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lunedì 31 maggio 2010

La «dea Ragione» s’illude di poter stabilire dove stanno Bene e Male

Il pluralismo implica scelta; la scelta, a sua volta, implica libertà; e la libertà esige responsabilità. «Non penso, ha scritto Karl Popper, che la tesi del dualismo tra fatti e decisioni sia in alcun modo contraria a una religione fondata sull’idea di responsabilità personale e della libertà di coscienza». Chiedo - e lo chiedo soprattutto agli amici cattolici - è nel torto Popper? È stato Hans Kelsen a scrivere che «la causa della democrazia risulta disperata se si parte dall’idea che sia possibile la conoscenza della verità assoluta, la comprensione di valori assoluti», e che, invece, colui il quale «ritiene inaccessibili alla conoscenza umana la verità assoluta e i valori assoluti, non deve considerare come possibile soltanto la propria opinione, ma anche l’opinione altrui. Perciò il relativismo è quella concezione del mondo che l’idea democratica suppone». Chiedo se Kelsen sia nel torto. E chiedo se sia possibile accettare il pluralismo senza accettare quella forma di relativismo intesa quale non fondabilità razionale dei diversi sistemi etici.
Per un cristiano ciò che è Bene e ciò che è Male lo stabilisce il Vangelo o la ragione umana? Così, per esempio, l’idea di persona sacra e inviolabile sin dal concepimento è un messaggio religioso o un esito di qualche elucubrazione filosofica? E se ciò che è Bene e ciò che è Male lo stabilisse l’umana ragione, non dovremmo allora dare ragione ai sostenitori della «dea Ragione»? Se è la ragione umana a stabilire la natura del bene e del male, il messaggio evangelico non si riduce a essere lo strofinaccio dell'argenteria di Aristotele o di Grozio o magari ancora di Rothbard, il quale ha legittimato l’aborto con argomenti tratti dalla più elevata tradizione giusnaturalistica? Certo, emotivamente, ci sentiamo dalla parte di Antigone, ma che cosa hanno messo gli dei nel cuore degli uomini?
Scrive Blaise Pascal nei suoi Pensieri: «Ho trascorso molto tempo della mia vita credendo che ci fosse una giustizia: e non mi ingannavo dacché ce n’è una sola, secondo Dio piacque di rivelarcela. Ma non la intendevo così, e in ciò sbagliavo: perché credevo che la nostra giustizia fosse per essenza giusta e mi stimavo capace di conoscerla e giudicarne. Sennonché mi sono trovato tante volte senza un retto criterio di giudizio che, alla fine, ho preso a diffidare di me e poi degli altri. Ho veduto tutti i Paesi e gli uomini cambiare; e così, dopo molti cambiamenti di giudizio nei confronti della vera giustizia, mi sono convinto che la nostra natura non è se non continuo mutamento, e da allora non ho più mutato (giudizio). E, se mutassi ancora, confermerei con ciò la mia opinione». Che cos’è, dunque, la giustizia? Pascal muove dalla presunzione che sia possibile venire a capo di questo problema, parte cioè dall’idea che sia possibile sapere in che cosa consista la giustizia e di darne ragioni valide erga omnes. Ben presto, però, dovrà arrendersi: il problema non è razionalmente risolvibile.
La ricerca di un fondamento razionale unico e incontrovertibile è destinata, secondo Pascal, a naufragare. In fondo, tutti i nostri «lumi» potranno solo farci conoscere che noi non troveremo «né la verità né il bene». In breve: «Senza la fede l’uomo non può conoscere né il vero bene né la giustizia». E la fede cristiana - dono
a parte Dei e scelta a parte hominis - è una fede che va predicata, proposta e testimoniata e non imposta. E se Pascal ha ragione, la presunzione di sapere, di conoscere, al di fuori della Rivelazione, che cosa sia il vero Bene, non è forse per un cristiano una presunzione anticristiana, in quanto il messaggio di Cristo conterebbe meno della nostra ragione? Pascal è un «fideista» perché «disprezza» la ragione o piuttosto perché è un «iper-razionalista»?

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