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sabato 20 febbraio 2010

Basta Bugie: BASTABUGIE NR.128 DEL 19-02-10

1. BISOGNA SCEGLIERE: UN'EUROPA DELLA CROCE O DEL MINARETO?
di Roberto de Mattei

2. LA CONFERMA CHE LA DIFFUSIONE DEI CONTRACCETTIVI AUMENTA (E NON DIMINUISCE) GLI ABORTI: MOLTE ADOLESCENTI INGLESI ABORTISCONO ANCHE PIU' VOLTE IN UN ANNO
da Corrispondenza Romana

3. IL VERO SANT'AGOSTINO DI CUI SPESSO CI SI DIMENTICA...
di Francesco Agnoli

4. E' BEN CHIARO CHE I PRINCIPI NON NEGOZIABILI SONO (SECONDO IL PAPA) VITA, FAMIGLIA E LIBERTÀ DI EDUCAZIONE: ECCO PERCHE' I CATTOLICI IN PIEMONTE NON SI LASCERANNO INGANNARE
di Massimo Introvigne

5. NON C'E' NULLA CHE POSSA FAVORIRE DI PIU' IL COLLASSO DEL DARWINISMO CHE IL PROGRESSO DELLA SCIENZA
da Corrispondenza Romana

6. MATRIMONIO E UNIONI OMOSESSUALI: NOTA DOTTRINALE DELL'ARCIVESCOVO DI BOLOGNA
di Card. Carlo Caffarra

7. FRANCO BASAGLIA 1: LA FICTION CELEBRATIVA DELLA RAI TRASFORMA IN SANTO UN IDEOLOGO DI SINISTRA
di Marcello Veneziani

8. FRANCO BASAGLIA 2: LA CHIUSURA DEI MANICOMI E I DANNI DELL'IDEOLOGIA DELL'ANTI-PSICHIATRIA
di Ermanno Pavesi

9. OMELIA PER LA I DOMENICA TEMPO QUARESIMA - ANNO C - (Lc 4,1-13)
di Padre Mariano Pellegrini

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1- BISOGNA SCEGLIERE: UN'EUROPA DELLA CROCE O DEL MINARETO?
di Roberto de Mattei

Il cronista medievale Raul Glaber racconta che all’inizio dell’anno Mille l’Europa andava coprendosi di un bianco manto di chiese. I campanili svettanti nei borghi e nelle città annunciavano una nuova primavera della fede. Sorgeva la grande Civiltà cristiana del Medioevo. Da allora, nel corso dei secoli, quelle chiese e quei campanili hanno segnato il paesaggio e lo spazio pubblico europeo.
Il prof. Josef Weiler, un costituzionalista americano di religione ebraica, ricordando la storia biblica degli uomini che furono mandati a esplorare la Terra Promessa, scrive che quegli stessi uomini inviati oggi a “cercare” la Terra promessa d’Europa racconterebbero anche questo: «Che in ogni centro abitato, anche nel più piccolo, le tombe nei cimiteri recano iscrizioni diverse nelle lingue europee, ma hanno quasi tutte la stessa identica croce cristiana; a chi visiti un cimitero quella croce si ripresenta sempre uguale, immutabile anche nel tempo: è la stessa croce su una tomba del 1003, come su una del 1503, come su una del 2003.
Racconterebbero poi che non esiste città o paese di una certa grandezza che non abbia almeno una chiesa cristiana, e a volte anche più d’una; se non altro nell’Europa occidentale, dove la libertà di religione non è una conquista recente, e ha permesso alla Cristianità di esprimersi nei secoli, anche attraverso la costruzione di chiese. In certi luoghi queste chiese possono anche rimanere vuote per la maggior parte dell’anno; ma sono là, spesso di una bellezza maestosa, spesso in posizione dominante nel cuore dello spazio pubblico» (Un’Europa cristiana. Un saggio esplorativo, BUR, Milano 2003, p. 42).
La croce, simbolo di identificazione della nostra civiltà, è oggi però messa in discussione dagli stessi europei. La Corte di Giustizia di Strasburgo intima la rimozione dei crocifissi dagli spazi pubblici e giunte comunali, come quella di Lugo di Romagna ne deliberano la scomparsa dalle lapidi dei cimiteri. Un progetto di legge dello stesso tenore è allo studio del governo belga per «non offendere i musulmani».
Nell’Europa, stanca e svigorita dei nostri giorni, le croci vengono rimosse, le chiese si svuotano o vengono trasformate in alberghi, mentre spuntano sempre più numerose le moschee, all’ombra dei minareti. Le moschee e i minareti non sono elementi decorativi del paesaggio, ma espressione di una fede religiosa che si dilata nel nostro continente. «I minareti sono le nostre baionette, le cupole i nostri elmi, le moschee le nostre caserme e i credenti il nostro esercito». Così si esprimeva nel 1998 l’attuale premier turco Tayyp Erdogan citando un poeta musulmano. Non tutti gli svizzeri che hanno votato contro la costruzione di nuovi minareti in Svizzera conoscono questa citazione, ma non stupisce che essi considerino i minareti come simbolo di conquista religiosa e culturale.
Il minareto (in arabo manar, il “faro”che proietta la fede) è la torre che propaga ai quattro punti cardinali la fede islamica. Accettare il minareto significa accettare ciò che dal minareto è inscindibile: la presenza del “Muezzin” che lancia il suo appello alla preghiera e alla conversione ad Allah.
Il diritto di propagandare la propria fede è rivendicato dai musulmani in nome della “libertà religiosa”. Ma in nome della stessa libertà di religione i seguaci dell’Islam chiedono il rispetto della loro legge religiosa, che impone pratiche come la poligamia e proibisce ogni forma di “apostasia”, ovvero interdice l’abbandono dell’islamismo per convertirsi al Cristianesimo. Per i musulmani libertà religiosa significa dunque il diritto di convertire i cristiani all’Islam e il contemporaneo divieto di convertire i musulmani al Cristianesimo.
Il termine “libertà religiosa” viene invece inteso in Occidente, come “religione della libertà”, ovvero come primato assoluto della autodeterminazione dell’individuo e conseguente equivalenza di ogni religione. Ma qual è la religione oggi minacciata in Europa, quella dei musulmani o quella dei cristiani?
La Corte di Strasburgo, che ha condannato l’esposizione pubblica dei crocifissi, si pronuncerebbe contro la proclamazione della fede maomettana dalle torri dei minareti? Il crocifisso non può essere esposto in una scuola a maggioranza cristiana, ma nelle stesse città in cui non può essere esibito il crocifisso possono sorgere a volontà moschee e minareti.
Qualcuno distingue tra minareti e moschee, definendo religiosamente aggressivi i primi e “pacifiche” le seconde. Si dimentica però che le moschee non sono solo luoghi di culto, ma hanno anche la funzione di propaganda della sharī’a, la legge islamica.
L’associazione dei Fratelli Musulmani, ad esempio come ricorda Magdi Allam, «promuove l’islamizzazione della società a partire dal basso, tramite il controllo delle moschee, dei centri culturali islamici, delle scuole coraniche, di enti caritatevoli e di istituti finanziari. La tattica perseguita è quella di dar vita gradualmente a uno Stato islamico in fieri all’interno dello Stato di diritto» (Kamikaze made in Europe, Mondadori, Milano 2005, p. 22). Lo Sceicco Yusuf al Qaradawi, in una fatwa del 29 ottobre 2001, lo ha ribadito: «Da sempre la moschea ha avuto un ruolo nel jihad in nome di Allah, per combattere gli invasori, nemici di questa religione».
I Paesi islamici fanno parte di una “Conferenza Internazionale”, l’OCI, che raccoglie 57 Paesi di religione musulmana, uniti dalla consapevolezza di appartenere ad un’unica comunità di credenti, la Umma. Il fine dell’OCI è di propagare la sharī’a nel mondo e di difendere l’identità islamica dei musulmani che vivono ovunque, compresa l’Europa: quell’Europa che con la ratifica del Trattato di Lisbona espelle le radici cristiane della sua carta fondativa e apre la porta al reato di “islamofobia”.
Non ci si accusi di mancanza di carità nei confronti dell’Islam. Il rispetto per la dignità di ogni uomo, compresi i musulmani, non ci deve far dimenticare che uno solo è il vero Dio, quello che si è rivelato come uno e trino e che è morto sulla Croce per redimere i nostri peccati. Per questo il Cristianesimo – come ha spiegato Giovanni Paolo II in un discorso del 15 settembre 2002, «ha nella Croce il suo simbolo principale. Dovunque il Vangelo ha posto radici, la Croce sta ad indicare la presenza dei cristiani. Nelle chiese e nelle case, negli ospedali, nelle scuole, nei cimiteri la Croce è divenuta il segno per eccellenza di una cultura che attinge dal messaggio di Cristo verità e libertà, fiducia e speranza».
Il messaggio di Cristo continua ad accendere i cuori degli europei? Il problema di fondo non sta nell’espansione dell’Islam, ma nella perdita da parte degli europei della fiamma dell’amor di Dio, della luce della fede e della forza invincibile della speranza.

