Quando, nel 1999, l’allora primo ministro israeliano Ehud Barak propose di dividere Gerusalemme, per tutta risposta ottenne da Yasser Arafat un rifiuto. Quando, poco dopo, l’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton perfezionò la proposta avanzando un piano senza precedenti, di nuovo Arafat disse “no”, nonostante risulti che, prima di entrare alla Casa Bianca, fosse stato avvertito dai rappresentanti del presidente egiziano e del re saudita che rifiutare quell’offerta equivaleva a commettere “un crimine contro la nazione palestinese”. Arafat commise quel crimine.
Negli ultimi tre anni si sono tenuti negoziati su due binari: il primo fra Ehud Olmert e Mahmoud Abbas (Abu Mazen); il secondo, più nel dettaglio, fra Tzipi Livni e Ahmed Qorei (Abu Ala) nel 2007. Abu Mazen ha continuato a rifiutare la generosa offerta fatta da Olmert nel quadro di Annapolis, che prevedeva fra l’altro una divisione di Gerusalemme e un “diritto al ritorno” simbolico: il presidente dell’Autorità Palestinese esigeva un ritorno in massa. Fu per questo, e non perché Olmert stava per porre fine al suo mandato, che Abu Mazen rigettò l’offerta. Lo disse con la sua propria voce, senza bisogno delle interpretazioni di qualche analista. Nel binario parallelo Livni-Abu Ala, vi furono progressi significativi. La parte palestinese capì che non vi sarebbe stato nessun ritiro israeliano dai quartieri di Gerusalemme abitati da ebrei. Vi furono altre discussioni, ma vi furono anche delle intese interinali che non andrebbero affatto dileggiate. Quelle intese, nonostante non siano state fissate, hanno grande valore. In qualunque trattativa futura, i negoziatori sapranno esattamente cosa è avvenuto con i loro predecessori. Questo è precisamente il motivo per cui Europa, palestinesi e governi americani hanno sempre chiesto la cessazione delle costruzioni negli insediamenti, ma non hanno mai sollevato lo stesso tema in riferimento a quartieri di Gerusalemme come Gilo e Ramat Shlomo (abitati da ebrei, benché nella parte di Gerusalemme occupata dalla Giordania nel periodo 1949-67). In effetti, pretendere lo sgombero di questi quartieri non significa affatto perseguire la pace. I super fan del processo di pace capiscono bene che avanzare questa richiesta a Israele sarebbe come pretendere che gli americani sgomberassero Washington a vantaggio – che so – di qualche gruppo di indiani d’America. Con l’aggravante che sulle terre di Ramat Shlomo e Gilo non è mai esistito nessun insediamento arabo.
Dunque, cosa ha fatto in sostanza l’amministrazione Obama? Ha persuaso i palestinesi ad avanzare pretese che essi avevano già lasciato cadere. Se Obama pretende Gilo e Ramat Shlomo, perché mai i palestinesi dovrebbero schierarsi dalla parte di Netanyahu?
In realtà non c’è molto da scoprire circa i parametri di fondo di un possibile futuro accordo di pace. Li si può agevolmente rintracciare nei parametri di Clinton, o anche nell’Accordo di Ginevra sebbene non abbia mai ricevuto un’accoglienza formale dalle due parti. Olmert si spinse fino ai limiti estremi delle possibilità di offerta da parte israeliana con ciò che offrì nel quadro di Annapolis, ed si spinse anche oltre acconsentendo a un simbolico “diritto al ritorno”. I sostenitori dell’Accordo di Ginevra – Yossi Beilin, la sinistra pacifista israeliana e indubbiamente Tzipi Livni – non hanno mai chiesto quel genere di concessione sui quartieri ebraici di Gerusalemme. In effetti, non la chiedevano nemmeno i palestinesi moderati, quelli che sostenevano gli Accordi e che accettavano la sovranità israeliana sui quartieri abitati da ebrei in tutta Gerusalemme.
Cioè, non la chiedevano finché non è arrivato Obama. Per essere ancora più chiari: a quanto pare il presidente Usa non sta coi pacifisti del versante israeliano e palestinese. Tutt’altro: alla luce di questi suoi recenti comportamenti, sembra piuttosto che stia con gli intransigenti del campo palestinese. C’è un ruolo da giocare, nel fare pressioni su Israele. Le pressioni, dopo tutto, fanno parte del gioco. Ma qui non si parla più solo di pressioni, qui si parla di rafforzare l’intransigenza palestinese.
A questo punto la domanda è: Obama saprà ammettere l’errore, oppure insisterà su una pretesa che non fa che irrobustire l’ala intransigente della parte palestinese? Se l’amministrazione Obama vuole davvero promuovere un accordo israelo-palestinese, allora deve optare senza indugi per la prima possibilità.
(Da: Jerusalem Post, 6.4.10)
venerdì 16 aprile 2010
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