XVI, number 5 (208), May 2004, pages 8-9.
  3. ^ a b c d e f g Deletant, Dennis, "Communist Terror in Romania", Chapt. 10, Armed Resistance, pp. 225–234, St. Martin's Press, New York, 1999
  4. ^ Claudia Dobre, Rezistenţa aticomunistă în România: memorie şi istorie in Memoria, Revista gândirii arestate, Nr. 55
  5. ^ Der Spiegel, Protests from Holocaust Institute:Berlinale Resists Call to Pull Romanian Film, February 17, 2010.
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  7. ^ a b Consiliul Naţional pentru Studierea Arhivelor Securităţii, Mişcarea armată de rezistenţă anticomunistă din Romania. 1944-1962, Editura Kullusys, Bucureşti, 2003
  8. ^ Dobre Florica (Edt.), Bande, bandiţi şi eroi. Grupurile de rezistenţă şi Securitatea (1948-1968), Ed. Enciclopedică, Bucureşti, 2003
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  12. ^ Brişcă Adrian, Rezistenţa armată din Bucovina, vol. al II-lea: 1950-1952, Institutul National pentru Studiul Totalitarismului, Bucuresti, 2000
  13. ^ Brişcă Adrian, Jurnalul unui partizan:Vasile Motrescu şi rezistenţa armată din Bucovina, 2005
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  18. ^ Cristian Troncotă, "Procesul mişcării naţionale de rezistenţă"), 1946, in Arhivele Totalitarismului, nr. 19-20, 2-3/1998, pp. 102-120
  19. ^ Cristian Troncotă, Procesul mişcării naţionale de rezistenţă, p. 225
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[edit] External links

Genèses - Sciences sociales et histoireno, no. 43, 2001/2
  • (English) Toma Arnautoiu - The anti-communist partisans of Nucsoara - Biography, photos, documents about Toma Arnautoiu.