Roberto de Mattei
Fonte: Radici Cristiane n. 51 - Gennaio 2010

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2- LA CONFERMA CHE LA DIFFUSIONE DEI CONTRACCETTIVI AUMENTA (E NON DIMINUISCE) GLI ABORTI: MOLTE ADOLESCENTI INGLESI ABORTISCONO ANCHE PIU' VOLTE IN UN ANNO
da Corrispondenza Romana

L’anno scorso 5.000 ragazze inglesi al di sotto dei 20 anni hanno abortito e per tutte quante era almeno la seconda volta. Sempre in Gran Bretagna fra le donne di età compresa tra i 20 e i 24 anni le cosiddette “recidive”, come si chiamano in gergo artistico, sono state più di 15.000. queste sono alcune delle cifre snocciolate questa settimana dal dipartimento della Sanità in risposta a un’interrogazione parlamentare del ministro ombra della Salute, la conservatrice Anne Milton. La quale, dopo aver letto a novembre che la Gran Bretagna è al primo posto in Europa per aborti, soprattutto fra le più giovani, ha chiesto al governo di entrare nel dettaglio.
Sono più di 62.000 le donne che nel 2008 hanno interrotto una gravidanza almeno per la seconda volta nella loro vita, ben un terzo del numero totale degli aborti. La maggior parte di loro (oltre 46.000) erano single di tutte le età e altre 9.500 erano sposate, cui si aggiungono le oltre 6.000 di cui non si conosce lo stato civile. Stando alle statistiche del sistema sanitario nazionale, in 3.800 lo avevano già fatto almeno altre quattro volte.
Oggi in Gran Bretagna finisce così metà delle gravidanze delle teenager. A giugno il ministero della Sanità ha reso noto che, fra il 2005 e il 2008, hanno abortito 450 bambine con meno di 14 anni e 23 non avevano ancora compiuto dodici anni.
Stando ai dati dell’Eurostat, nel 2007 l’Inghilterra non soltanto si è piazzata prima in Europa per numero di aborti e sesta nel mondo (dopo Cina, Russia, Stati Uniti e Giappone), ma ha guadagnato il primato assoluto anche negli aborti fra adolescenti.
Non convinto che queste cifre siano già sufficienti a decretare il fallimento di un programma nazionale che puntava a dimezzare le gravidanze fra adolescenti entro l’anno prossimo, costato già più di 300 milioni di sterline, il governo britannico va avanti con il suo piano di battaglia, quella Teenage Pregnancy Strategy (che i pro-life hanno ribattezzato Teenage Abortion Strategy). Dopo spot cruenti per scoraggiare le gravidanze al liceo e quintali di pillole e preservativi distribuiti, ha riposto ogni speranza nel programma di indottrinamento sessuale scolastico al quale dal 2011 tutti i bambini dovranno essere sottoposti a partire dai cinque anni

Articolo non firmato
Fonte: Corrispondenza Romana, 5 Febbraio 2010

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3- IL VERO SANT'AGOSTINO DI CUI SPESSO CI SI DIMENTICA...
di Francesco Agnoli

