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mercoledì 9 giugno 2010

La deriva fondamentalista turca Di Alberto Rosselli

La Turchia si ‘islamizza’ sempre più, ma l’America e molti Stati europei occidentali (Italia inclusa) non sembrano accorgersene, dando per buone le eterne promesse di liberalizzazione del sedicente premier laico  Recep Tayyp Erdogan, in realtà sempre più orientato a fare comunella con i partiti fondamentalisti anatolici e con l’Iran. Come è noto, fin dal meeting di Praga del 5 aprile 2009, il presidente americano Barack Obama, insistette affinché perché l’Europa spalancasse al più presto le porte alla “laica e democratica” Turchia, Paese che gli statunitensi hanno sempre considerato una specie di antemurale all’ondata del radicalismo islamico ed anche un efficace ‘filtro’ alle ambizioni iraniane. Considerazioni che, allo stato attuale, in realtà si basano su osservazioni e calcoli del tutto errati e per nulla condivisi dalle due più forti nazioni UE, cioè Francia e Germania. Queste, per voce dei premier Nicholas Sarkozy e Angela Merkel si sono opposte ad una cooptazione della Turchia in quanto giustamente preoccupati per la deriva fondamentalista in atto nel Paese e per il citato riavvicinamento di Ankara, Teheran ed anche a Damasco. Una riconciliazione che, poche settimane fa, si è concretizzata in una vera e propria alleanza economico-militare imbarazzante per l’Occidente e pericolosa per Israele. Ora, la posizione assunta con lucidità da Germania e Francia costituisce un fatto molto importante, in quanto annulla o perlomeno disarma l’incomprensibile ecumenismo spinto della UE, quello che nel dicembre del 2004 – grazie all’appoggio del presidente Jacques Chirac e del cancelliere Gerhard Schröder – portò a stabilire il famoso calendario dei negoziati per accorpare la Turchia che, per la cronaca, non ha mai ottemperato a tutti gli obblighi imposti dalla carta di Copenhagen, soprattutto quelli in materia di diritti umani e più in generale di democratizzazione delle sue istituzioni interne. Condizioni, quelle europee, che proprio in questi ultimi tempi sono state respinte con forza dal premier Erdogan in quanto ritenute “lesive dell’autonomia di una nazione già libera e moderna; una nazione dove la laicità, valore tramandatoci dal grande Padre Mustafa Kemal Atatürk, convive con un sentito, ma moderato e non invasivo sentimento religioso”. Affermazione, questa, in realtà assai difficile da sostenere, in quanto il Paese anatolico si sta progressivamente (e rapidamente) de-laicizzando. L’idea di una Turchia laica è infatti un ricordo del passato e  gli unici a crederci sono, incredibilmente, gli europei, totalmente a digiuno circa i principi e le immutabili dinamiche culturali e storiche che regolano una società musulmana. Se è vero che dopo la Prima Guerra Mondiale, la Repubblica, sorta dalle rovine dell’Impero Ottomano, crebbe effettivamente permeata da forti sentimenti laicisti culminati nella secolarizzazione forzata del kemalismo, è altrettanto vero che, già a partire dagli anni Settanta, nonostante l’appoggio spesso violento, fornito all’esecutivo dalla casta militare posta a difesa dell’eredità di Atatürk, Ankara – pressata dalla potente setta-partito dei Fratelli Musulmani, ha cambiato decisamente rotta per poi cedere, di lì a poco, alla tentazione fondamentalista (nel 2002, l’AKP o Partito della Giustizia e dello Sviluppo dell’’europeista’ Erdogan, ha conquistato il potere con il 46,5 per cento dei consensi grazie proprio alle simpatie espresse dal premier nei confronti del ventre islamico anatolico. A partire dagli anni Novanta, l’islamismo – inteso come religione e ideologia – ha poi guadagnato, ad ogni tornata elettorale, seggi su seggi, sempre grazie alle aperture ai religiosi fatte da Erdogan e dal presidente Abdullah Gül, entrambe discepoli di Necmettin Erbakan (attualmente membro del Saadet Partisi o Partito della Felicità), grande sostenitore del ritorno alla shari’a e promotore della reislamizzazione turanica, ben vista anche dai partiti ultra nazionalisti che aspirano, tra l’altro, ad un ricongiungimento con i Paesi dell’Asia Centrale turcofona. Oggi come oggi – in virtù di quanto detto - la Turchia è diventata il Paese musulmano non arabo a più elevato rischio di contaminazione fondamentalista. Non a caso, la Turchia è al primo posto nella graduatoria delle nazioni musulmane per quantitativo di moschee attive (ben 85.000: una per ogni 350 cittadini), ed è anche la nazione dove i religiosi-attivisti godono dei più ampi favori (sono ben 90.000 gli imam stipendiati dallo Stato). Ma non è tutto. Parallelamente alla ricomparsa del velo nelle strade e nei luoghi pubblici, la chiamata dei fedeli  in lingua araba (idioma proibito da Atatürk) dei muezzin scandisce ormai le giornate della modernizzata metropoli Istanbul, rievocando miti e tradizioni secolari nei confronti dei quali perfino la nomenklatura militare (paradossalmente malvista dai ‘democratici’ Paesi della UE) stenta ad opporsi, anzi, appare incline ad adeguarsi per non correre il rischio di soccombere e perdere il propri ruolo e prestigio.

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