tratto da: Vittorio MESSORI, Pensare la storia. Una lettura cattolica dell'avventura umana, Paoline, Milano 1992, p. 208s.
Siamo molto preoccupati della giustizia nel presente, qui e ora. Ma lo siamo assai meno della giustizia per il futuro e per il passato.
Giustizia per il futuro è rispettare i diritti di coloro che verranno dopo di noi, sentendo la responsabilità di consegnare loro un mondo non interamente distrutto e avvelenato, un creato che abbia ancora qualcosa dei suoi doni originari di bellezza e di fecondità.
Ma c'è anche una giustizia per il passato, verso chi ci ha preceduti: ed è una giustizia che neppure i credenti rispettano sempre in pieno.
Ad esempio, nell'anno del bicentenario della Rivoluzione francese, molti cattolici - qualche vescovo non escluso - sono sembrati volersi liberare, con un silenzio imbarazzato, dei tremila preti massacrati, della folla di religiose violentate e spesso torturate sino alla morte, delle decine e decine di migliaia di contadini fatti a pezzi nelle province insorte in nome di una religione cui non volevano rinunciare.
Non ci sono solo gli orrori della Vandea, per il cui sterminio sistematico gli storici parlano di primo genocido della storia moderna e dove i giacobini anticiparono contro quei popolani fermi nella loro fede i tentativi di "soluzione finale" dei nazisti nei riguardi degli ebrei. I massacri e le persecuzioni dei credenti si verificarono ovunque, non solo nell'Ovest: prima in Francia e poi negli altri Paesi, Italia compresa, dove la Rivoluzione giunse. Ma se la Vandea fu indomabile è anche perché era stata il teatro delle predicazioni di uno dei santi più cari a Giovanni Paolo II che, si dice, medita di proclamarlo dottore della Chiesa: Louis-Marie Grignion de Montfort.
Secondo lo schema conformistico, l'Ovest della Francia si sarebbe sollevato contro la Parigi dei giacobini spintovi dagli aristocratici e dal clero che intendevano conservare i loro privilegi. E' una mistificazione che da tempo è stata smascherata ma che è ancora ripetuta nei testi scolastici, contro l'evidenza dei documenti: i quali mostrano senza possibilità di dubbio che la rivolta venne dal basso, dal popolo che, spesso, con la sua iniziativa, travolse le esitazioni del clero e dei nobili (molti di questi ultimi preferirono la via della fuga all'estero piuttosto che l'assumere le loro responsabilità). Insurrezione, dunque, popolare e - pur nelle contraddizioni e negli errori di ogni cosa umana - non "politica" e nemmeno "sociale" ma essenzialmente religiosa, contro la scristianizzazione alla quale, nella capitale, intendeva procedere una minoranza di feroci ideologi.
Delle ideologie moderne, del resto, nessuna ebbe una base davvero popolare: il marxismo non è mai riuscito a raggiungere il potere attraverso libere elezioni e, dov'era al potere, è caduto senza che nessuno muovesse un dito per difenderlo; il 25 luglio del 1943, per porre fine al fascismo, bastarono un annuncio alla radio e un manifesto appeso alle cantonate; con la caduta di Berlino il nazismo si dissolse. Né, d'altro canto (neppur questo va dimenticato, a dispetto delle retoriche), il popolo aveva impugnato le armi in difesa del liberalismo quando Mussolini e Hitler vi avevano posto fine. Per stare alla Rivoluzione francese, il popolo accolse senza batter ciglio l'autoritarismo napoleonico che strangolò gli "immortali principi" dell'89.
L'insorgere delle masse in difesa del cristianesimo nell'Occidente della Francia (e, più tardi, in Italia, nel Tirolo, nella Spagna invasa da Napoleone) è dunque un unicum che sorprende gli storici. In ogni caso, è giustizia non rimuoverlo, come per troppo tempo si è fatto in nome del conformismo di benpensanti che temono di essere "dalla parte sbagliata" della storia. Oltretutto, oggi, anche i laici più onesti sono sempre meno sicuri che "sbagliata" lo fosse davvero.
giovedì 29 aprile 2010
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