Leggendo recentemente gli scritti e la vita di Agostino, mi sono reso conto di quanto la storia d’Europa debba al cristianesimo, in ogni senso. I santi, infatti, non sono, come si potrebbe pensare, uomini di Dio, di preghiera, di carità, e nulla più. Sono stati, in ogni tempo e in ogni paese, anche grandi civilizzatori; “umanisti” ben più straordinari dei filologi di età rinascimentale; personaggi storicamente ben più influenti degli Alessandro Magno, dei Cesare e dei Napoleone.
Checchè ne pensino i giudici di Strasburgo, non c’è quasi nulla di significativo, di duraturo, nella nostra storia, che non sia sorto all’ombra della croce: l’arte, le cattedrali, le scuole, gli ospedali d’Europa, l’idea di eguaglianza, di dignità umana... hanno origine e fondamento lì, in quell’uomo-Dio appeso ad un legno, segno di Speranza, di vittoria sulla morte e sul peccato, della Misericordia di Dio. Segno che ha suscitato imitatori potenti, uomini straordinari, santi insomma che sarebbe giusto non relegare solo all’interno degli studi teologici. Agostino, come dicevo, ne è una delle tante dimostrazioni.
Siamo nell’Africa romana del V secolo e il vescovo di Ippona parla ai suoi concittadini del Vangelo, e insegna loro un nuovo modo di vivere, di vedere i rapporti tra le persone, di pensare. Le ragazze africane si sposano a 12 o 13 anni, come è consuetudine anche nel resto dell’Impero? Agostino le invita a “riflettere bene”: “Non vi impegnate troppo presto”, dice loro. Sposatevi più tardi, più liberamente. Il matrimonio all’epoca è soprattutto questione dei genitori, e in specie dei padri? L’intervento dei genitori non è di diritto divino, spiega Agostino, altrimenti Adamo sarebbe stato presentato ad Eva da suo padre! Così si batte perché il matrimonio nasca dal mutuo consenso degli sposi, i veri ministri del sacramento. L’adulterio del maschio è tollerato, ritenuto del tutto normale, dalla legge e dall’opinione pubblica? Agostino si scaglia contro l’infedeltà degli uomini: “Le mogli si conservano caste e gli uomini non ne sono capaci?”, chiede con enfasi. E aggiunge: “Coloro che non intendono essere fedeli alle loro spose (e sono tanti) vorrebbero che io non parlassi di questo argomento. Ma io ne parlerò, che vi piaccia o no”.
I figli delle relazioni extraconiugali vengono spesso abbandonati e molti bambini esposti e lasciati morire? Agostino si batte contro l’aborto e contro ogni forma di abbandono degli infanti, ricordando che il matrimonio fedele garantisce anche nei confronti dei figli. Nella società del tempo esistono enormi differenze e ingiustizie sociali? Agostino invita alla giustizia, all’elemosina, a riconoscere il bisogno dei fratelli. Biasima duramente l’usura, e lo sfruttamento, rammentando che l’avidità non è mai sazia: “La coppa non basta mai, devono bere al fiume”.
Ricorda che la libertà del cristiano è “libertà dall’avere”, dal desiderio smodato di possedere beni materiali. I ricchi possiedono e sfruttano molti schiavi? Agostino si batte perché il matrimonio tra schiavi, ignorato dal diritto romano, sia riconosciuto, e gli schiavi abbiano finalmente diritto alla loro famiglia; condanna i padroni che approfittano sessualmente delle schiave, utilizzandole come oggetto di piacere e ricordando loro che si tratta di un peccato mortale dinnanzi a Dio. In uno dei suoi sermoni enumera i trattamenti iniqui cui gli schiavi sono sottoposti: descrive le botte, i ferri, i marchi sulla carne, protesta contro la disumanità della vendita degli schiavi, ricorda che nessun uomo è inferiore “per natura”, ed invita i cristiani ad affrancarli. Per incoraggiarli spiega addirittura, nelle prediche, quali sono le pratiche per l’affrancamento, reso più facile dagli imperatori cristiani: “Tu vuoi affrancare il tuo schiavo. Conducilo per mano in chiesa. Si fa silenzio. Viene letto il tuo atto di affrancamento oppure tu esprimi la tua intenzione in altro modo. Tu affermi di dare la libertà, perché si è dimostrato fedele in tutto nei tuoi confronti. Egli poi straccia l’atto d’acquisto”.
La gente della sua epoca si diverte nei circhi, coi giochi gladiatori, e batte le mani quando un uomo viene ucciso, quando un condannato viene sventrato dalle belve, quando un gladiatore si dimostra spietato? Agostino dice ai suoi fedeli che tutto ciò è immorale e disumano.
I funerali pagani sono caratterizzati da sontuosi banchetti e da vivande versate di continuo sulla tomba dei defunti, per placarli e tenerli buoni? Agostino invita a pregare per i propri morti, che però non hanno alcun bisogno di essere ancora nutriti col cibo dei terrestri: si facciano i banchetti funebri per i poveri che muoiono di fame, piuttosto che gettare il cibo e le bevande sotto terra! Moltissime persone sono superstizione, ricorrono all’astrologia, come faceva anche lui da giovane, ai sortilegi, al malocchio? Agostino insegna a non credere che la libertà dell’uomo è schiacciata dal volere degli astri e dei maghi e a non ricorrere agli indovini: “Cosa vogliono sapere? Sempre la stessa cosa: in che giorno intraprendere un viaggio. Quando seminare? Mi sposerò entro l’anno? Sarò felice in amore? Vi viene detto se vincerete alle corse, se avete scommesso sul colore giusto, quanto tempo vi resta da vivere”, cosa fare quando “un cane o un sasso si mette tra voi due”, quando affrontare il mare e quando seminare. Non ci credete, intima Agostino, “è ridicolo regolare la propria vita in base agli almanacchi”. Ecco, così un santo insegna al suo popolo l’eguaglianza evangelica, la dignità umana, persino il giusto atteggiamento rispetto alla natura, alle stelle, alla libertà!

Francesco Agnoli
Fonte: Il Foglio, 19 novembre 2009

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4- E' BEN CHIARO CHE I PRINCIPI NON NEGOZIABILI SONO (SECONDO IL PAPA) VITA, FAMIGLIA E LIBERTÀ DI EDUCAZIONE: ECCO PERCHE' I CATTOLICI IN PIEMONTE NON SI LASCERANNO INGANNARE
di Massimo Introvigne

Se i gruppi e le marce pro-life negli Stati Uniti fanno tremare Obama, anche in Italia da diversi anni i movimenti per la vita e per la famiglia hanno deciso di dire la loro in politica. Il Family Day del 2007 fu l’inizio della fine per il governo Prodi. Non è un mistero per nessuno che il Movimento per la Vita italiano è da molti anni vicino all’UDC. Il suo presidente, Carlo Casini – omonimo ma non parente di Pier Ferdinando –, è un parlamentare europeo eletto nelle file dell’UDC. Ora però il giocattolo si è rotto, a causa della strana alleanza in Piemonte fra l’UDC e Mercedes Bresso, la presidente della Regione che – fin dagli inizi della sua carriera politica a fianco di Emma Bonino – ha fatto del laicismo e della promozione di posizioni antitetiche a quelle cattoliche su vita e famiglia l’asse e il centro della sua militanza. In Piemonte i movimenti per la vita cattolici sono particolarmente forti, e non nuovi a iniziative di risonanza nazionale. Federvita Piemonte, la federazione dei Movimenti per la Vita e dei Centri di Aiuto alla Vita, comprende settanta associazioni diffuse su tutto il territorio piemontese, oltre a gestire case di accoglienza e asili nido: una fetta importante di un volontariato il cui peso si farà sentire alle elezioni.
All’indomani dell’annuncio ufficiale dell’alleanza fra Bresso e UDC la Federvita piemontese, con un gesto senza precedenti, ha pubblicato un durissimo comunicato che di fatto liquida i rapporti con il partito di Pier Ferdinando Casini e che non potrà non avere ripercussioni nazionali. Il documento di Federvita Piemonte afferma che “per tutto l’arco del mandato che va a concludersi, la presidente Bresso, con la sua giunta, ha connotato la sua azione con una costante e pervicace politica di opposizione alla vita e alla famiglia, violando le più elementari regole di rispetto, di aiuto e di tutela che stanno alla base della civile convivenza”. Parole che pesano come macigni, e che i settanta movimenti per la vita piemontesi illustrano con un puntiglioso elenco delle malefatte della presidente neo-alleata dell’UDC. Si comincia dalla “dichiarata e pronta disponibilità della presidente Bresso, nel corso della vicenda Englaro ad offrire un ospedale piemontese in cui poter far morire per fame e per sete una giovane donna disabile”. Si continua con “la sperimentazione, caldeggiata e difesa ad oltranza, della RU 486, che per la prima volta in Italia è stata promossa e usata nell’ospedale Sant’Anna di Torino”, accompagnata da un protocollo di applicazione della legge 194 sull’aborto che “sancisce un’aprioristica chiusura verso la partecipazione del volontariato pro-vita alla prevenzione all’aborto, promuove la diffusione della contraccezione di emergenza (aborto precoce) anche fra le minorenni, prevede l’estrema facilitazione del percorso abortivo in tutti i casi”.
Non è finita: perché oltre che contro la vita la Bresso e la sua amministrazione, incalza Federvita, sono anche contro la famiglia. I movimenti pro-life denunciano “i reiterati tentativi di cancellare quanto la precedente Amministrazione [di centro-destra], relativamente alle politiche per il diritto allo studio, aveva posto in atto per rendere effettiva la libertà di educazione”, a favore in particolare delle scuole cattoliche, e i tentativi di riconoscimento pubblico delle forme di convivenza omosessuali.
Per chi non avesse capito Federvita lo scrive nel suo comunicato perfino in grassetto: è “fortemente auspicabile un’alternativa alla rielezione di Mercedes Bresso alla guida della Regione Piemonte”. Un no ad altissima voce, dunque, alla scelta dell’UDC di sostenere la Bresso e la sua politica contro la vita e la famiglia che “viola le regole più elementari della convivenza civile”. E un appello al centro-destra perché s’impegni esplicitamente per i valori della vita e della famiglia, subito raccolto dal candidato leghista Roberto Cota il quale ricorda come – da capogruppo della Lega alla Camera – si è sempre trovato a fianco dei movimenti per la vita su tutte le battaglie che contano.
Gli ambienti pro life liquidano come irrilevanti i riferimenti dell’UDC a esponenti di centro-destra come Tondo in Friuli che sul fine vita hanno manifestato posizioni inaccettabili per i cattolici. La Bresso, si fa osservare, ben più di un Tondo è una bandiera nazionale dell’attacco alla vita e alla famiglia, e comunque adesso è di lei che si discute. Respinte al mittente anche le osservazioni dell’UDC piemontese secondo cui sarebbero “non negoziabili” per i cattolici anche i principi in materia di accoglienza agli immigrati che sarebbero violati dal centro-destra e dalla Lega. “Qualcuno – osservano sorridendo alla direzione di Federvita – deve aver letto male il Papa, per cui quella di principi non negoziabili è una nozione molto tecnica riferita a vita, famiglia e libertà di educazione”. E comunque il programma del centro-destra in materia d’immigrazione non piacerà forse a qualche monsignore ma è conforme al Catechismo della Chiesa Cattolica, il quale afferma che in vista del bene comune il diritto all’immigrazione può essere limitato.

