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sabato 8 gennaio 2011

Saviano e le mezze verità di Francesco Natale

Per raccontare in maniera convincente una bugia è indispensabile conoscere almeno una parte
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 consistente della verità che si vuole falsare. E' un assioma della comunicazione: un assioma che, in apparenza, consente addirittura di non mentire mai nel senso pieno del termine, ma, più precisamente, di indurre surrettiziamente nell'interlocutore l'autoconvincimento, la percezione distorta della realtà, conclusioni falsate che partono però da presupposti giusti. E' la peggiore e più letale, ideologicamente parlando, delle mistificazioni, in base alla quale coloro che si accreditano come giornalisti/scrittori «liberi» e «oggettivi», poiché si limitano a riportare fatti di cronaca, riscrivono in realtà la storia. Peggio: attraverso una accorta commistione di correttezza politica, decontestualizzazione dei fatti, limatura di ogni possibile punto controverso o comunque scomodo, spingono l'interlocutore stesso a riscrivere nella propria mente la storia e, susseguentemente, ad adottarla come Vangelo, nella ferma ed intima convinzione che alla «verità» si è giunti in maniera autonoma, senza alcuna induzione forzata da parte di un soggetto terzo.
Lasciamo per un attimo la parola a J.R.R. Tolkjen per spiegare meglio il concetto, citando un passo dal decimo capitolo de «Le Due Torri», secondo libro de Il Signore degli Anelli, La Voce di Saruman: «Improvvisamente si udì un'altra voce, lenta e melodiosa. Coloro che l'ascoltavano imprudentemente, di rado riuscivano a riferire le parole che avevano udito, e se vi riuscivano rimanevano stupefatti, perché sembravano spoglie di qualunque potere. Rammentavano soltanto, di solito, che era una delizia ascoltare quella voce, e che tutto ciò che essa diceva pareva saggio e ragionevole: nasceva allora in essi il desiderio di sembrare anche loro saggi, accondiscendendo rapidamente. Quando qualcun altro prendeva la parola, dava per contrasto l'impressione di essere rozzo e goffo, e se contraddiceva l'incantevole voce, nel cuore di chi era soggiogato avvampava la collera. Per alcuni l'incantesimo durava solo finché a voce si rivolgeva a loro personalmente, e quando parlava a qualcun altro essi sorridevano come chi ha indovinato il trucco di un prestigiatore, mentre gli altri sono ancora sbalorditi. A molti bastava udirne il suono per essere avvinti; vi erano infine i succubi, coloro che rimanevano vittime dell'incantesimo, e che ovunque fossero udivano la dolce voce bisbigliare, istigandoli. Ma sino a quando il padrone la controllava, nessuno rimaneva impassibile, nessuno riusciva a respingerne la implorazioni e i comandi se non con l'aiuto di una grande forza di volontà e di spirito».
Ora, non vogliamo certo attribuire a Roberto Saviano il patentino di mistificatore, né sottendere e dare per scontata la sua mancanza di buona fede, e neppure paragonare la sua «timidezza espositiva» alla malvagia magniloquenza di Saruman il Bianco, ma i conti non tornano. Questo per una semplice ragione: siamo contenti che lo showcase di Saviano sia andato in onda. Ma pretendiamo di più. Da chi ha promesso Verità a piene mani, pretendiamo Verità. Tutta la Verità. Senza limature o autocensure di comodo. Perché fino ad ora ci si sente come spettatori di una brutta partita di tennis, dove un ipotetico novello Bjorn Borg, dopo aver promesso un ace ad ogni battuta, si ritrova a metà set con un bel 0-0, la racchetta rotta, la Lacoste sdrucita e il raccattapalle che lo prende in giro.
Al di là dello sproloquio abbastanza futile sulla cosiddetta «macchina del fango», ben più interessante è stato il discorso che lo scrittore ha fatto in riferimento a Giovanni Falcone, citando date, dati, documenti, situazioni. Realtà, insomma. Ma perché cadere nel nulla proprio sul più bello? Nessun riferimento alla conflittualità aperta tra il compianto magistrato e Leoluca Orlando, il quale addirittura arrivò a redigere un esposto al Csm contro Falcone. Dell'accorata e sentita dichiarazione di Ilda Boccassini Saviano ha riportato solo la seconda parte, quella che inerisce al ricordo dell'uomo e del giudice, ma non la prima, nella quale il pm milanese attacca Magistratura Democratica, la sua corrente di appartenenza, come ben riporta Filippo Facci.
Nessuna menzione riguardo al fatto che Giovanni Falcone non avesse mai ammesso come plausibile l'esistenza del cosiddetto «terzo livello», ovvero l'esistenza di rapporti diretti e diffusi tra mafia e vertici della politica. Nessuna menzione del fatto che Falcone avesse denunciato il «pentito» Pelligritti per calunnia in riferimento a talune esternazioni pilotate tese ad infangare Salvo Lima e Giulio Andreotti. Nessuna menzione riguardo all'offensiva ideologica di cui Falcone fu fatto oggetto non solo da gran parte dei suoi colleghi ma anche dall'Unità, che gli affibbiò il nomignolo di «superprocuratore», e da Repubblica, che arrivò a definirlo «guitto televisivo».
Saviano ha citato l'attentato fallito all'Addaura, ricordando giustamente che tanti, tantissimi ritennero tale attentato una montatura organizzata da Falcone stesso in accordo coi servizi segreti per... «farsi pubblicità». Ma di questi tanti, tantissimi lo scrittore partenopeo non ha avuto cuore di fare un singolo nome (vi aiutiamo noi). Perché tutto questo timor sacro, questa timidezza insulsa? Stiamo peraltro parlando di notizie di pubblico dominio, che è doveroso citare per completare un quadro altrimenti farraginoso, nebuloso, incongruo.
Per questo siamo delusi e preoccupati. Delusi perché da chi ha a disposizione uno spazio unico, ovvero mezz'ora di monologo televisivo, ci si aspetta molto di più. Preoccupati perché il mosaico costruito da Saviano, pur interessante nella sua drammaticità ma decisamente incompleto, troppo facilmente può indurre manipolazioni, distorsioni, speculazioni fantasiose. Tutto, quindi, ma, allo stato attuale, non la percezione della Verità...

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