“I’ve a dream…” sembra che pensi Gianfranco quando immagina il suo immediato futuro politico. Un sogno un po’ particolare, in verità; un sogno dal vago sapore di scudo crociato dei tempi che furono: una selva intricata di accordi sottobanco, patti con i poteri forti, ammiccamenti con gli ortodossi del manuale Cencelli e dei trasformisti della politica. Il Fini di un tempo, il Fini del MSI di frontiera, del partito della “rogna”, è svanito da un pezzo (ammesso sia mai esistito). Il nuovo (o il vero) Fini ha abbracciato un nuovo (e vecchio) ideale, una nuova (e antica) filosofia: il potere. Dopo averlo assaggiato, grazie a Berlusconi, non vuole più staccarsene. Andreotti – che di manuali Cencelli ne capisce assai – dice sempre che il potere logora chi non ce l’ha. Sicuramente è vero, ma nel caso di Fini, si può altrettanto dire che corrode chi ce l’ha.
Fini dunque ha un sogno. Un governicchio tecnico, di quelli tipicamente italiani, dove ci sono tutti e dove tutto è possibile. Quel tipico governo ideato per cambiare tutto e non cambiare niente. Un governo dell’ammucchiata istituzionale, composto ad hoc per creare nuovi assetti politici e alterare quelli vecchi. In altre parole, un governo per fregare gli elettori, per aggirare la democrazia del voto e annullarla dietro il paravento di una crisi delle istituzioni dove lui agisce come salvatore della patria, insieme ai suoi nuovi amici: Casini, Rutelli e Montezemolo.
E’ il classico gioco del pompiere che per lavorare appicca l’incendio. Il PDL è la casa da incendiare, possibilmente con Berlusconi dentro. Così, tolto il dente, tolto il dolore. Dietro il cumulo di macerie, rimarrebbe solo l’eredità, il monopolio del marchio “centrodestra” o “destra”. E Fini ne rivendicherebbe la titolarità. Una destra “moderna”; una destra – come dice Filippo Rossi – non livorosa o litigiosa. Insomma, una destra annacquata, ossequiosa con la sinistra e ansiosa di riceverne dai suoi papaveri, la giusta legittimazione. Perché solo con la legittimazione dei nipotini di Togliatti, il potere potrà essere esercitato senza l’ostacolo dei poteri forti, dei poteri trasversali, delle ombre nascoste nei palazzi della politica che manovrano lontano dalla ribalta della polemica del teatrino politico. Una legittimazione che però ha il suo dannato costo: il rispetto della legge non scritta del gattopardo: cambiare tutto per non cambiare niente.
Ed è proprio questo l’obiettivo dell’asse restauratore: ripristinare i vecchi giochi della politica, fermi ormai da vent’anni. Quei giochi che hanno permesso una gestione del nostro paese allegra e al di là del consenso politico, al di là della rappresentanza democratica, al di là di quello che realmente la gente vuole e vorrebbe dai suoi rappresentanti politici. Ancora una volta – grazie a Fini – si ripresenta il fenomeno che si pensava ci fossimo lasciati alle spalle: i governi tecnici, le grandi ammucchiate, gli inciuci che fino a ieri lui stesso condannava. Altro che tutela della legalità, altro che democrazia del voto, altro che diritto di scelta degli elettori. Il Fini di oggi forse è molto più simile al Fini di ieri, ma non a quello dei comizi, ma a quello criticato dai suoi ex camerati del MSI, oggi colonelli del PDL: un Fini che non tollera il dissenso, un Fini che si riempie la bocca di democrazia, ma che all’interno del suo partito non la concedeva facilmente (se la concedeva).
Nel 1994 Berlusconi dovette abbandonare il governo, perché fu la Lega a tradire la maggioranza. Dopo quel fatto, abbiamo avuto un governicchio tecnico per due anni, guidato da un ex berlusconiano: Lamberto Dini. Uomo che tutti conoscono e che divenne una colonna portante del centrosinistra nel successivo governo Prodi. Fu infatti grazie al buon Dini (benedetto da Scalfaro), che la maggioranza degli italiani che votò Berlusconi dovette sorbirsi un governo apparentemente tecnico, ma sostanzialmente di centrosinistra: il famoso governo del ribaltone; il governo che portò facilmente Prodi a vincere le elezioni nel 1996, poiché la compagine diniana, pur non essendo formalmente di sinistra, piazzò comunque nei suoi due anni di gloria uomini di fede rossa nei vari ruoli di potere, agevolando (e non di poco) la vittoria del professore nelle successive elezioni politiche.
Oggi con Fini il rischio è che si ripeta nuovamente questo deprecabile gioco. Fini rompe il PDL, lo divide, lo smembra. La maggioranza si dissolve e se ne crea una nuova e trasversale, con Casini, Rutelli, e forse il PD. Napolitano non scioglie le Camere ma propone un nuovo incarico. A chi? A Fini? A Casini? A Rutelli? O magari a Draghi o Montezemolo? Non importa. L’importante è mettere fuori gioco il Cavaliere (possibilmente per sempre), e con lui la Lega e il popolo di centrodestra che non tollera governi tecnici, governi dei ribaltoni o pseudo-istituzionali. La nuova "maggioranza" così formata – quella che potrà essere chiamata del ribaltone targato “Fini 2010″ – potrà lavorare come lavorò quella che sostenne il governo Dini per tentare nel 2013 il salto di qualità: la rinascita della Balena Bianca, della palude centrista e la fine del bipolarismo. In tale ipotesi, l’epilogo non potrà che essere addio riforme, addio presidenzialismo, addio Italia…
giovedì 29 aprile 2010
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