Massimo Introvigne
Fonte: Cesnur, 4 febbraio 2010

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5- NON C'E' NULLA CHE POSSA FAVORIRE DI PIU' IL COLLASSO DEL DARWINISMO CHE IL PROGRESSO DELLA SCIENZA
da Corrispondenza Romana

Il 2009, secondo centenario della nascita di Darwin, proclamato “anno santo” dalle lobby scientiste di mezzo mondo, si è chiuso con un nulla di fatto: poche conversioni al darwinismo, dubbi crescenti tra gli stessi fedeli del biologo inglese, continua e imperterrita mancanza di prove in suo favore (che non sia la prova neo-ontologica: il darwinismo deve esistere, sennò è necessario ammettere un Creatore dell’universo), aumento notevole di increduli al dogma evoluzionista...
Le ultime settimane dell’anno hanno visto un’escalation della polemica, con le solite scomuniche evoluzioniste verso gli scettici, accompagnate da minacce di messa al mando e di morte (per ora solo civile e culturale).
Un recente testo (J. Wells, Le balle di Darwin. Guida politicamente scorretta al darwinismo e al disegno intelligente, Rubbettino, 2009, 16 €), contribuisce in modo determinante a spiegare e a demistificare i fondamenti della religione darwinista, il cui credo necessita di una fede davvero grande e cieca, si direbbe persino più grande di quella di chi, con la sola ragione, è costretto ad ammettere l’esistenza di un Dio personale come causa prima e fine ultimo di ogni cosa, uomo incluso.
Nella ottima prefazione, il curatore del testo Guglielmo Piombini mostra cosa è in gioco nelle dispute apparentemente per soli specialisti intorno alla cosmologia, alla biologia, alla genetica e alla scienza in generale. Secondo Piombini, i darwinisti sono i moderni epicurei che usano la teoria dell’evoluzione, ammessa a suo modo già da non rari fisici dell’antichità, per scalzare quella moralità che facilmente si deduce dall’organizzazione ordinata e gerarchica del tutto. «Per Epicureo e i suoi seguaci un Dio che è attivamente coinvolto nelle vicende umane e che ci giudica nell’altra vita pone delle indebite restrizioni alla nostra vita presente (…). Per annullare queste fonti di preoccupazione Epicuro propose una visione meccanicistica e materialistica della natura, vista come aggregato di entità materiali che operano secondo cieche leggi naturali» (p. XIII). Con mirabile sintesi interpretativa Piombini nota che: «La vittoria del Cristianesimo mise però in ombra (…) il materialismo (…). La riscoperta di Epicuro e Lucrezio durante il Rinascimento riaccese l’antica disputa, che si prolungò nel corso della rivoluzione scientifica del sedicesimo e diciassettesimo secolo. Nel diciannovesimo e ventesimo secolo, anche grazie alla fortuna delle idee di Darwin, in Occidente la filosofia materialista ha conquistato nuovamente il predominio nel mondo scientifico» (XIV). Quindi, secondo questa lettura, il paradigma evoluzionista sarebbe un «ritorno al passato», ad una concezione antica, pre-scientifica e filosofica del mondo: anti-filosofica in realtà, mancando di vera saggezza, di solidi fondamenti e di buon senso. «Il risultato di questa concezione dell’uomo è una cultura, dominante nell’attuale Occidente secolarizzato, che non solo ammette ma esalta e promuove l’aborto, il controllo delle nascite, l’eutanasia, l’eugenetica, gli esperimenti sugli embrioni umani, il libertinismo, il divorzio, la promiscuità e le perversioni sessuali, il consumo di droghe, la sfrenata ricerca edonistica del piacere, l’occultismo, l’esaltazione degli istinti più bestiali»: in una parola una vera cultura di morte.
La verità però vince sempre, e la lunga marcia darwinista e neo-darwinista contro di essa, si risolverà molto presto in un colossale mea culpa. Come il comunismo sembrava eterno ed è crollato a pezzi in poco tempo, trasformando magicamente in anti-comunisti o in semi-comunisti molti dei suoi più convinti sostenitori, così l’evoluzionismo in tutte le sue scuole (moderate e radicali) sarà ricordato tra alcuni anni come l’ultimo grande mito della secolarizzazione e della modernità. In tal senso, «non c’è nulla che possa favorire di più il collasso del darwinismo che il progresso della scienza» (p. XIX).

Articolo non firmato
Fonte: Corrispondenza Romana, 9 Gennaio 2010

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6- MATRIMONIO E UNIONI OMOSESSUALI: NOTA DOTTRINALE DELL'ARCIVESCOVO DI BOLOGNA
di Card. Carlo Caffarra

