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lunedì 31 maggio 2010

Intervista a Mirella Serri, autrice di «I profeti disarmati» di Cristiano Bosco

irella Serri è giornalista, saggista e docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all'Università «La Sapienza» di Roma. Co-autrice del libro Amorosi Assassini, dedicato al fenomeno della violenza sulle donne, è autrice dei saggi Il breve viaggio. Giaime Pintor nella Weimar Nazista (Marsilio, 2002) e I Redenti. Gli Intellettuali che vissero due volte (Corbaccio, 2005), quest'ultimo sul tema dell'antifascismo posticcio e dell'ultima ora di numerosi intellettuali italiani. Con la sua più recente opera, I Profeti Disarmati (Corbaccio, 2008), ha voluto analizzare e documentare la violenza della lotta politica in Italia nel dopoguerra, mettendo in evidenza il tentativo, da parte del Partito Comunista, di conquistare il monopolio dell'antifascismo ai danni delle altre forze - liberali, laici, monarchici, repubblicani, ecc. - che lottarono per contrastare il regime. Pagine di storia - come nel caso dei recenti lavori del giornalista Giampaolo Pansa - spesso trascurate, spesso volutamente per desiderio di alcuni, che meriterebbero maggiore attenzione. Per il suo I Profeti Disarmati, Mirella Serri ha vinto il «Premio Pannunzio Alassio 2009», riconoscimento che viene conferito dal Centro Pannunzio a personalità italiane della cultura, del giornalismo e dell'arte che si siano distinte per il loro spirito libero.
Chi sono i «profeti disarmati» di cui parla il suo libro?
I «profeti disarmati» sono i nostri politici, intellettuali e scrittori che «vestivano all'inglese», ovviamente in senso figurato, cioè che tentavano un laburismo all'italiana. Personalità quali Mario Pannunzio, Luigi Einaudi, Ernesto Rossi, Mario Ferrara, Gaetano Salvemini, i quali tentarono questo esperimento nel nostro Paese, una «terza forza» che non fosse né la Democrazia Cristiana né il Partito Comunista. Un esperimento fallito, culminato con una sconfitta. Tuttavia, spesso anche le sconfitte portano con sè dei risultati. Dall'esperienza di Risorgimento Liberale, che veniva pubblicato clandestinamente, alla loro uscita dal Pli nel 1947, quindi con la nascita de Il Mondo nel 1949, iniziarono a diffondersi i germi di una via italiana al laburismo, i cui risultati sono presenti ancora oggi.
In cosa consisteva la cosiddetta «tecnica della mangusta»?
La «tecnica della mangusta» - denunciata da Mario Pannunzio fin dal 1944-45 - riguardava l'operato e l'atteggiamento del Pci all'interno delle forze componenti l'antifascismo. Desiderio dei comunisti era di divorare l'avversario, inglobarlo, in modo da avere l'egemonia delle forze che componevano l'antifascismo. Ciò ovviamente causò una rottura. Inizialmente Pannunzio tese la mano ai comunisti, nel nome della battaglia comune contro il regime. Ed egli tentò anche una alleanza con il Psi, ma il patto tra quest'ultimo e il Pci, di fatto, la impedì.
Qual è l'intento del Suo libro?
Raccontare una parte di storia dimenticata. Nei libri di storia si parla de Il Mondo, e meno di Risorgimento Liberale. Si tratta anche di una riscoperta di tale giornale. Io stessa l'ho scoperto per puro caso, documentandomi sugli scontri politici del dopoguerra. Quella testata, già all'epoca, ospitava temi di grandissima attualità: il dibattito sulle foibe, il «triangolo rosso», i prigionieri di guerra dell'Urss, le questioni di Istria, Gorizia e Dalmazia. Temi trattati da Risorgimento Liberale nonostante numerosi ostacoli e varie barriere. Lo stesso vale per Il Mondo, unico a ricordare lo tsunami di violenze ed eccidi che colpì l'Italia da Nord a Sud dal 1946 alla fine del '47. Un giornalismo di inchiesta, un atteggiamento vivace volto a combattere gli «illegalismi» dei comunisti e i cosiddetti «gargarismi» togliattiani, che incontrò un netto contrasto, non solo a parole, ma con i fatti.
In un editoriale intitolato «Perché non possiamo non dirci anticomunisti» don Gianni Baget Bozzo scrisse che «il Pci è riuscito a creare un linguaggio politico che è diventato lentamente maggioritario nella cultura italiana». È d'accordo?
É verissimo. Nella cultura italiana il linguaggio politico è rimasto quello utilizzato dal Partito Comunista. Basti pensare a come venivano coniati gli slogan antifascisti da parte di Carlo Muscetta e Concetto Marchesi, la contrapposizione tra «uomini di qualità» e «uomini qualunque» effettuata dal primo e il teorema dei «fascisti mascherati» del secondo, che permetteva di accusare di «fascismo» tutti coloro che non si schieravano con i comunisti, dai socialisti poco accomodanti con il Pci ai democristiani, passando per i repubblicani e i liberali di sinistra. Un lessico che continua ad essere utilizzato attualmente.

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