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sabato 13 febbraio 2010

L’integrazione impossibile

L’integrazione impossibile

Riportiamo lo stralcio di un articolo apparso sul Corriere della Sera, che dimostra quanto sia utopistico parlare di integrazione per vincere il terrorismo, se persino a Londra, capitale europea del multiculturalismo, succede quanto sotto riportato.
"Quando ha saputo della morte del figlio in guerra santa, la madre ha ululato di gioia ed offerto dolci ai vicini"

LONDRA - Wahir Shadjareh ha 19 anni, un lavoro part-time e un eroe. Non il biondo David Beckham, però. «Si chiama Yasser e ha combattuto in Iraq. Abita a pochi isolati da casa mia, ma non ti ci posso portare. E' un mujahed. Subito dopo la fuga di Saddam Hussein è partito assieme a suo fratello per liberare le terre musulmane dagli infedeli. Si è addestrato e ha sparato contro i soldati americani. Durante la Guerra Santa, il fratello è stato ucciso. E quando Yasser è tornato qui a Londra per raccontarlo alla loro madre, lei ha ululato di gioia, ha aperto la casa per le condoglianze e ha offerto dolci a tutti i visitatori in onore del figlio martire. Yasser è uno dei pochi che conosco che può dire di aver fatto qualcosa di grande nella vita: la Jihad, la Guerra Santa».

La famiglia Shadjareh è emigrata dal Pakistan negli anni '70. I tre figli sono nati in Gran Bretagna e parlano meglio l'inglese dell'urdu. In una cartelletta arancione ci sono i cinque passaporti di Sua Maestà. Sono musulmani, ma solo dopo l’11 settembre 2001 il padre, Foisal, ha cominciato a farsi vedere regolarmente in moschea e mamma Roulena ha deciso di coprirsi i capelli quando esce di casa. E' il giudizio dei vicini a pesare. Chicksand è un quartiere al 90 per cento musulmano. «Un atteggiamento diverso sarebbe visto come un tradimento nei confronti della comunità» spiega Foisal, commesso in un negozio di cartoleria del centro.

Alle 7.30 Wahir è l'ultimo della famiglia ad alzarsi dal letto. A colazione si mangia all’inglese uova, corn flakes e tè. La cena è orientale con riso, uvetta e spiedini alla piastra. I due fratelli maschi dormono sullo stesso divano letto che occupa praticamente l’intera sala, la sorella ha una cameretta per sé, così come i genitori. «Le mattine che non devo lavorare vado in un Internet Café per partecipare ai forum islamici e sapere che cosa è successo in Terra Santa, in Iraq, in Afghanistan. Oppure in Edgware Road, proprio dove è esplosa una delle bombe, a leggere un giornale arabo e fumare il narghilé», la pipa ad acqua. «Con i soldi che guadagno non devo rendere conto a mio padre di ciò che faccio. A pranzo mangio in un centro culturale islamico vicino a casa. E' lì che ho imparato l'arabo. I corsi sono gratuiti, finanziati dalle elemosine. Ho voluto impararlo a causa dell'11 settembre. Avevo 15 anni e il mondo mi ha puntato addosso il dito: musulmano cattivo. Volevo capire e ho visto l’oppressione, il colonialismo, l’imperialismo con cui l’Occidente ha sempre schiacciato l’Islam. Adesso i terroristi siamo noi, ma il genocidio dei palestinesi, i milioni di morti per fame, il furto del petrolio con la complicità dei governi fantoccio, che cosa sono se non una guerra?». Al pomeriggio Wahir fa volontariato in moschea. Senza questo porto fisso, la sua giornata sarebbe un estenuante girovagare tra disoccupati, caffè e parchi. I ragazzi leggono il Corano e discutono.

Amici occidentali? «Sì, se convertiti».
Dhobir Azad, però, è egiziano. «L’attacco alle Twin Towers - dice - è un complotto sionista. Lo sanno tutti che gli ebrei quel giorno non sono andati a lavorare». Prove? Mistero. La discussione muore lì, sotto gli occhi dei supervisori anziani. Si avvicinano le 18.30, l’ora di cena per i Shadjareh. La casa dove è nata una delle vittime del metrò è a pochi isolati dal loro appartamento. E' Shahara Akther Islam, la ventenne musulmana che il quotidiano Independent ha messo in prima pagina come simbolo del mix culturale britannico. Impiegata in banca vestiva Gucci e Burberry. Il velo solo quelle rare volte in moschea. Ce ne sono tante di ragazze e ragazzi così a Londra. Ma non sono la maggioranza. Anzi. Il 52% dei giovani musulmani è «economicamente inattivo», una percentuale tre volte superiore a quella di ogni altro gruppo religioso.

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