La presente Nota si rivolge in primo luogo ai fedeli perché non siano turbati dai rumori mass-mediatici. Ma oso sperare che sia presa in considerazione anche da chi non-credente intenda fare uso, senza nessun pregiudizio, della propria ragione.
1. Il matrimonio è uno dei beni più preziosi di cui dispone l’umanità. In esso la persona umana trova una delle forme fondamentali della propria realizzazione; ed ogni ordinamento giuridico ha avuto nei suoi confronti un trattamento di favore, ritenendolo di eminente interesse pubblico.
In Occidente l’istituzione matrimoniale sta attraversando forse la sua più grave crisi. Non lo dico in ragione e a causa del numero sempre più elevato dei divorzi e separazioni; non lo dico a causa della fragilità che sembra sempre più minare dall’interno il vincolo coniugale: non lo dico a causa del numero crescente delle libere convivenze. Non lo dico cioè osservando i comportamenti.
La crisi riguarda il giudizio circa il bene del matrimonio. È davanti alla ragione che il matrimonio è entrato in crisi, nel senso che di esso non si ha più la stima adeguata alla misura della sua preziosità. Si è oscurata la visione della sua incomparabile unicità etica.
Il segno più manifesto, anche se non unico, di questa “disistima intellettuale” è il fatto che in alcuni Stati è concesso, o si intende concedere, riconoscimento legale alle unioni omosessuali equiparandole all’unione legittima fra uomo e donna, includendo anche l’abilitazione all’adozione dei figli.
A prescindere dal numero di coppie che volessero usufruire di questo riconoscimento – fosse anche una sola! – una tale equiparazione costituirebbe una grave ferita al bene comune.
La presente Nota intende aiutare a vedere questo danno. Ed anche intende illuminare quei credenti cattolici che hanno responsabilità pubbliche di ogni genere, perché non compiano scelte che pubblicamente smentirebbero la loro appartenenza alla Chiesa.
2. L’equiparazione in qualsiasi forma o grado della unione omosessuale al matrimonio avrebbe obiettivamente il significato di dichiarare la neutralità dello Stato di fronte a due modi di vivere la sessualità, che non sono in realtà ugualmente rilevanti per il bene comune.
Mentre l’unione legittima fra un uomo e una donna assicura il bene – non solo biologico! – della procreazione e della sopravvivenza della specie umana, l’unione omosessuale è privata in se stessa della capacità di generare nuove vite. Le possibilità offerte oggi dalla procreatica artificiale, oltre a non essere immuni da gravi violazioni della dignità delle persone, non mutano sostanzialmente l’inadeguatezza della coppia omosessuale in ordine alla vita.
Inoltre, è dimostrato che l’assenza della bipolarità sessuale può creare seri ostacoli allo sviluppo del bambino eventualmente adottato da queste coppie. Il fatto avrebbe il profilo della violenza commessa ai danni del più piccolo e debole, inserito come sarebbe in un contesto non adatto al suo armonico sviluppo.
Queste semplici considerazioni dimostrano come lo Stato nel suo ordinamento giuridico non deve essere neutrale di fronte al matrimonio e all’unione omosessuale, poiché non può esserlo di fronte al bene comune: la società deve la sua sopravvivenza non alle unioni omosessuali, ma alla famiglia fondata sul matrimonio.
3. Un’altra considerazione sottopongo a chi desideri serenamente ragionare su questo problema.
L’equiparazione avrebbe, dapprima nell’ordinamento giuridico e poi nell’ethos del nostro popolo, una conseguenza che non esito definire devastante. Se l’unione omosessuale fosse equiparata al matrimonio, questo sarebbe degradato ad essere uno dei modi possibili di sposarsi, indicando che per lo Stato è indifferente che l’uno faccia una scelta piuttosto che l’altra.
Detto in altri termini, l’equiparazione obiettivamente significherebbe che il legame della sessualità al compito procreativo ed educativo, è un fatto che non interessa lo Stato, poiché esso non ha rilevanza per il bene comune. E con ciò crollerebbe uno dei pilastri dei nostri ordinamenti giuridici: il matrimonio come bene pubblico. Un pilastro già riconosciuto non solo dalla nostra Costituzione, ma anche dagli ordinamenti giuridici precedenti, ivi compresi quelli così fieramente anticlericali dello Stato sabaudo.
4. Vorrei prendere in considerazione ora alcune ragioni portate a supporto della suddetta equiparazione.
La prima e più comune è che compito primario dello Stato è di togliere nella società ogni discriminazione, e positivamente di estendere il più possibile la sfera dei diritti soggettivi.
Ma la discriminazione consiste nel trattare in modo diseguale coloro che si trovano nella stessa condizione, come dice limpidamente Tommaso d’Aquino riprendendo la grande tradizione etica greca e giuridica romana: «L’uguaglianza che caratterizza la giustizia distributiva consiste nel conferire a persone diverse dei beni differenti in rapporto ai meriti delle persone: di conseguenza se un individuo segue come criterio una qualità della persona per la quale ciò che le viene conferito le è dovuto non si verifica una considerazione della persona ma del titolo» [2,2, q.63, a. 1c].
Non attribuire lo statuto giuridico di matrimonio a forme di vita che non sono né possono essere matrimoniali, non è discriminazione ma semplicemente riconoscere le cose come stanno. La giustizia è la signoria della verità nei rapporti fra le persone.
Si obietta che non equiparando le due forme lo Stato impone una visione etica a preferenza di un’altra visione etica.
L’obbligo dello Stato di non equiparare non trova il suo fondamento nel giudizio eticamente negativo circa il comportamento omosessuale: lo Stato è incompetente al riguardo. Nasce dalla considerazione del fatto che in ordine al bene comune, la cui promozione è compito primario dello Stato, il matrimonio ha una rilevanza diversa dall’unione omosessuale. Le coppie matrimoniali svolgono il ruolo di garantire l’ordine delle generazioni e sono quindi di eminente interesse pubblico, e pertanto il diritto civile deve conferire loro un riconoscimento istituzionale adeguato al loro compito. Non svolgendo un tale ruolo per il bene comune, le coppie omosessuali non esigono un uguale riconoscimento.
Ovviamente – la cosa non è in questione – i conviventi omosessuali possono sempre ricorrere, come ogni cittadino, al diritto comune per tutelare diritti o interessi nati dalla loro convivenza.
Non prendo in considerazione altre difficoltà, perché non lo meritano: sono luoghi comuni, più che argomenti razionali. Per es. l’accusa di omofobia a chi sostiene l’ingiustizia dell’equiparazione; l’obsoleto richiamo in questo contesto alla laicità dello Stato; l’elevazione di qualsiasi rapporto affettivo a titolo sufficiente per ottenere riconoscimento civile.
5. Mi rivolgo ora al credente che ha responsabilità pubbliche, di qualsiasi genere.
Oltre al dovere con tutti condiviso di promuovere e difendere il bene comune, il credente ha anche il grave dovere di una piena coerenza fra ciò che crede e ciò che pensa e propone a riguardo del bene comune. È impossibile fare coabitare nella propria coscienza e la fede cattolica e il sostegno alla equiparazione fra unioni omosessuali e matrimonio: i due si contraddicono.
Ovviamente la responsabilità più grave è di chi propone l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico della suddetta equiparazione, o vota a favore in Parlamento di una tale legge. È questo un atto pubblicamente e gravemente immorale.
Ma esiste anche la responsabilità di chi dà attuazione, nella varie forme, ad una tale legge. Se ci fosse bisogno, quod Deus avertat, al momento opportuno daremo le indicazioni necessarie.
È impossibile ritenersi cattolici se in un modo o nell’altro si riconosce il diritto al matrimonio fra persone dello stesso sesso.
Mi piace concludere rivolgendomi soprattutto ai giovani. Abbiate stima dell’amore coniugale; lasciate che il suo puro splendore appaia alla vostra coscienza. Siate liberi nei vostri pensieri e non lasciatevi imporre il giogo delle pseudo-verità create dalla confusione mass-mediatica. La verità e la preziosità della vostra mascolinità e femminilità non è definita e misurata dalle procedure consensuali e dalle lotte politiche.

Card. Carlo Caffarra
14 febbraio 2010

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7- FRANCO BASAGLIA 1: LA FICTION CELEBRATIVA DELLA RAI TRASFORMA IN SANTO UN IDEOLOGO DI SINISTRA
di Marcello Veneziani

