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sabato 15 maggio 2010

Stefano Magni: Dal Pakistan a Times Square: la Jihad che non vogliamo vedere

Dal Pakistan a Times Square: la Jihad che non vogliamo vedere
Il caso del fallito attentato a New York si è risolto felicemente, con l’arresto dei cospiratori e nessuna vittima. La brutta notizia è che si tratta di terrorismo internazionale, non “casalingo”: Faisal Shahzad ha confessato ieri di essere stato addestrato nel Waziristan, roccaforte di Al Qaeda al confine fra Pakistan e Afghanistan. Il successo dell’antiterrorismo è dovuto, prima di tutto, alla reazione rapida di un’opinione pubblica molto attenta: nel caso del fallito attentato di Natale, sul volo di Detroit, sono stati passeggeri comuni a scoprire l’attentatore e a fermarlo in tempo, a Times Square il merito va dato a quel venditore di strada che ha subito notato qualcosa di strano in un Suv verde parcheggiato (emetteva fumo) e ha permesso di disinnescare l’esplosivo prima che potesse provocare una strage. Si può dunque parlare di una buona “educazione” al terrorismo. Nonostante l’11 settembre e i più di venti tentativi falliti di colpire l’America nei nove anni successivi, negli Stati Uniti non si è diffusa una cultura di razzismo o intolleranza: non sono state emesse leggi che discriminano le minoranze e nessun musulmano è stato ucciso, aggredito o ferito per motivi legati alla guerra al terrorismo. Anche questo è un segnale più che positivo di tenuta della società americana. Le critiche piovute sulla Homeland Security (il ministero della Sicurezza Interna americano) riguardano soprattutto le 58 ore impiegate per trovare l’attentatore mancato, il pakistano (e cittadino americano, sposato con un’americana, residente nel Connecticut) Faisal Shahzad. Egli stava “quasi” per partire per Dubai e far perdere le tracce, era già a bordo di un aereo di linea, quando è stato arrestato. Ma in quel “quasi” è racchiuso tutto il successo delle agenzie di sicurezza americane. Senza contare l’immediato arresto, in Pakistan, di altri 4 parenti di Shahzad, sospettati di aver partecipato al complotto e di un altro uomo, che si presume fosse il suo contatto con il movimento talebano. Solo la cooperazione più stretta con il governo Gilani e con il presidente Zardari (dopo le mille ambiguità del precedente presidente/generale Musharraf) ha permesso un tempismo simile. Però un’altra critica, proveniente soprattutto dai commentatori conservatori, coglie nel segno: per l’ennesima volta gli americani non sono riusciti a prevedere e prevenire un complotto della Jihad internazionale e lo hanno fermato solo all’ultimo minuto. Questo avviene perché non si vuole ammettere, né accettare culturalmente, che vi sia una Jihad in corso contro gli Stati Uniti. Come fa notare lo storico Robert Spencer nel suo editoriale pubblicato ieri sul sito FrontPage Magazine, la prima copertura mediatica del fallito attentato escludeva la pista islamica o cercava di minimizzarla.

Persino lo stesso sindaco di New York, Michael Bloomberg, in un’intervista rilasciata alla Cbs pensava a (sperava in?) un “cane sciolto”, probabilmente di destra “una persona mentalmente instabile o la cui agenda politica non gradisce la riforma sanitaria del Presidente Obama”. Solo pochi giornali (come il Telegraph in Gran Bretagna) avevano notato che il Suv era parcheggiato proprio sotto la sede della Viacom, produttrice di South Park, su cui pende una Fatwa di condanna per una rappresentazione di Maometto. E che le modalità del fallito attentato (materiale esplosivo usato, tipo di auto-bomba scelta...) erano analoghe a quelle degli ultimi attentati islamici in Gran Bretagna. Quando si è scoperto che l’attentatore era pakistano, la pista jihadista è stata ancora una volta sottovalutata dai media. Ezra Klein, sul Washington Post, ha preferito dare una spiegazione economica al suo gesto, notando subito che l’attentatore stava subendo uno sfratto: “Uno sfratto genera uno stato d’animo di profonda miseria, ansia e depressione” - scriveva Klein. Contessa Brewer, della Tv Msnbc, quando si è scoperto che l’attentatore era musulmano, ha ammesso candidamente che: “Una parte di me sperava che questo evento non avesse alcun legame con persone provenienti dai Paesi islamici”, perché così si rischia un rigurgito di “vecchio bigottismo” contro le minoranze e gli immigrati. Insomma, gli americani dimostrano ancora una volta di non aver fatto (e di non voler fare) i conti con la realtà della Jihad. “I sintomi jihadisti del maggiore Hassan erano stati ignorati” - commenta lo storico Victor Davis Hanson, riferendosi all’ufficiale medico dell’esercito americano, musulmano convinto, autore del massacro di Fort Hood, lo scorso novembre - “Si è consolidata ormai una sorta di abitudine, sia implicita che esplicita. Stiamo facendo di tutto per negare che islamici radicali stanno cercando di ucciderci. E, secondariamente, non stiamo vedendo una serie di pacifiche ricadute della chiusura di Guantanamo, del processo virtuale a Khalid Sheikh Muhammad (presunta mente dell’11 settembre, ndr), dell’intervista ad Al Arabiya (di Obama, ndr), della retorica del ‘reset’, del discorso al Cairo, del tour di scuse al resto del mondo. Nel 2009 abbiamo subito il maggior numero di tentativi di attentati dal 2001”.

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