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sabato 8 gennaio 2011

Giusto richiamo di La Russa ad una maggiore trasparenza sulle operazioni militari di Stefano Magni

«Mai più notizie in ritardo», promette il ministro della Difesa Ignazio La Russa in una conferenza stampa, convocata al rientro dalla sua visita in Afghanistan. Per giorni non abbiamo saputo come fosse morto l'alpino Matteo Miotto. Solo dopo un'attesa troppo lunga abbiamo appreso che il nostro militare era caduto nel corso di un combattimento.
E si riapre il dibattito sulla trasparenza del nostro intervento militare nella missione Isaf. Sembrerà a molti un paradosso, ma è un governo di centrodestra e non la «democratica» sinistra a promuoverla. Quando era Prodi al governo, noi dell'Afghanistan sapevamo poco o nulla. Solo qualche giornalista indipendente, come Fausto Biloslavo (per Panorama), Enrico Piovesana (per PeaceReporter) e Gianandrea Gaiani (per Analisi Difesa), nel 2007 e nel 2008 commentava i fatti sul campo, documentando le battaglie combattute dal nostro contingente. Per il resto: silenzio. Come se in Afghanistan non ci fosse una guerra. Merito dell'errata interpretazione dell'articolo 11 della Costituzione, che secondo la sinistra imporrebbe un'assoluta non-violenza. Mentre, se letto bene, ci impedisce di condurre guerre offensive, o di risolvere con le armi «controversie internazionali», ma non ci vieta affatto di difendere il governo di Kabul nell'ambito di una missione internazionale approvata dall'Onu. L'idea che l'Italia ripudi tutte le guerre stende un velo di ipocrisia che fa a pugni con le nostre missioni all'estero. Se si combatte, anche per autodifesa, non lo si deve dire. Se un soldato italiano muore facendo il suo dovere, si deve camuffare il suo decesso in un incidente. Non rendendo onore ai caduti, tantomeno ai soldati che continuano a combattere.
Di un'altra missione avviata per volontà del governo di sinistra, la Unifil2 in Libano, sappiamo ancora meno. Fortunatamente in Libano non si combatte dal 2006, ma la situazione resta tesa e in almeno due occasioni (nel 2007 e nel 2008) ha rischiato di scoppiare di nuovo. I nostri soldati e quelli di altri contingenti europei sono stati coinvolti più volte in incidenti con la popolazione, con gli Hezbollah e con l'esercito libanese. Ma di questi eventi sappiamo qualcosa solo in ritardo e quasi sempre grazie alla stampa israeliana. Per esempio siamo venuti a conoscenza solo indirettamente del recente scoppio di un deposito di armi nel Sud del Libano, con conseguenti scontri fra i caschi blu e la popolazione locale. Così come abbiamo letto sui giornali israeliani della pattuglia Unifil italiana disarmata dagli Hezbollah, dei momenti di tensione con le milizie del Partito di Dio.
Sappiamo pochissimo, anche se ci sono meno spunti per notizie interessanti, anche di altri due fronti in cui siamo massicciamente impegnati: Kosovo e Bosnia. Solo pochi si interessano dello sviluppo (e delle tensioni etniche rimaste, in alcuni casi cresciute, come in Kosovo) in due regioni dei Balcani in cui si combatteva duramente fino a 10 anni fa.
Insomma, in Italia non abbiamo sviluppato ancora una cultura dell'informazione di guerra. I cronisti al fronte non mancano, mancano gli «embedded», con tutta la loro esperienza di reporter che seguono l'esercito, giorno dopo giorno. Manca un interesse, negli editori, prima ancora che nell'opinione pubblica, a documentare sistematicamente le azioni dei nostri soldati. Salvo, poi, non lesinare la retorica quando qualcuno di loro muore facendo il suo dovere. L'invito a cambiar registro non dovrebbe venire da un ministro. Ma dalla stampa, dai media, dalle stesse forze armate. Però, in mancanza di altri stimoli, ben venga un ministro della Difesa che invita ad essere più trasparenti.

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