Non è a Franco Basaglia che dovevate dedicare un commosso ricordo televisivo a proposito della città dei matti. Non è a lui e alla sua generosa utopia, costata tante tragedie fra i malati di mente e le loro famiglie, che andava dedicata una fiction celebrativa del servizio pubblico della Rai. Ma ad un dimenticato sacerdote del sud, meridionalista concreto, che edificò dal nulla grandiose Case della divina provvidenza per accogliere i malati di mente e poi pensò, vent’anni prima di Basaglia, alla necessità di superare la triste realtà dei manicomi. E studiò un progetto umano e realistico: il villaggio postmanicomiale.
Prima di raccontarvi di lui, vorrei dirvi qualcosa di Basaglia e del ciclone antimanicomiale che da lui prese piede. Ne parlo per esperienza diretta, non in veste di matto, come forse alcuni di voi sospettano, ma perché sono nato e cresciuto nella città dei pazzi, Bisceglie. Un centro che aveva nel suo cuore un grande manicomio, il più grande del sud e qualcuno - forse malato di megalomania - diceva addirittura d’Europa. Un manicomio, la Casa della divina provvidenza, che accoglieva migliaia di malati, dava lavoro a migliaia di infermieri e medici e aveva diramazioni a Foggia, Potenza, Palestrina e Guidonia. Beh, io ricordo la tragedia prodotta dalla legge 180, cosa volle dire il «liberi tutti» ordinato alla follìa; quali drammi scatenò, quanti abbandoni e solitudini, matti allo sbando, incapacità delle strutture ospedaliere di accogliere i dementi in crisi, tormenti delle famiglie che si trovarono a dover sopportare, spesso in condizioni di povertà e di ignoranza, l’arrivo del famigliare pazzo. Quanti dolori esplosero allora e non trovarono strutture pronte ad aiutarli; leggete Mario Tobino che ebbe analoghe esperienze in manicomio da medico. Sarebbe follìa idealizzare i manicomi, ce n’erano alcuni che erano veri lager. Nessuno rimpiange la segregazione della follìa, che fu un frutto perverso del razionalismo scientista, perché i manicomi sono figli dei lumi e della scienza positivista. Sappiamo quanti maltrattamenti e abusi, anche sessuali, quante speculazioni sulla pelle dei matti. Ma la loro abolizione, insieme all’assurda teoria che la malattia mentale non esiste, ma è frutto dei rapporti di classe e delle condizioni socio-culturali, come sostenevano i seguaci sessantottini di Lang, Basaglia e dell’antipsichiatria, produsse ferite e traumi giganteschi. Di tutto questo non si racconta nella lirica epopea di Basaglia e lo si santifica come un Liberatore. L’idea che si potesse abolire la realtà e con la realtà la pazzia, fu la vera aberrazione ideologica di questa perniciosa filantropia. Fu l’egualitarismo, il comunismo applicato alla psiche; fu il delirio dell’immaginazione al potere che si fece antipsichiatria. Di Basaglia va riconosciuta la buona fede, il fervore ideale, ma non possono essere cancellati i paurosi danni della legge 180 che ancora perdurano. A loro vorrei opporre il sano realismo di quel parroco prima accennato. Si chiamava don Pasquale Uva, veniva dal mio paese e lo chiamavano Zì’ Terrone perché proveniva dalla terra e si definiva «operaio nella vigna del Signore». Mentre i meridionalisti teorizzavano il riscatto del sud negando radici, caratteri e tradizioni meridionali, quel cocciuto prete costruì dal nulla, pietra su pietra, tra collette, anticamere e testarde perorazioni, un grandioso ricovero per i malati di mente del sud. Il suo modello fu Cottolengo. Prima di condannare l’esistenza nefasta dei manicomi dovete pensare cos’era l’Italia e in particolare il sud prima che esistessero quelle strutture ospedaliere. I dementi vagavano per le strade, ridotti alla fame e agli stracci, derisi e aggrediti o a loro volta aggressivi e pericolosi. Ci vollero benemeriti come don Uva, e le suore che lo accompagnarono, le ancelle della divina provvidenza, a raccoglierli dalle strade e a dar loro cure, cibi, assistenza. Fu un progresso il manicomio rispetto alla situazione precedente. Fu un atto di pietà e di umanità, altro che segregazione. Ma don Uva capì quanta sofferenza covava dietro quelle grate e sapeva anche l’aspetto atroce dei manicomi. Così, dopo trent’anni di gestione degli ospedali psichiatrici, don Uva pensò nei primi anni Cinquanta ad una bonifica degli ospedali psichiatrici e progettò i villaggi postmanicomiali, una struttura aperta che immettesse gradualmente i malati nel mondo libero. Progettò così una città per i malati di mente che avesse al suo interno azienda agricola, pascoli, stalle, orti, vigneti e frutteti, laboratori, molini e pastifici, cinema-teatro e caffè, circoli e sale di bigliardi, impianti sportivi. Pensò cioè di accompagnare gradualmente i malati verso la guarigione e l’integrazione attraverso una struttura fondata sull’ergoterapia e la ludoterapia, il lavoro e il gioco. Al loro fianco erano previsti non casermoni cupi e ospedali-carceri ma agili strutture di cura come avrebbero dovuto essere i centri d’igiene mentale. Il progetto, insomma, era di immettere in modo graduale e in un luogo solare, intermedio tra l’ospedale e la strada, i malati di mente curabili nella vita normale, separandoli dai malati più acuti. Aveva previsto nel dettaglio un piano di spesa e individuato il sito per il primo villaggio postmanicomiale, presso il lago di Varano. Ma aveva ormai settant’anni e i primi malanni, non trovò adeguati interlocutori e poco dopo morì. Nessuno fu in grado di raccogliere l’eredità di quel progetto. Fu così che alla degenerazione degli istituti psichiatrici si oppose la follìa di chiuderli e si dichiarò cessata per legge e ideologia la malattia mentale. Oggi ne piangiamo gli effetti e romanziamo epicamente la vita e l’opera di Basaglia, seguendo l’antica etica lottizzatrice delle fiction di Stato: dopo la fiction su un santo, Agostino, una su un laico de sinistra, Basaglia; dopo un papa de sinistra, un papa de destra, per una fiction blando-revisionista tre fiction antifasciste sui partigiani e le vittime del nazismo; se c’è un De Gasperi ci vuole un Di Vittorio... Finiscono le culture e i partiti di riferimento, ma i santini no. Per carità, lo sappiamo, così va il mondo. Ma se la verità conta qualcosa, ha giovato ai dementi più l’opera del beato Pasquale Uva che la generosa ma nociva utopia di Franco Basaglia.

Marcello Veneziani
il Giornale, 8 febbraio 2010

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8- FRANCO BASAGLIA 2: LA CHIUSURA DEI MANICOMI E I DANNI DELL'IDEOLOGIA DELL'ANTI-PSICHIATRIA
di Ermanno Pavesi

