Sulla vicenda Fiat bene Marchionne, ma anche la Fiom ha le sue ragioni. Sulle alleanze porte aperte al Terzo Polo, ma anche alla sinistra di Nichi Vendola. Sulle primarie non si torna indietro, ma occorre anche una riflessione sulla loro utilità. L'elenco potrebbe continuare, ma ci fermiamo ai tre temi di maggiore attualità. La sostanza è sempre la stessa: non c'è argomento all'ordine del giorno nel dibattito politico italiano su cui il Partito Democratico riesca ad assumere una posizione netta ed univoca, o di qua o di là: o con l'ad di Fiat o con i metalmeccanici Cgil, o per una strategia di centro-sinistra col trattino o per una riedizione sotto altre forme dell'Unione prodiana, o per le primarie o contro le primarie. E meno male che il «ma-anchismo» avrebbe dovuto essere archiviato assieme al suo fondatore e massimo propugnatore, l'ex segretario e candidato premier nel 2008, Walter Veltroni. Invece pare che questa perniciosa malattia politica sia congenita al partito che avrebbe dovuto rappresentare il nuovo volto della sinistra italiana, il salto in avanti verso una gauche moderna ed europea, dall'identità ben definita e con un programma chiaro, capace di contendere il governo del Paese al centrodestra berlusconiano.
Ma passano i giorni, passano gli anni, passano i segretari, e di questa identità e di questo programma non vi è neppure l'ombra. E' evidente, dunque, che non è soltanto un problema di persone, ma anche e soprattutto di Dna. Un problema, cioè, che riguarda l'essenza stessa e l'autocoscienza del maggiore partito di opposizione. Su questo punto, la confusione regna sovrana oggi così come regnava sovrana al momento della nascita del Pd. Romano Prodi e Arturo Parisi lo immaginavano e ne parlavano come lo spazio fisico del dossettismo realizzato, il luogo nel quale avrebbero dovuto finalmente fondersi, motivati dalla comune coscienza politica incardinata nella Costituzione del '48 e nell'antifascismo, cattolici e (post) comunisti; altri, come Massimo D'Alema e Franco Marini, lo consideravano un inevitabile matrimonio d'interesse nel quale le distinzioni culturali tra i due contraenti avrebbero dovuto rimanere tali; altri ancora, come Walter Veltroni, lo presentavano come il naviglio agile e leggero capace di andare oltre le appartenenze del passato ed intraprendere così la navigazione nel mare aperto del riformismo contemporaneo. Con prospettive così radicalmente diverse alle spalle - ognuna delle quali comportante scelte strategiche tra loro assai divergenti - era inevitabile che, senza una previa chiarificazione in proposito, il Partito Democratico finisse con l'impantanarsi nella palude che i suoi stessi fondatori avevano contribuito a creare. E così è accaduto.
Oggi, dunque, a più di tre anni di distanza dalla sua nascita, il Pd è di fatto costretto, nella perdurante incertezza circa la sua identità e la sua missione nel Paese e tra le forze presenti nel panorama politico nazionale, a oscillare perennemente tra posizioni di retroguardia, dettate dal retaggio ideologico dei partiti che in esso sono confluiti, e posizioni più moderne e all'avanguardia, che caratterizzano - o hanno caratterizzato negli anni scorsi - le più avanzate esperienze di governo della sinistra in Europa. Chi ha seguito, ormai più di un anno fa, il dibattito innescato da un articolo sul Messaggero in cui Romano Prodi imputava al nuovo laburismo blairiano di essere all'origine della perdita di identità della sinistra europea e la causa del suo cedimento a destra, può ritrovare ancora oggi la tensione tra queste due prospettive nel quotidiano dibattito politico interno al Pd. Un partito i cui segretari pro tempore, per non scontentare nessuno - né i «modernisti» né i «tradizionalisti» né coloro che stanno in posizione mediana - e per tenere in piedi la vacillante costruzione democrat, finiscono col dare ragione un po' agli uni e un po' agli altri, oppure a tutti contemporaneamente, e torto a nessuno. Con tanti saluti alla chiarezza, al programma e alla costruzione di un'alternativa credibile di governo. E con l'inevitabile conseguenza di rimanere ostaggi del «ma-anchismo», che ad oggi appare come l'unico tratto certo dell'identità del Pd.
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