Nel Manuale critico di psichiatria Giovanni Jervis scrive: “Con il nome generico di “antipsichiatria” venivano identificate nel decennio ‘60-70 una serie di tendenze che ponevano in discussione tutti i dogmi della “scienza” psichiatrica tradizionale”.
La psichiatria - la specializzazione della medicina che si occupa di disturbi psichici - è una disciplina piuttosto recente, che ha raggiunto una certa autonomia solo nel secolo XIX. La medicina occidentale dall’antichità fino all’epoca moderna aveva inquadrato i disturbi psichici in una visione generale dell’uomo che teneva certamente conto della sua realtà biologica, ma che costituiva un’antropologia di tipo filosofico. Nel corso degli ultimi secoli il progresso medico ha cercato di localizzare la malattia in strutture anatomiche sempre più precise. Questo processo è culminato verso la metà del secolo XIX anche nella nascita della psichiatria positivistica moderna, ben caratterizzata dalla tesi di Wilhelm Griesinger (1817-1868) - da molti considerato come il fondatore della psichiatria moderna di lingua tedesca - secondo cui le malattie mentali sono malattie del cervello. Se fino ad allora le malattie psichiche erano state di competenza dei medici internisti, nasce allora una psichiatria “scientifica” strettamente collegata alla neurologia, che pretende fra l’altro di essere l’unico approccio scientifico ai problemi della vita psichica, patologici e non, ed è critica nei confronti di approcci non positivisti.
Le reazioni a questo riduzionismo non tardano: in alcuni ambienti protestanti tedeschi, per esempio, disturbi psichici vengono fatti rientrare nella competenza della pastorale religiosa, sottolineando anche la possibilità della loro origine demonologica; a cavallo fra i secoli XIX e XX nei paesi di lingua tedesca si diffondono movimenti “alternativi”, che criticano lo stile di vita, l’alimentazione e l’abbigliamento della società cittadina e industriale, ne ritengono necessaria una riforma e sostengono che anche le malattie psichiche sono causate da un genere di vita non in armonia con la natura; quindi propongono vegetarismo, naturismo, astinenza dall’alcol e così via, e criticano, a volte in modo molto radicale, la psichiatria del tempo, accusata d’interessarsi soltanto degli aspetti biologici delle malattie.
Una critica radicale alla psichiatria positivista proviene anche dal Surrealismo - movimento culturale e artistico fondato nel 1918 da André Breton (1896-1966) - che, denunciando la cultura ufficiale e i valori della civiltà occidentale, propone pure il superamento della distinzione fra normalità e pazzia fino all’idealizzazione del delirio. Significativa al proposito, e interessante documento “antipsichiatrico”, è la Lettera ai primari dei manicomi, comparsa sulla rivista La Révolution surrèaliste nel 1925: “Non solleveremo qui il problema degli internamenti arbitrari, per evitare la fatica di facili dinieghi. Noi affermiamo che un gran numero dei vostri ospiti, perfettamente pazzi stando alla definizione ufficiale, sono stati, anch’essi, arbitrariamente internati. Non ammettiamo che si ostacoli il libero svilupparsi di un delirio che è legittimo, logico tanto quanto qualsiasi altra serie di idee o di atti umani. La repressione delle reazioni antisociali è, per principio, altrettanto chimerica quanto inaccettabile. I pazzi sono le vittime individuali per eccellenza della dittatura sociale [...]”.
“Senza insistere troppo sulla natura assolutamente geniale insita nelle manifestazioni di certi pazzi, nella misura in cui siamo adatti ad apprezzarle, affermiamo l’assoluta legittimità della loro concezione della realtà e di tutte le azioni che da essa derivano”.
Già in questo documento sono presenti diversi temi dell’antipsichiatria: il malato è vittima dell’oppressione sociale e la sua incapacità di conformarsi ai canoni della società viene repressa come reazione antisociale. D’altra parte, la pazzia viene interpretata non solamente come anormalità, ma anche come originalità e genialità che trasgredisce la norma ma che, contemporaneamente, può esprimere lo spirito umano in modo più spontaneo, al di fuori di ogni schematismo convenzionale.
Mentre le forme precedenti di antipsichiatria avevano interessato per lo più solo marginalmente gli specialisti, a partire dagli anni 1960 si sviluppa un movimento antipsichiatrico che coinvolge ampiamente anche addetti ai lavori. Questo movimento, sorto nei paesi anglosassoni, si diffonde progressivamente in tutto l’Occidente dove, pur facendo riferimento ad alcuni autori comuni come Ronald David Laing (1927-1989), David Cooper e Thomas Stephen Szaz, assume forme diverse nei diversi paesi, a seconda delle tradizioni psichiatriche e delle condizioni dell’assistenza nel settore.
Questo sviluppo ha senz’altro numerose cause:
- a partire dagli anni 1950 sono introdotti nella terapia psichiatrica nuovi psicofarmaci, che in certi casi consentono per la prima volta di agire efficacemente contro i sintomi delle più gravi malattie mentali. Queste nuove terapie aprono possibilità di cura fino ad allora inimmaginabili, e ciò comporta una trasformazione radicale della strategia terapeutica, del ruolo di tutti i terapeuti e anche una nuova organizzazione degli istituti di cura, ospedali psichiatrici compresi;
- l’organizzazione psichiatrica esistente non era nella situazione migliore per affrontare questa trasformazione, in parte per ragioni presenti in diversi paesi - generalmente l’assistenza psichiatrica è la Cenerentola del sistema sanitario -, ma anche per motivazioni tipicamente italiane, raramente prese in adeguata considerazione. Lo stesso Jervis sostiene che un’istituzione come il manicomio era un “centro di potere molto rilevante nell’equilibrio della comunità locale, oltre che un campo di manovre clientelari e un serbatoio di voti”. L’amministrazione dei manicomi non aveva sempre avuto come obbiettivo primario l’assistenza agli ammalati: “È significativo, a questo proposito - scrive il medesimo psichiatra -, che moltissimi manicomi abbiano un numero enorme - talora superiore a quello del personale addetto a compiti di custodia e curativi - di impiegati e di dipendenti che svolgono compiti marginali o parassitari. Ciò si spiega - ma solo in parte - col clientelismo delle assunzioni”. L’arretratezza dei manicomi dipendeva non tanto dalla psichiatria quanto dal clientelismo degli amministratori locali durante la Prima Repubblica e, in certi casi, anche dall’ideologizzazione del personale che, assunto con criteri politici, era talora più propenso a partecipare a una conduzione di tipo assembleare del manicomio che non a prendersi cura dei pazienti in modo professionale.
Il movimento antipsichiatrico denuncia l’arretratezza e il disservizio dell’assistenza psichiatrica, non si limita però a chiederne un adeguamento, ma pretende un mutamento radicale nell’approccio al problema, per esempio con l’applicazione di categorie sociologiche nella diagnosi delle malattie mentali.
Un punto importante è l’interpretazione della malattia mentale come devianza: “La follia - afferma lo stesso Jervis - è anzitutto un giudizio di devianza; in pratica è il nome che si dà a certe violazioni delle regole del vivere sociale”. La diagnosi psichiatrica non avrebbe un valore scientifico, ma dipenderebbe da categorie socioculturali ed etichetterebbe le persone non corrispondenti a un determinato modello sociale secondo i passaggi: deviante, non normale, anormale, malato. Alla psichiatria spetterebbe quindi una funzione organica al “sistema”: farsi carico dei devianti, provvedere al loro ricupero, al loro reinserimento sociale e, nel caso non fosse possibile, garantire la loro esclusione per mezzo dell’istituzionalizzazione
. Questi concetti vengono spesso integrati in una concezione marxista, per cui la malattia psichica è conflitto psichico, ripercussione di contraddizioni e di tensioni sociali. Come secondo Karl Marx (1818-1883) la storia è storia della lotta di classe, così, per una psichiatria di orientamento marxista, la storia del malato è una storia di oppressione. Quindi, secondo lo psichiatra Franco Basaglia (1924-1980), “l’unica possibilità che ci resti è di conservare il legame del malato con la sua storia - che è sempre storia di sopraffazioni e di violenze - mantenendo chiaro da dove provenga la sopraffazione e la violenza”.
Nella prospettiva dell’antipsichiatria questa storia di violenza comincia all’interno della famiglia per proseguire nella scuola e nella fabbrica: “La famiglia nucleare - sostiene Jervis - è la macchina che costantemente fabbrica e riproduce forza-lavoro, sudditi consumatori, carne da cannone, strutture di ubbidienza al potere; e anche nuovi individui condizionati in modo tale da ricostituire nuove coppie stabili, procreare altri figli, ricreare altre famiglie, e così perpetuare il ciclo. [...]”.
“Gran parte dei disturbi mentali nascono proprio da queste contraddizioni; la famiglia contemporanea, nel momento stesso in cui comincia a non funzionare più, continua a fabbricare e condizionare dei bambini che le si rivolteranno contro, o che non riuscendo a rivoltarsi diventeranno nevrotici o psicotici; oppure cittadini conformisti, soddisfatti della loro mortale ubbidienza, mediocrità e normalità”.
L’antipsichiatria accusa la scienza ufficiale di concentrare la propria attenzione sulla malattia individuale e sulle sue basi biologiche, trascurando l’origine sociale dei disturbi psichici. La pratica psichiatrica sarebbe quindi antiterapeutica in quanto i ruoli psichiatra-paziente riprodurrebbero in forma nuova i rapporti di potere e di sopraffazione alla base dei disturbi da curare.
“Il nuovo psichiatra sociale - scrive Basaglia -, lo psicoterapeuta, l’assistente sociale, lo psicologo di fabbrica, il sociologo industriale (per non citarne che alcuni) non sono che i nuovi amministratori della violenza del potere, nella misura in cui - ammorbidendo gli attriti, sciogliendo le resistenze, risolvendo i conflitti provocati dalle sue istituzioni - non fanno che consentire, con la loro azione tecnica apparentemente riparatrice e non violenta, il perpetuarsi della violenza globale”.
L’antipsichiatria auspica che lo psichiatra rifiuti il proprio ruolo, sottolinei l’origine sociale dei disturbi psichici e s’impegni nell’eliminazione delle contraddizioni sociali e quindi per la trasformazione della società: sempre secondo Basaglia si deve “[...] continuare a minare - ora attraverso la comunità terapeutica, domani attraverso nuove forme di contestazione e di rifiuto - la dinamica del potere come fonte di regressione, malattia, esclusione e istituzionalizzazione a tutti i livelli”.
L’antipsichiatria ha denunciato senz’altro a ragione la scarsa attenzione di alcuni indirizzi psichiatrici verso i fattori sociali coinvolti nell’insorgere di malattie psichiche e rilevanti per il loro decorso, ma ha portato a eccessi e all’ideologizzazione del problema della malattia mentale. Per esempio, non è accettabile il concetto molto vago di violenza come trauma all’origine di disturbi psichici, che, nel caso della famiglia, può indicare non solo violenze vere e proprie, come abuso sessuale o maltrattamenti, ma anche solo l’educazione impartita da genitori che svolgono seriamente la loro funzione. La famiglia in sé diventa, in questa prospettiva, un’“istituzione della violenza”.
Il movimento antipsichiatrico ha ispirato anche la legge n. 180 del 1978, nota come Legge Basaglia, che ha abolito gli ospedali psichiatrici e ha così impedito di trovare una soluzione al problema della degenza psichiatrica. Il sospetto di fondo nei confronti della pratica e della terapia psichiatriche non permette la progettazione di strutture atte alla cura e alla riabilitazione di malati psichici, in quanto un intervento di questo tipo viene considerato una forma di esclusione, di colpevolizzazione e di punizione del paziente.

Ermanno Pavesi
Fonte: Dizionario del Pensiero Forte

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9- OMELIA PER LA I DOMENICA TEMPO QUARESIMA - ANNO C - (Lc 4,1-13)
di Padre Mariano Pellegrini

Siamo giunti alla prima domenica di Quaresima e il Vangelo di oggi ci presenta uno degli episodi più misteriosi della vita di Gesù: le tentazioni a cui fu sottoposto nel deserto da parte del demonio. Questo episodio ci insegna innanzitutto che il demonio esiste, che abbiamo un nemico delle nostre anime, il quale continuamente attenta al nostro bene. Il demonio fa di tutto per non essere scoperto, ci fa credere che lui non esista, per poter agire indisturbato. Dobbiamo dunque aprire bene gli occhi e difenderci con le armi della preghiera.
Gesù è tentato. Si tratta solo di tentazioni esterne, non di quelle interne, dovute alla concupiscenza. Era comunque impossibile che Gesù potesse soccombere a quelle tentazioni del demonio. Egli ha voluto comunque fare sue le nostre tentazioni per donarci la sua vittoria.
Inizialmente, il demonio disse a Gesù: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane» (Lc 4,3). Ma Gesù rispose: «Non di solo pane vivrà l’uomo» (Lc 4,4). Con questa prima tentazione, il demonio induce tante volte l’uomo a ricercare unicamente il benessere materiale e a disinteressarsi completamente del bene della sua anima. Impariamo da Gesù a ricercare principalmente il Regno dei Cieli e la sua giustizia, pensando che Dio è un Padre provvidente che non lascerà mancare nulla a coloro che in Lui confidano.
Il demonio tentò Gesù una seconda volta e gli disse mostrandogli tutti i regni della terra: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria [...]. Se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo» (Lc 4,6-7). Questa tentazione ha come scopo quello di indurre l’uomo a mire ambiziose, ad aspirazioni al potere, al successo, alla gloria umana. Ma dietro queste aspirazioni, tante volte, si nasconde l’insidia di satana. L’uomo, pur di arrivare a queste mete, tante volte è disposto a scendere a compromesso con il peccato e a dare gloria non a Dio ma al maligno. Gesù allora rispose: «Sta scritto: il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto» (Lc 4,8), insegnandoci così a non lasciarci ingannare dal luccichio della gloria mondana.
La terza volta il demonio disse a Gesù: «Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù di qui» (Lc 4,9), presumendo che gli angeli lo avessero portato sulle loro mani. Fu una tentazione di presunzione, la tentazione di avere un Dio a nostro capriccio; la tentazione che Dio faccia la nostra volontà, invece del contrario. E’ la tentazione di disporre dei miracoli a proprio piacimento, di pretendere che Dio si faccia vedere; la tentazione addirittura di giudicarlo. Gesù rispose con queste parole: «Non metterai alla prova il Signore Dio tuo» (Lc 4,12). Gesù ci fa comprendere come siamo noi a dover compiere l’adorabile Volontà di Dio. In questo consiste la nostra felicità: nell’obbedire a Dio.
L’episodio delle tentazioni del deserto ci fa riflettere su quelle che sono le nostre tentazioni. A differenza di Gesù, noi tutti siamo inclinati verso il male e dobbiamo continuamente lottare contro i nostri vizi. Dobbiamo difenderci con le armi che abbiamo a nostra disposizione. Le armi sono quelle dell’umiltà, della carità e della preghiera.
Prima di tutto dobbiamo avere l’umiltà di non presumere di noi stessi, l’umiltà di allontanare le occasioni prossime di peccato, l’umiltà di ricorrere senza indugio al consiglio spirituale di un buon direttore spirituale e l’umiltà di manifestare sinceramente le nostre colpe al sacerdote nella Confessione.
Poi abbiamo la carità che mette letteralmente in fuga il demonio. Durante questa Quaresima facciamo dei propositi generosi di spendere un po’ del nostro tempo nel soccorrere chi è nel bisogno, nel riconoscere, amare e servire Gesù nella persona del nostro prossimo.
Infine, abbiamo la preghiera che ci fa superare le nostre debolezze e ci riveste della fortezza di Dio. Al primo apparire della tentazione dobbiamo subito ricorrere all’orazione, confidando pienamente che Dio non ci abbandonerà. Prestiamo grande attenzione soprattutto alle parole del Padre Nostro: «Non ci indurre in tentazione», che significano: non ci abbandonare al momento della prova.
La nostra preghiera avrà un’efficacia particolare se ci ricorderemo di invocare con fiducia la Vergine Santissima, Colei che è la Vincitrice sul demonio e su tutte le sue tentazioni. Il Signore si è servito di Lei per schiacciare la testa al serpente infernale, proprio per la sua profonda umiltà. Ed è sempre grazie a Lei che si superano le prove. Quando sorgono dunque delle tentazioni, invochiamola e tornerà presto il sereno.

Padre Mariano Pellegrini
Fonte: Il settimanale di Padre Pio, (omelia per il 21 febbraio 2010)

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